LETTURE / DUNE


di Frank Herbert / Fanucci, Roma, 2012 / pp. 720, € 4,90


Una storia ancora ecosostenibile

di Roberto Paura

 

Negli anni Sessanta del secolo scorso cominciò improvvisamente a farsi strada la prospettiva di un’apocalisse ecologica per il nostro pianeta, o meglio per la specie vivente dominante del nostro pianeta, l’essere umano. Se anche fossimo scampati all’angosciante destino dell’olocausto nucleare, al varco ci attendeva la nuova minaccia costituita dallo stravolgimento dell’ecosistema che fino ad allora aveva sostenuto e favorito il nostro trionfale sviluppo evolutivo. Ancora una volta, naturalmente, la vera causa saremmo stati noi, esseri umani, scriteriati comandanti alla guida dell’astronave Terra ormai alla deriva, prossima all’autodistruzione. Un giornalista americano di quegli anni, Frank Herbert, che già aveva pubblicato alcuni romanzi di fantascienza di modesto successo, si imbatté per la prima volta nel problema del cambiamento climatico quando, nell’Oregon, cominciò a studiare il problema delle dune di sabbia per conto del giornale locale per cui scriveva. Scoprì che anche l’America così apparentemente prospera e invincibile lottava con il rischio della desertificazione, lo stesso problema che cominciava a dare seri grattacapi all’Europa meridionale e all’Asia centrale, per non parlare del Nord Africa. Colpito da quella grandiosa lotta tra l’Uomo e la Natura simboleggiata dal deserto, scenario inospitale per definizione per l’Homo Sapiens, Herbert si chiese cosa sarebbe successo se gli sforzi umani fossero venuti meno, lasciando alla Natura il compito di fare il suo corso.

L’articolo che doveva scrivere non fu mai completato, ma Frank Herbert iniziò ad accumulare materiale sugli ecosistemi del deserto, così straordinari nella loro capacità di garantire la vita in condizioni tanto estreme. Esattamente in quello stesso periodo, nei Jet Propulsion Laboratory della Nasa, un biochimico stava elaborando la sua rivoluzionaria teoria, secondo cui la Terra intesa come “biosfera”, l’insieme cioè di tutti i sistemi viventi che l’abitano, sia in realtà un organismo autoregolante, capace di mettere in moto meccanismi di compensazione in risposta agli squilibri esogeni ed endogeni che ne scandiscono la storia. Negli anni Settanta quella teoria venne elaborata in una pubblicazione divenuta celeberrima, con un titolo icastico, Gaia (1981). Quello che John Lovelock non sapeva, quando divulgò al mondo la sua “ipotesi Gaia”, era che un romanziere di fantascienza, Frank Herbert, lo aveva preceduto di quasi un decennio, in un libro dal titolo altrettanto incisivo, Dune. L’ipotesi Dune e l’ipotesi Gaia sono infatti perfettamente speculari e complementari: l’unica differenza è che, mentre Lovelock applicò quella teoria direttamente alla Terra – Gaia appunto – Herbert la utilizzò per descrivere un mondo alieno, Arrakis – noto anche come Dune –, straordinaria biosfera capace, pur nelle sue condizioni di vita estreme, di ospitare una ricca varietà di specie dando vita a un ecosistema dove anche l’Uomo avrebbe potuto, se non prosperare, perlomeno sopravvivere.

Che Herbert immaginasse Arrakis come un organismo quasi senziente, capace di autoregolarsi, esattamente alla stregua di quanto avrebbe esposto pochi anni dopo Lovelock in Gaia, lo dimostra un passo delle Appendici di Dune: “Pardot Kynes vedeva il pianeta semplicemente come una macchina: una macchina tenuta in moto dal sole. Occorreva solo ristrutturarlo, renderlo adatto agli esseri umani”. Nell’opera, Kynes è un personaggio secondario: quello che compare fugacemente nel primo romanzo è Liet Kynes, il figlio di Pardot Kynes, planetologo imperiale. Come il padre, anche il figlio porta avanti il proprio progetto di terraformazione di Arrakis. Il loro obiettivo è far sì che la biosfera di Dune si trasformi per far spazio all’uomo, esattamente come è avvenuto sulla Terra, che ha visto mutare nel corso di milioni di anni la sua biosfera per garantire la sostenibilità della nostra specie.

