LETTURE / THELONIOUS MONK


di Robin D.G. Kelley / Minimum Fax, Roma, 2012 / pp. 806, € 22,00


Biografia fluviale di un genio

di Marco Maiocco

 

Joseph Campbell, grande studioso di letteratura e soprattutto tra i massimi esperti di mitologia comparata del secolo scorso, sosteneva che l’artista è colui che deve far da tramite tra il mito e la comunità (cfr. Campbell, 2012 e anche Buzzati, 2011, Zentner, 2012). Questa la sua funzione principale in una società come la nostra, quella occidentale (intendiamo), che in qualche modo potremmo definire denarrata, proprio perché ha smarrito il senso del racconto di un intimo rapporto tra sé e la natura, nel significato più ampio del termine. In un ambiente culturale in cui a prevalere sono la tecnologia, l’individualismo e le convenzioni, buone o cattive che siano (l’eterna domanda antropologica se l’essere umano sia natura o cultura rimane irrisolta), l’artista è colui che può riportare in vita il mito, è l’ultimo sciamano in grado di riveicolare quel perduto e complesso apparato metaforico, indispensabile agli esseri umani per costruire un equilibrio armonico tra loro stessi e la complessità (o semplicità) – spesso dolorosa per l’ineliminabilità della morte e del dolore – dell’esistenza. Perché, come qualcuno ha scritto, l’inverosimile aiuta a esaurire il verosimile. Un po’ quello che sosteneva Sun Ra, dispensando la sua musica arkestrale intrisa della sua arcaica, cosmologica, cosmogonica, e futuristica mitologia. E d’altronde cos’è la storia del jazz se non uno straordinario e caleidoscopico “romanzo” collettivo di formazione, sorta di “corpus mitologico originario” in grado letteralmente di orientare ed educare spiriti e coscienze? Una policroma narrazione, all’interno della quale il pianista afroamericano Thelonious Monk ha svolto un ruolo centrale.

Monk è stato forse uno degli artisti più mitopoietici dell’intera storia del jazz. La sua è davvero stata una rivoluzione musicale, espressa in un “tumulto” sonoro, che ha decisamente sconvolto le pagine di storia del jazz (e non solo) che fino al suo arrivo in scena erano state scritte. Pianista-compositore (all’occorrenza anche direttore d’orchestra e arrangiatore) espressionista e al contempo impressionista (pensiamo alle sue leggendarie e intime ballate) attraverso la sua musica – fatta di spigoli, umorismo, trilli bizzarri, accordi “sdentati”, dissonanze, intervalli spaesanti, spazi e silenzi alternati a vigorosi cluster, “ossessione” per la melodia e l’asciuttezza (nonostante la complessità dei suoi giri armonici) ben prima dell’avvento di Ornette Coleman, rotatorie danze sciamaniche – Monk ha in sostanza indicato nuove vie, ideato originali soluzioni, immaginato con il suo genio creativo e umorista nuovi mondi e visioni, costruito, attraverso un’innata saggezza (non priva di intemperanze), una sua realtà, un suo racconto mitico, nel quale identificarsi, dal quale sentirsi rappresentati o meno. E questo a prescindere dal fatto che a partire da un certo punto della sua vita artistica abbia praticamente smesso di comporre, perché il suo continuo scavo sui brani del suo immaginifico repertorio non ha mai perso in freschezza e spirito innovativo. Ecco perché non si può fare a meno di conoscere ogni sua registrazione, ogni sua testimonianza sonora e discografica, ciascuna portatrice di assoluti valori artistici e culturali. A questo proposito, un suo amico, Frank London Brown, qualche mese prima di morire aveva addirittura deciso di dedicargli un romanzo (ovviamente non concluso) dal titolo indicativo The Myth Maker: se Monk poteva sfidare la forma, la struttura e i confini della costruzione musicale, allora il protagonista del romanzo avrebbe potuto spezzare i vincoli sociali, psicologici, e politici di cui era (è?) vittima il nero in America.

