VISIONI  / PARIS, TEXAS


di Wim Wenders / Ripley's Home Video, 2011


Ulysses Goes To West

di Andrea Sanseverino

 

Una panoramica dall’alto sul deserto che separa gli Stati Uniti d’America dal Messico e le note di Ry Cooder, ispirate a Dark Was the Night, Cold Was the Ground (1927), un gospel-blues di “Blind” Willie Johnson, colui che aveva cantato le disavventure del suo popolo durante la grande depressione. E proprio come un homeless si presenta Travis, il protagonista di Paris, Texas di Wim Wenders (1984), ennesima lettura personale dell’eterno mito di Ulisse, condito con paesaggi, ambienti e volti che sembrano rubati alla pittura di Edward Hopper, anche se “si potrebbe sostenere che virtualmente ogni camera d’albergo, bar, negozio, palazzo, stazione di servizio, cinematografo, scorcio urbano che compare in qualsiasi film di ambientazione americana sia anche se in piccola misura debitore al lucido sguardo che Edward Hopper pone sulle cose” (Morsiani, 1989).

Consapevole del fatto che “il numero dei soggetti o dei miti non è illimitato, e al momento di scegliere ci accorgiamo che già altri hanno affrontato lo stesso argomento, trovando una forma e un linguaggio adeguato” (Frey, 1998), Wenders non ha mai taciuto la propria passione per il testo attribuito a Omero, manifestandola sia nelle parole che nei fatti. Il regista, dunque, attinge a quella molteplicità di situazioni incarnate dai tanti miti che soggiacciono nell’Odissea, vero e proprio esempio di schema generico, seguendo le impronte di tanti road movie costruiti attorno a quella che Age (Agenore Incrocci) chiamava una storia orizzontale, vale a dire caratterizzata da un intreccio farcito di una serie di imprevisti, più o meno eclatanti, e da una meta ben definita, che uno o più personaggi tendono a raggiungere (Vanoye, 1998). Sotto il profilo dello stile narrativo, va ricordato che Wenders, frustrato dalle vicissitudini produttive di Hammett: indagine a Chinatown (1978-82), si prende una rivincita con Paris, Texas, col quale torna a seguire i canoni dell’antinarrazione, che tra l’altro proprio con le pellicole della sua filmografia degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta trova un esempio davvero illuminante: se non sul piano formale - l’uso del piano sequenza era più radicale nella “trilogia della strada”, ovvero Alice nelle città (1973), Falso movimento (1975), Nel corso del tempo (1975) -, è su quello contenutistico che rintracciamo i tratti salienti di questo modello di narrazione, come la scelta di esaltare il paesaggio tanto da farlo rivaleggiare coi personaggi stessi; il ricorso alla passeggiata, ossia quel tipo di inazione in cui gli attori appaiono vagare senza meta, tipico del cinema on the road degli anni Settanta; la presenza di tempi apparentemente morti che favoriscono il prevalere della sospensione, se non proprio della stasi, rispetto all’azione, ma che poi tanto ci dicono sulle paure e le incertezze di Travis (Casetti, Di Chio, 1997). Da tali premesse, Wenders realizza per questa nuova avventura americana un road movie, genere da lui prediletto e a lui congeniale, scrivendolo con la complicità (oltre che di L.M. Kit Carson) di Sam Shepard, il quale attinse ai propri racconti, quelli di Motel Chronicles (1983). In realtà, il cineasta tedesco avrebbe desiderato che fosse proprio il drammaturgo statunitense a interpretare il ruolo del protagonista, ma dovette invece attendere ben ventun’anni per poterlo dirigere sul set, fino ai tempi di Non bussare alla mia porta (2005). La parte di Travis va a Harry Dean Stanton, che, in questa pellicola, a detta dei più, dà la sua prova più convincente di ottimo attore, aiutato efficacemente dalla quella sua “maschera mimica, […] con la sua inverosimile capacità di potenziare il non-detto” (Baldazzi, 1985). Completano il cast l’ex bambino prodigio Dean Stockwall (il fratello Walt), la francese Aurore Clément (la cognata Claire), il piccolo Hunter Carson (il figlio Alex, Hunter nell’edizione originale), il regista austriaco Bernhard Wicki (il dottor Ulmer, il medico che soccorre Travis), e soprattutto Nastassja Kinski (la moglie Jane), l’attrice tedesca, figlia di Klaus, che deve proprio a Wenders la sua prima apparizione sul grande schermo, nei panni di Mignon in Falso movimento. Alla musica del già citato Ry Cooder, conosciuto da Wenders durante la lavorazione di Hammett: indagine a Chinatown e che tornerà a collaborare con lui per realizzare il fortunato Buena Vista Social Club (1999), si aggiunge la fotografia di Robby Müller, il cui sodalizio con il regista di Düsseldorf risale ai tempi del cortometraggio Alabama/2000 light years (1968), girato quando Wenders frequentava l’Hochschule für Fernsehen und Film HFF (l’Istituto Superiore per la Televisione e il Cinema) a Monaco.