Herbert mette in bocca a Pardot Kynes frasi che non sfigurerebbero affatto in Gaia: “Esiste un’armonia interiore di movimento e di equilibri in ogni pianeta adatto all’uomo”, diceva Kynes. “Voi vedete in questa armonia un effetto dinamico, stabilizzatore, essenziale a tutte le forme di vita. Il suo scopo è semplice: creare e conservare, coordinandole, alcune forme che si diversifichino sempre di più. La vita stessa migliora la capacità di un sistema chiuso di mantenere la vita… L’intero paesaggio diventa vivo, in una rete sempre più fitta di rapporti e di rapporti di rapporti”. Qui Herbert descrive Dune e Gaia allo stesso tempo. Perché Arrakis, in fondo, è perfetto così com’è, da molti punti di vista. Innanzitutto, è stato capace di dar vita a un ecosistema sul quale si basa l’intera galassia: i giganteschi Vermi delle sabbie, infatti, producono come scarto del loro metabolismo il melange, la spezia il cui impiego da parte dei Navigatori della Gilda spaziale conferisce loro il potere della prescienza, grazie al quale possono vedere nel futuro la giusta rotta attraverso l’iperspazio. Senza il melange, i viaggi spaziali ultraluce non sarebbero possibili, e l’Impero immaginato nell’opera di Herbert non esisterebbe. La metafora del petrolio, inestimabile risorsa posseduta dai paesi delle sabbie e dei deserti sulla Terra, è lampante. Arrakis non è un pianeta facile da governare, esattamente come non è facile controllare i paesi che estraggono il petrolio. Ma il petrolio, a sua volta, è un prodotto naturale che non poteva che esistere in quei paesi: se l’ecosistema, lì, fosse stato diverso, oggi il petrolio non alimenterebbe il motore che spinge l’Occidente. Inoltre, in quell’ambiente apparentemente ostile che è Arrakis, diverse specie viventi si sono ormai adattate. Gli esempi illustrati in Dune non sono affatto rari: ad esempio, Lady Jessica nota come una ferita sulla pelle della sua serva Mapes riesca a rimarginarsi in brevissimo tempo, probabilmente come meccanismo di preservazione dell’umidità corporea che altrimenti verrebbe dispersa. Mapes è una Fremen, la popolazione umana indigena – più o meno – di Arrakis. Diciamo più o meno perché anche nell’universo di Herbert è la Terra, la “vecchia Terra”, la culla originaria della specie umana, e i Fremen non sono che una costola della grande famiglia terrestre giunta su questo arido pianeta dopo una lunga Egira. Nell’opera si parla anche di “ladri d’acqua”, ossia “piante che si depredano a vicenda dell’umidità, inghiottendo fin la più piccola traccia di rugiada”. Nei suoi studi sull’ecologia del pianeta, Pardot Kynes scopre un tubero lungo circa due metri che cresce nell’emisfero nord del pianeta sopra i 2500 metri di altitudine: questo tipo di pianta è capace di immagazzinare fino a mezzo litro d’acqua.

Questi esempi sparsi nel romanzo, che trasformano Dune quasi in una sorta di trattato di esobiologia (per non dire di esoecologia), ci portano al punto centrale riguardo la “perfezione” di Arrakis. Il mondo immaginato da Frank Herbert è perfetto perché i suoi abitanti sono in perfetto equilibrio all’interno della biosfera: si sono adattati ad essa, e la biosfera si è adattata a loro. L’adattamento evolutivo è d’altronde il tema centrale di Dune. I Fremen sono diventati quasi invincibili perché sono stati temprati alla dura legge di Arrakis, mentre il resto dell’Impero segue l’inarrestabile parabola discendente del rammollimento e dell’effeminatezza, impersonata dal debosciato barone Harkonnen, incapace di governare il pianeta. “Dio ha creato Arrakis per addestrarvi i suoi fedeli”, recita un motto Fremen. Attraverso gli usi e i costumi di questo popolo, Herbert dimostra come l’essere umano può adattarsi a qualunque ambiente: per sopperire alla mancanza d’acqua, i Fremen indossano le tute distillanti, che riciclano quasi tutta l’acqua dispersa dal corpo attraverso il sudore e le urine. E quando uno dei Fremen muore, la sua acqua viene estratta dal cadavere. Leggi dure che temprano l’animo di questo popolo secondo i dettami del darwinismo. Esattamente come accade ai Sardaukar: le legioni d’élite dell’Impero sono addestrate in modo che solo i migliori possono sopravvivere. “Erano uomini provenienti da un ambiente talmente selvaggio che sei persone su tredici restavano uccise prima dell’età di undici anni”, si legge in Dune; eppure, proseguendo la lettura, apprendiamo che all’epoca dei fatti narrati nel romanzo “la loro forza era già stata gradualmente fiaccata dalla troppa fiducia”.