Si presti (però) attenzione, Monk era questo – non vi è dubbio –, si è a suo modo battuto tutta la vita per la difesa dei diritti civili, eppure al contempo si è sempre speso, al limite delle proprie forze, per difendere l’integrità, la purezza, l’indipendenza della sua musica, la coerenza della propria arte: avrebbe pensato, eseguito, scritto, composto, ideato la luminosa e spigolosa musica alla quale ci ha abituati anche se fosse stato un bianco cresciuto a Bel Air: un concetto che è andato spesso ripetendo. La sua musica aveva un valore in sé, in assoluto, non doveva per forza essere il veicolo o vettore di questo o quel contenuto. Un atteggiamento, il suo, che da questo punto di vista in certa misura lo ha portato a qualche leggera frizione (minima in realtà, dato il rispetto che tutti gli portavano) con il movimento del free e più in generale con i cambiamenti che interessarono il jazz tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma Monk è sempre andato diritto per la sua strada, non ha certo mai avuto il bisogno di compiacere nessuno. E, però, paradossalmente, nonostante Monk sia stato il gran sacerdote (The Monk) di un’originalissima visione della vita e della musica, Thelonious “Sphere” Monk non riuscì mai – e come non comprenderlo – ad accettare ed affrontare la morte delle persone care, che invece avrebbe dovuto avere tutti gli strumenti per esorcizzare, sconfiggere e superare. Troppi gli amici, i familiari, i musicisti, le persone a lui vicine che nel corso della sua vita ha avuto il dispiacere di veder morire, ed ogni volta la medesima distruttiva reazione da parte sua, fonte di ulteriori danni psicologici in una mente che purtroppo ha cominciato presto a vacillare: uno sconvolgimento assoluto, una depressione totale, una rabbia piena di frustrazione, l’incapacità di gestire situazioni così dolorose.

Ha scritto John Fante – ma lo abbiamo scoperto su uno dei libri del grande scrittore calabro-arberesch Carmine Abate, sorta di autorità in materia di rapporti tra storia, mito e memoria – che “scrivere significa amare ed amare significa capire” (Abate, 2004). Ed è proprio un atto d’amore e soprattutto di comprensione quello che lo scrittore e professore di storia americana presso la University of Southern California, Robin D.G. Kelley, compie nel tracciare in quest’ampia biografia, forse la più vasta sino a qui pubblicata, l’intera vicenda artistica ed esistenziale di Thelonious Monk, tra le figure più influenti e rappresentative di tutta la storia del jazz; biografia uscita negli Stati Uniti nell’ormai lontano 2009 e da poco edita in Italia dalla Minimum Fax, a trent’anni dalla morte del geniale pianista.

Monk è stato forse il primo musicista moderno della storia del jazz, in grado di far convivere brillantemente stride piano, swing, l’intera lezione ellingtoniana, e le nuove idee del be-bop, del jazz moderno (appunto). Tra i suoi punti di riferimento artistici vi sono fin dall’inizio i grandi pianisti di stride piano della scuola di New York, da James P. Johnson a Fats Waller fino a Willie The Lion Smith; mentre, tra i suoi mentori, figura soprattutto il grande sassofonista tenore Coleman Hawkins, gigante dello swing e non solo, il primo musicista con cui Monk incide nell’ottobre del 1944, leader di un quartetto, con il quale Monk gira a lungo per tutti gli Stati Uniti nella prima metà degli anni Quaranta.

Queste ed altre innumerevoli informazioni sono custodite nel prezioso libro di Kelley. Un volume che con assoluta dovizia di particolari (oltre seicento pagine di fitta narrazione e quasi duecento di note), frutto di una gigantesca e meritoria opera di ricerca e documentazione durata all’incirca un decennio (interessantissimi in questo senso i molti stralci di interviste monkiane che l’autore è riuscito a raccogliere e recuperare), traccia (come detto) l’intera parabola artistica ed esistenziale di Thelonious Monk, ricostruendone addirittura la lontana discendenza schiavistica, attraverso un notevole percorso storico, che si snoda per tutto il primo capitolo dell’opera. Opera che proprio per la sua mole, che (come vedremo anche dopo) però rischia di essere troppo dispersiva, offre continui spunti di riflessione, alcuni dei quali abbiamo cercato di sviluppare in questa prima parte del nostro ragionamento.