Tornando al film, Travis, allo stremo delle forze, malvestito e con la barba incolta su un volto arso da un sole implacabile, è un Ulisse naufrago che non trova ad accoglierlo le premure di Nausicaa, ma un medico scaltro che lo confonde, a torto o a ragione, con uno dei tanti disgraziati che vagano sulla linea di confine tra la disperazione messicana e le illusioni del “paese della libertà” per eccellenza. Tocca a Walt condurlo nel seno della propria famiglia e della civiltà, ma innanzitutto strapparlo dal suo mutismo: “Parigi” è la prima parola che Walt, ormai ai limiti della pazienza, ascolta da suo fratello: si tratta di un lotto nel deserto texano che Travis ha acquistato anni addietro per corrispondenza, perché è lì che egli sostiene di essere stato concepito dai suoi genitori e dunque è lì che ha “cominciato ad essere [ed è quindi il suo] punto di partenza”, sebbene la Paris a cui egli in verità allude, più che un luogo fisico, corrisponde a una concomitanza di fatti che non trovano spiegazione a maggior ragione se ci si impegna a cercarne, un po’ come la Chinatown di Los Angeles di un altro maestro europeo giunto negli anni Settanta a confrontarsi col cinema degli States come Roman Polansky. Tuttavia i due fratelli hanno iniziato a comunicare, sebbene Travis non risparmierà a Walt sgradite sorprese, come quella di abbandonare, prima del decollo, un aeroplano che avrebbe dovuto condurli a Los Angeles, ripiegando su un più estenuante viaggio in auto, anticipando sequenze che rivedremo qualche anno più tardi, attraverso le vicissitudini di altri due fratelli, Raymond (Dustin Hoffman) e Charlie (Tom Cruise) Babbitt, in Rain Man (Levinson, 1988).

Se quello di Ulisse è soprattutto un viaggio per mare con tutte le sue insidie, in Paris, Texas il protagonista passa dal silenzio del deserto alla frenesia delle metropoli statunitensi, due ambientazioni che costituiscono, con le loro caratteristiche, opposte e complementari, il visibile Polifemo che minaccia Travis, che in realtà deve affrontare un gigante più tenace ed arcigno, il proprio passato, tutt’altro che sereno. Giunto a Los Angeles, l’Ulisse wendersiano ha ritrovato suo figlio, che vive con Walt e Claire. Tuttavia Alex non è propriamente Telemaco, dal momento che è troppo piccolo per avventurarsi nella ricerca del padre per trovarlo e ricondurlo a casa, come fa il nipote di Laerte, che, protetto da Atena, giunge sino a Pilo e poi Sparta per porre fine a una lontananza ventennale: Alex è così giovane che i soli quattro anni d’assenza di Travis corrispondono a metà della sua età e, dunque, della sua vita, come Walt rimprovera al fratello che gli chiede se davvero considera tanto lungo il tempo in cui è sparito. Alex, tuttavia, sembra però sostituirsi al padre nel ruolo di Ulisse, sia per l’intraprendenza nella ricerca della madre, sia perché, davanti alla visione di Jane nei film in super8 che riproducono un passato familiare felice, è lui a non cascare in questo canto delle sirene, liquidando il ricordo con un eloquente “non è lei […] quella è solo lei in un film, tanto tanto tempo fa in una galassia lontanta lontana”. Ma ora a Travis tocca mettere di nuovo insieme madre e figlio, dal momento che Jane, dopo aver affidato il bambino ai cognati in California, vive a Houston, lavorando in un peep-show. Parente molto alla lontana dei vecchi bordelli (e la cui presenza forse ha determinato la possibilità di una distribuzione italiana nella collana de “I classici proibiti” curata da “L’Espresso”, al tempo della diffusione capillare delle vhs) è il posto in cui gli anonimi clienti rappresentano potenziali pretendenti Proci della Penelope del film, ma anche il luogo in cui lo spettatore coglie i riferimenti più espliciti sia alle pagine dell’Odissea, sia alla sensibilità del tratto di Hopper, soprattutto in relazione al secondo incontro tra i due. In questa sequenza infatti Jane è ignara dell’identità del cliente che le confessa la propria storia proprio come Ulisse che, celato sotto panni di un mendicante, racconta le vicissitudini di se stesso a Penelope: lo specchio del locale e la penombra creata dal fuoco ardente, impediscono alle rispettive donne di sapere di stare alla presenza dei rispettivi sposi, creduti lontani e forse per sempre perduti (Omero, Odissea, 1986, libro XIX; Balló, Pérez, 1999). Per quanto riguarda Edward Hopper, va notato che Jane, la quale ha preferito una maglia nera alla precedente fucsia, ricorda il celebre New York Office dipinto dall’artista americano nel 1962, in cui una bionda in abito scuro sta dietro una vetrata con un apparecchio telefonico accanto (Morsiani, 1989). Segue un finale aperto che richiama in verità un Ulisse dantesco o, meglio, un Ulisse che realizza la profezia del tebano Tiresia da lui incontrato nell’Ade: anche Travis prosegue il suo viaggio nella notte per riempire un vuoto che ormai è tutt’uno con la sua anima, come egli stesso ammette, affidando la sua confessione ad un nastro registrato poco prima di rincontrare Jane. Un finale che in fondo compiace lo stesso regista che, illuminando il suo interlocutore sul rapporto tra motion ed emotion in un’intervista negli anni Settanta, afferma che l’emozione nei propri film nasce solo dal movimento (Dawson, 1995).