Viceversa, i Fremen restano reietti, relegati ai margini dell’Impero, straccioni disprezzati da tutti, temprati dalla fede che li convince di essere un popolo eletto, alla stregua degli Ebrei, a cui del resto i Fremen sembrano ispirarsi (il riferimento esplicito di Herbert è ai musulmani, eppure non va dimenticato che nel romanzo i Fremen sono descritti come discendenti dei nomadi Zensunni, popolo celebre per le sue peregrinazioni nella galassia, che in Arrakis trova una “terra promessa” davvero singolare, in quanto assai poco ospitale). Alla luce di questa logica, trasformare Arrakis non ha poi molto senso. Rendere il pianeta abitabile, per garantirvi l’abitabilità da parte della civiltà umana, vuol dire rovinare un ecosistema perfetto, per tutte le ragioni che nel romanzo vengono gradualmente esposte. Herbert illustra questo concetto alla perfezione nel suo discorso tenuto alla Convention Mondiale di Fantascienza di Los Angeles del 1964, presentando per la prima volta al pubblico il suo Dune (inizialmente apparso a puntate): “Fate uno sforzo d’immaginazione, fino a considerare la Terra come una creatura vivente: non vi occorrerà molto per pensare all’umanità come a una malattia del nostro pianeta. Su una buona parte della Terra, la presenza dell’uomo contrasta con quella di un sano ecosistema, capace di mantenersi indefinitamente”.

È Herbert che parla, o Lovelock? La differenza sta nel fatto che per Lovelock la biosfera di Gaia sembra avere quasi come suo obiettivo quello di preservare la specie vivente “Uomo”, regolando minuziosamente e costantemente i suoi parametri per far sì che ciò avvenga; laddove invece Herbert sembra suggerire che Gaia vivrebbe assai meglio se l’Uomo scomparisse completamente, così come Dune sembra essere un organismo perfettamente funzionante che l’antropizzazione forzata rischia di distruggere. Come infatti avverrà verso la fine della saga iniziata con Dune, quando il piano di terraformazione di Kynes viene portato a termine millenni dopo, trasformando il pianeta in un mondo florido e verdeggiante, ma distruggendo l’ecosistema dei Vermi delle sabbie, e provocando quindi la perdita del melange, con conseguenze devastanti per l’intera galassia. In questo nuovo mondo non c’è spazio per le specie che si erano adattate ai deserti del vecchio Dune, e non c’è più posto per i Fremen.

Frank Herbert prende quindi le distanze dai romanzi eco-apocalittici di moda all’epoca, in cui il mutare delle condizioni ambientali della Terra sanciva la graduale estinzione della razza umana. Vale la pena notare che nello stesso periodo in cui esce Dune, James G. Ballard pubblica Terra bruciata (1966), uno dei celebri romanzi che vanno a costituire la cosiddetta “tetralogia degli elementi”, in cui vengono descritte diverse catastrofi ecologiche che portano l’umanità sull’orlo dell’estinzione. In Terra bruciata, un disastro industriale copre gli oceani di una patina che non permette l’evaporazione, trasformando rapidamente il nostro pianeta in un deserto selvaggio, dove naturalmente vengono meno le leggi civili e l’uomo ritorna allo stato di natura. Ma se le descrizioni di sabbie e penuria d’acqua abbondano in entrambi i romanzi, il messaggio non potrebbe essere più diverso. Per Ballard non c’è quasi mai speranza di salvezza per la nostra specie; per Herbert, l’essere umano è capace di adeguarsi a qualsiasi circostanza, se solo accetta di entrare in equilibrio con l’ambiente che lo circonda.