Il libro passa in rassegna le diverse fasi della difficile, movimentata, tormentata, ma in fondo (ci permettiamo di dire) felice vita di Monk: l’infanzia a New York nel quartiere popolare nero e caraibico di San Juan Hill, dopo il trasferimento, al seguito della coraggiosa madre Barbara, da quel di Rocky Mount (città natale di Monk), piccolo e povero centro produttivo della Carolina del Nord, nel pieno sud-est statunitense; l’adolescenza, vissuta in condizioni economiche certo non agiate in un povero quartiere metropolitano, ma caratterizzata da un profondo affetto familiare, da solide amicizie, da un’istruzione tutto sommato adeguata, e dalla forte solidarietà che legava gli abitanti delle gremite case popolari Phipps; le prime lezioni private di pianoforte, non prive di un’adeguata infarinatura classica; il racconto del primo grande tour sul finire degli anni Trenta, intorno ai 18 anni, sulle tracce di una predicatrice pentecostale, con la quale il nostro suona in tutti gli Stati Uniti per circa due anni, sviluppando una conoscenza e un interesse per il gospel che rimarrà sempre vivo nel corso degli anni; il rientro a New York, oramai da vero musicista, con la descrizione del mitico periodo del Minton’s Club, quando nei primi anni Quaranta, insieme a pochi altri avventurieri e temerari, Monk pone le basi per lo sviluppo di un nuovo stile, il cosiddetto be-bop, un nuovo linguaggio – all’epoca una vera e propria rivoluzione copernicana, anche se più in continuità con il passato di quanto si possa pensare – caratterizzato da vena dissacrante, velocità di esecuzione, utilizzo di ampi e insoliti intervalli, ardite sostituzioni armoniche, non rispetto delle cesure, e una distribuzione sempre più poliritmica, attraverso una complessa riarticolazione degli accenti, della incessante e swingante spinta ritmica tipica del jazz; un idioma che però passerà alla storia (forse giustamente, forse no) per essere stato ideato e inventato da altri illustri personaggi del calibro di Dizzy Gillespie e Charlie Parker; una cosa che Monk vive inizialmente con grande rammarico e che poi invece supera facilmente, discostandosi (forse proprio per questo) da quello stile già sul finire degli anni Quaranta, preferendo tempi meno veloci, frasi più spezzate, progressioni ascendenti o discendenti meno lineari, inseguendo una sorta di ulteriore astrattezza (da un parte), maggiore intimità (dall’altra), e una specie (infine) di espressionismo ancor più irriverente ed ironico; e poi (ancora) le prime rivoluzionarie incisioni, nel 1947, con la Blue Note di Alfred Lion (cfr. Quaderni d'Altri Tempi n. 35); gli inizi degli anni Cinquanta, quando ingiustamente gli viene ritirata per possesso di stupefacenti la famosa cabaret card, il famigerato permesso di lavoro che le autorità rilasciavano per consentire di suonare in quei locali notturni dove si vendevano alcolici; il trionfale rientro, nel 1957, nei locali della “grande mela” nel leggendario Five Spot dei fratelli Termini, quando il suo strepitoso quartetto e la sua musica permettono a un John Coltrane convalescente, dopo la disintossicazione dall’eroina, di ricostituirsi e letteralmente reinventarsi; il periodo delle strabilianti incisioni Fifties per le etichette indipendenti Prestige e Riverside; l’approdo, all’inizio degli anni Sessanta, alla Major Columbia, assistito dalle cure del produttore e musicista Teo Macero, momento potremmo dire di svolta della carriera monkiana, quando, dopo anni di stenti economici, Monk riesce finalmente ad ottenere gli adeguati compensi e riconoscimenti che merita; le trionfali e impegnative tournèe europee e mondiali degli anni Sessanta con il suo quartetto “vicecapitanato” dal grande Charlie Rouse al sax tenore; la partecipazione, negli ultimi anni di attività, ai tour dei Giants of Jazz, sorta di formazione All Stars, condotta da Dizzy Gillespie, messa in piedi dal famoso impresario George Wein, per promuovere il jazz e la sua storia in tutto il mondo; il triste (almeno per gli appassionati, chissà… se per Monk!?) ritiro dalle scene, già a partire dal 1972, definitivo solo nel 1976, nella “casa dei gatti” di Weehawken (New Jersey) dell’amica di sempre, la Baronessa Pannonica De Koenigswarter; ritiro che potremmo definire quasi ascetico, se non fosse stato in parte determinato anche dalle precarie condizioni di salute che affliggevano Monk, affetto da tempo da un debilitante, disabilitante e drammatico male mentale; e infine la morte occorsa nel febbraio del 1982 per il sopraggiungere di un fatale ictus.

Ampio, ovviamente, il rispettoso scandaglio che il libro compie sulla vita affettiva e familiare di Thelonious Monk, piena di amicizie (su tutte quelle con Elmo Hope e Bud Powell), affetti familiari (la madre, i figli, i fratelli, i nipoti, il parentado in genere), e caratterizzata da un unico grande incredibile amore, quello con la pazientissima e dolcissima moglie Nellie (che da un certo momento in poi gli farà da manager, promoter e segretaria tutto fare), conosciuta in giovane età, con la quale Monk intrattiene per tutta la vita un rapporto profondo, intimo, radicale, spirituale, passionale, un sentimento pieno di bellezza, che per oltre quarant’anni resiste ad ogni difficoltà, intemperie, ristrettezze economiche, tragedie familiari, problemi di salute, e celebra degnamente ogni momento di felicità, anche la più piccola, la più apparentemente insignificante.

