ASCOLTI / PINK MAGICK


di Giraffes? Giraffes! / Self Released, 2011


Chi siete voi, giraffe?

di Livio Santoro

 

Prendiamo due esseri umani che, come noialtri, passeggiano su questo mondo guardando con curiosità a ciò che gli accade intorno. Come noialtri, anche costoro narrano, inventano finzioni, raccontano storie a modo loro. Questi due nostri protagonisti rispondono ai nomi di Kenneth Topham e di Joseph Andreoli e, se a qualcuno può interessare, vengono dal Massachusetts, dove sono nati, e da dove forse hanno tratto quella vena bostoniana (quella che agli inetti della critica piace tanto definire post-) che trasporta in sé l’anima di un recente modo di fare musica nel nostro Occidente secolarizzato. Successivamente i due si spostano nel New Hampshire, a fare ciò che tutti i ragazzini statunitensi fanno in quei college che hanno ispirato la pruriginosa cinematografia del rutto, della scorreggia e delle prime volte dell’amore. Sicché, in età più matura, Kenneth e Joseph, come molti dei loro irrequieti simili del New England, se ne vanno in California, dove invece hanno probabilmente insegnato alla loro stessa anima fondamentalmente bostoniana gli insani piaceri, sfumati e rutilanti, della psichedelia. Poi un po’ di tempo a girare per il Nord America, con incursioni anche in Canada, anzi soprattutto in Canada, dove una wave se ci è concesso dire Constellation (dal nome dell’etichetta di Montreal che produce, tra gli altri, Godspeed You! Black Emperor, Silver Mt. Zion e Tindersticks) cementa l’anima di Boston alle impressioni psicotrope californiane prima di un nuovo ritorno nel New England, perché la casa è sempre la casa.

In tutto questo girare, i due amici di Boston affinano la loro musica facendone un math rock dissonante, fatto d’improvvise accelerazioni e di storture, di lievi note accarezzate e di salti repentini.

Ken e Joe (che detta così potrebbero anche essere, rispettivamente, il marito dolce e stanco e l’amante forte e libidinoso di Barbie) si firmano in musica con un nome, diciamolo, abbastanza stupido; o quantomeno da far aggrottare in un attimo leggero entrambe le sopracciglia e tutta la fronte: Giraffes? Giraffes!

 

“Chi siete voi, giraffe?”

“Sì siamo giraffe”

“Perché?”

“Fatti nostri. Voialtri non siete forse uomini?”

“Effettivamente…”

“Dunque, lo vedi da te”

“E Barbie, con i suoi capelli d’oro e le sue tette grosse?”

“Pace all’anima sua. Noi siamo solo giraffe”.

 

Giraffes? Giraffes!, che poi nient’altro sarebbe che il titolo di un libro umoristico dei bostoniani Dave e Christopher Eggers (2004), in cui s’illustra una bizzarra teoria per cui le giraffe, che effettivamente sono esseri assai strani, non sarebbero altro che visitatori provenienti sulle sponde del nostro pianeta addirittura dalle lontane distanze sideree di Nettuno, l’ottavo pianeta del nostro sistema, quello più lontano e misterioso, almeno da quando il povero Plutone s’è visto sottrarre il prestigioso statuto di pianeta.

Queste cose messe insieme hanno poco senso? In verità sì, potrebbero averne molto poco, almeno se per senso si intende la ricerca della linearità, il gioco delle conseguenze, l’avvicendamento dell’uno e del due, l’esaustività, la mutua esclusività, eccetera eccetera. E tutto questo ben lo direbbero una Regina Bianca e un Unicorno della nostra comune fantasia (Carroll, 2010; Borges, 2005), non soltanto noi, dal nostro piccolo e periferico punto di vista.

Perché spesso, infatti, nella musica (dato che è di musica che qui stiamo parlando, ma lo stesso si può dire di tutti gli altri ambiti della produzione dell’intelletto umano) il senso va rintracciato nelle cesure, nelle contraddizioni, nell’assenza di linearità, nella giustapposizione di frammenti che non combaciano, e che anche si respingono. Come nel modernismo, come nella psichedelia, come nei sogni, come nello strazio.