Che l’ipotesi Gaia abbia poi fatto strada nella fantascienza lo dimostrano i romanzi più tardi di Isaac Asimov che chiudono il celebre ciclo delle Fondazioni. In L’Orlo della Fondazione (1985) e Fondazione e Terra (1987), Asimov ipotizza che alcuni profughi della Terra distrutta dalle radiazioni nucleari giungano su un lontano pianeta dove entrano in sintonia con il resto della biosfera, creando un tutt’uno quasi immortale, poiché anche le coscienze degli esseri umani che muoiono vengono poi ereditate dagli altri abitanti di Gaia, siano essi altri umani o anche animali e persino rocce. Il pianeta, non a caso, si chiama Gaia; frutto delle rimasticature New Age dell’ipotesi di Lovelock – nel frattempo divenuto vero e proprio guru – i due romanzi di Asimov presentano l’ipotesi Gaia come il destino ultimo della razza umana: dopo aver sfruttato fino all’estremo milioni di mondi per i propri fini, nell’impossibilità di spingersi oltre in quell’antropizzazione selvaggia che nel ciclo delle Fondazioni vede trilioni di esseri viventi sparsi per tutta la galassia, l’unica ancora di salvezza è l’equilibrio ecologico tra l’Uomo e la Natura. In questo caso, comunque, si va anche oltre il concetto di Lovelock, passando dalla biosfera alla noosfera, quella che Teilhard de Chardin considerava l’ultimo gradino dell’evoluzione, la “coscienza collettiva”.

Ritornando a Dune, la cui influenza nella fantascienza è analogamente vasta – oltre al controverso film del 1984 girato da David Lynch, basti pensare a Tatooine, pianeta centrale nelle vicende della saga di Star Wars, in cui i predoni Tusken (“Sabbipodi” nella prima versione italiana del 1977) vestono tute molto simili a quelle dei Fremen – il messaggio di Herbert è in fin dei conti ottimista, al pari di quello di Lovelock (e diversamente dalle tesi degli eco-catastrofisti) ma per ragioni diverse. Mentre l’ipotesi Gaia sostiene che tutto sommato la Terra dovrebbe essere capace di annullare gli effetti deleteri del cambiamento climatico, mettendo in atto una serie di meccanismi di compensazione, perché l’organismo Gaia è fatto per garantire la sopravvivenza delle sue specie viventi, e quindi dell’Uomo, per Herbert la questione è un po’ diversa. L’umanità può distruggere i mondi, ma in fin dei conti sarà sempre capace di adattarsi ad altri ambienti. Che la specie umana sia capace, tramite l’adattamento evolutivo, di vivere su Arrakis, è indicativo della fede che Herbert nutre riguardo il destino della civiltà umana. Che poi la galassia di Dune sia profondamente inumana nella sua essenza, perché nella spietata lotta per la sopravvivenza non c’è spazio per i sentimenti che definiscono la nostra vera umanità, spazzati via dalla dura legge di Arrakis, che altro non è se non la dura legge dell’universo, è un’altra storia. Forse allora l’umanità saprà adattarsi alla distruzione di questo e di altri mondi; ma – sembra suggerire Herbert – non è detto che potremo ancora chiamarla razza umana.

 


 

Letture

Ballard James G., Terra bruciata, Urania Mondadori, Milano, 1966.

Asimov Isaac, L’orlo della Fondazione, Oscar Mondadori, Milano, 1985.

Asimov Isaac, Fondazione e Terra, Mondadori, Milano, 1987.

Lovelock James, Gaia, Bollati Boringhieri, Torino, 1981.

 

Visioni

Lucas George, Star Wars. La saga completa, 20th Century Fox Home Entertainment, 2011.

Lynch David, Dune, Dall’Angelo Pictures, 2010.