Vasto, anche, l’elenco dei musicisti, con i quali Monk ha suonato (alla guida soprattutto dei suoi quartetti, ma anche delle sue formazioni più allargate), e sui quali Kelley sofferma puntualmente le proprie attenzioni. Una pletora di grandi strumentisti che fu tale anche perché Monk, almeno fino agli anni Sessanta (ma anche in quel decennio), ha sempre avuto molte difficoltà, per i più svariati motivi (ingiustizie, pensiamo alla cabaret card sottrattagli due volte, problemi caratteriali, di salute, meramente artistici, perché la sua musica impiega almeno un quindicennio prima di essere accettata), a trovare ingaggi, a mantenere posti di lavoro, a pagare con regolarità stipendi, e quindi a gestire con continuità proprie formazioni. Per primi i sassofonisti (nello stile di Monk, tutti dalla voce strumentale roboante): Coleman Hawkins, Sonny Rollins, Johnny Griffin, John Coltrane, Charlie Rouse, addirittura Pat Patrick (seguace di Sun Ra), Paul Jeffrey, per un momento brevissimo lo stesso Steve Lacy, che poi (paradossalmente, data la sua astrazione musicale quasi metafisica, lontana dall’utopia monkiana comunque intrisa di afroamericanità) diventerà il massimo interprete del repertorio monkiano; poi i batteristi (la musica non doveva mai smettere di avere swing e forza propulsiva per Monk): Kenny Clarke, Max Roach, Art Blakey, Roy Haynes, Frankie Dunlop, Billy Higgins, Ed Blackwell, addirittura (anche qui) l’avanguardista Beaver Harris, fino al figlio Toot, ma l’elenco potrebbe non finire mai; e poi ancora i bassisti (eterno problema per Monk, che si trovò spesso sprovvisto “delle quattro corde del contrabbasso” per il suo quartetto): Oscar Pettiford, Al McKibbon, Wilbure Ware, Ahmed Abdul Malik, John Ore, e davvero molti altri; e infine gli amici pianisti: i citati Elmo Hope e Bud Powell, la grande amica Mary Lou Williams, lo stesso Herbie Nichols, il “monaco” dimenticato, che fu tra i primi a valorizzare la musica di Monk su alcune riviste specializzate. Una lista infinita di persone tutte accomunate dalla gratitudine e dall’amicizia nei confronti di Monk e dei suoi inesauribili e preziosi insegnamenti. E d’altronde il nome Monk letto al contrario, come lo stesso Thelonious Monk ha sempre ironicamente fatto notare, sta per Know (con la M rovesciata), quasi ad indicare colui che sa.

Resta da dire, in conclusione, che, nonostante il libro di Kelley si presenti come un lodevole, profondo, articolato e autentico tentativo di rendere omaggio ad una figura centrale nella storia delle musiche afroamericane come Thelonious Monk, l’opera manca tuttavia di un adeguato focus sulla musica, l’arte e la poetica monkiana. Si tratta (è vero) di una biografia, incentrata (com’è giusto) sul racconto cronologico delle vicende esistenziali che hanno coinvolto il grande pianista afroamericano; ma, se dovessimo consigliare a un neofita un libro sulla vita e (soprattutto) la musica di Thelonious Monk, un volume capace di mettere in contatto con la suggestiva poetica monkiana, attraverso pagine in grado di emozionare senza perdere di vista la serietà dell’indagine e della ricostruzione storico-artistica, prima di suggerirgli di immergersi in questa fluviale, poderosa e per molti versi valida biografia di Kelley (soprattutto sul piano della documentazione: infinita la teoria di note e riferimenti), gli raccomanderemmo di cominciare dal più agile volumetto di Laurent De Wilde, Thelonious Monk Himself, pubblicato proprio dalla Minimum Fax nel 1999, e solo in seguito di approfondire la materia attraverso questo più impegnativo Thelonious Monk - Storia di un genio americano.

 


 

ASCOLTI

Le incisioni principali di Monk sono reperibili qui:

The Complete London Collection, Black Lion, Box Set 3 cd, 1996.

Live at the It Club: Complete, Sony, 1998.

The Complete Prestige Recordings, Box Set 3 cd, Prestige, 2000.

Live at the Jazz Workshop. Complete, Sony, 2001.

The Complete Blue Note Recordings, Box Set 4 cd, Blue Note, 2004.

Original Album Classics, Columbia/Legacy, Box Set 5 cd, 2007.

All Monk: the Riverside Albums, Box Set 16 cd, Concord, 2010.

Original Album Classics, Columbia/Legacy, Box Set 5 cd, 2011.

 

LETTURE

Abate Carmine, La festa del ritorno, Mondadori, Milano, 2004.

Buzzati Dino, Il segreto del bosco vecchio, Mondadori, Milano, 2011.

Campbell John, Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers, 1988, Neri Pozza, Vicenza, 2012.

De Wilde Laurent, Thelonious Monk Himself, Minimum Fax, Roma, 1999.

Zentner Alexi, Il ghiaccio fra le mani, Einaudi, Torino, 2011.