Al netto di tutte le idiozie che abbiamo detto e che avremmo potuto dire, questo è ciò che accade quando si mette sul piatto Pink Magick, e lo si fa girare come si deve.

La musica, questa musica, con il suo modo di raccontare le cose riesce a fare tutto ciò di cui abbiamo parlato molto meglio di quanto spesso non sia in grado di fare la parola, la narrazione fatta di lessico e sintassi: perché in quest’ultima, lo si voglia o no, lo si cerca sempre un senso lineare, o almeno è più difficile evitare di cercarlo.

Allora meglio rifarsi alle note frenetiche, talvolta dolcemente malinconiche, aggressive, frequentemente ironiche, che si descrivono da sé, senza bisogno che il critico, quello che sta dall’altra parte di woofer e subwoofer, s’inventi corrispondenze che francamente lasciano il tempo che trovano. Certe volte ci sarebbe proprio bisogno di dirlo: la musica è musica, punto e basta. In quanto tale racconta storie. E la rincorsa alla definizione dei generi, alla convenzionalità che questi devono rispettare per farsi a loro volta rispettare, non sarebbe altro che un gioco di stile, un manierismo da scaffale.

Per cui prendiamo il disco di cui stiamo parlando, Pink Magick, ed estraiamone tre piccoli frammenti, parlandone come fossero pezzi di una storia più ampia, capitoli di un romanzo fantastico fatto di musica e che non ha nulla di lineare, di conseguente. E poi, perché non ci sarà più nulla da aggiungere, ci potremo fermare.

Ecco, c’è per esempio il ritratto di un animale senza ossa - Totally Boneless!!! - che sembra muoversi in un labirinto costruito come una casa della metà dell’Ottocento, cercando in qualche modo una via d’uscita; una bestia agitata che rotola per le scale vellutate, che scivola silenziosa dietro le tende di broccato, che sbatte rumorosamente e rimbalza sui muri, portando con sé, nel suo chiasso di materia molliccia, tutto quanto sta sopra gli scaffali, tutti i ritratti degli avi appesi con i chiodi del tempo, tutti gli aggeggi un po’ strani e i soprammobili dei viaggi in Oriente.

Oppure – Curse of The Tooth Nightmare – c’è il giovane principe maledetto di una città post-apocalittica, costretto a sognare ogni notte la caduta sanguinolenta dei suoi denti regali, in un incubo frenetico e momentaneo, improvviso. Un incubo graffiante come certe chitarre un po’ Seventies e tachicardico come certi singulti un po’ prog; un incubo che crea imbarazzo al risveglio, quando il principe dal sonno irrequieto si desta avvicinandosi circospetto alla sua finestra, per poi guardare al di là del vetro, ed accorgersi ogni notte che fuori non c’è più nulla, ma davvero nulla, mentre dentro restano solo i suoi incubi, le sue urla strozzate e la sua inutile sovranità su un mondo fatto di niente.

O ancora, per finire, ci sono l’uomo e la donna dell’omonima traccia – Transparent Man-Invisible Woman (80,000,000 Years Alone) –, lui trasparente e lei invisibile, esseri volatili che evidentemente non invecchieranno mai in quanto fatti d’aria, a rincorrersi perduti in chissà quale recesso di una realtà lunghissima, quasi eterna, e ripresa a scatti. Entrambi mai paghi della loro stessa ricerca, testardi come solo può esserlo il vento che, in quanto vento, di per sé non possiede nulla della testardaggine, se non fosse per noi che così lo descriviamo. Mentre un emulo oltremondano di un modernismo sonoro sta raccontando la loro bella storia, bizzarra e un po’ malinconica, singhiozzandone dolcemente i frammenti: la storia di due esseri eterei forse infelici o forse sorridenti (o forse semplicemente soli), in quel frattempo sospeso che per loro è la vita, ma che noialtri, invece, possiamo soltanto supporre.

 


 

LETTURE

× Borges Jorge Luis, Prologhi con un prologo ai prologhi, Adelphi, Milano, 2005.

× Carroll Lewis, Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quello che Alice vi trovò, BUR, Milano, 2010.

× Eggers Dave ed Eggers Christopher, Giraffes? Giraffes!, Simon & Schuster, New York, 2004.