Paris, Texas, esce nel 1984, anno meno cupo di quello di orwelliana memoria, anno in cui alcune intuizioni di Steve Jobs e soci emettono i primi vagiti mentre Travis ed Alex comunicano come due maldestri agenti segreti attraverso i walkie-talkie, anno in cui il cinema perde maestri come Joseph Losey, François Truffaut, Sam Peckinpah, ma che allo stesso tempo celebra questo gioiello di Wenders premiandolo con la Palma d’oro al Festival di Cannes, assegnato da una giuria presieduta dall’attore Dirk Bogarde e nella quale figurò, oltre agli italiani Franco Cristaldi ed Ennio Morricone, anche lo scrittore Jorge Semprún.

 


 

ASCOLTI

Cooder Ry, Paris, Texas, Warner Bros, 1988.

Cooder Ry, Cuban All Stars, Buena Vista Social Club, World Circuit, 1997.

Johnson “Blind” Willie, Dark Was the Night, Columbia, 1998.

 

LETTURE

Baldazzi Cinzia, Paris, Texas, in Cinemasessanta, Numero 1/161, gennaio-febbraio 1985, RSB editrice, Roma.

Balló Jordi, Pérez Xavier, Miti del cinema. Semi immortali, Ipermedium, Napoli, 1999.

Casetti Francesco, Federico di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano, 1997.

Dawson Jan (a cura di), An inteview with Wim Wenders, 1976, in D’Angelo Filippo, Wim Wenders, Il Castoro, Milano, 1995.

Frey Friedrich, Realizzare un film durante le riprese, Wenders W., L’atto di vedere, Ubulibri, Milano, 1992.

Kranzfelder Ivo, Hopper, Taschen, Köln, 2010.

Morsiani Alberto, Scene americane, in Cinema&Cinema, Numeri 54-55, gennaio-agosto, Clueb, Bologna, 1989.

Omero, Odissea, Mondadori, Milano, 1986.

Schmied Wieland, Edward Hopper. Portraits of America, Prestel, Munich, London, New York, 2011.

Shepard Sam, Motel Chronicles, City Lights, San Francisco, 1983.

Vanoye Francis, La sceneggiatura. Forme, dispositivi e modelli, Lindau Cinema, Torino, 1998.

 

VISIONI

Levinson Barry, Rain Man – L’uomo della pioggia, 20th Century Fox Home Entertainment, 2000.

Polansky Roman, Chinatown, Universal Pictures, 2011.

  Wenders Wim, Alabama/2000 Light Years, HFF, Monaco, 1968.

  Wenders Wim, Alice nelle città, Ripley's Home Video, 2007.

Wenders Wim, Buena Vista Social Club, Terminal Video, 2009.

  Wenders Wim, Falso movimento, Terminal Video, 2009.

  Wenders Wim, Hammett: indagine a Chinatown, Warner Home Video, Usa, 1983.

  Wenders Wim, Nel corso del tempo, Terminal Video, 2009.

  Wenders Wim, Non bussare alla mia porta, Cecchi Gori Home Video, 2006.

  Wender Wim, Paris, Texas, Terminal Video, 2011.