Suoni volanti e dischi terrestri (II parte)
di
Gennaro Fucile

 

In casi estremi la relazione musica e sf si concettualizza nei suoni estratti dal proprio corpo (Stelarc), o tratti dal DNA (Susan Alejander). Altri ancora virano verso atmosfere e iconografie degne di H. P. Lovecraft, ma spesso di cattivo gusto, in particolare il giro di musicisti legati all’etichetta svedese Cold Meat Industry. Espressionismo sonoro che congiunge definitivamente elettronica ed esoterismo.

All’appello non manca certo il citazionismo. Il trio Radio Massacre International, ad esempio, ripercorre le rotte dei Tangerine Dream, strumentazione analogica, titoli di corpi celesti lontani, spazi siderali. Prima di loro, i Nightcrawlers producono una valanga di cassette di pura space music. L’esordio datato 1980 si intitola Planetary. Costance Demby propone Novus Magnificat, sottotitolato Throught the Stargate, un trip cosmico a base di synth degno di Klaus Schulze.

A metà anni 90, la space age viene riscoperta insieme alla generale sbornia di neo lounge serializzata nei cocktail del Buddha Bar. Gli Stereolab ritornano al pianeta Esquivel, un tripudio di coretti ed elettronica analogica. Gli Air rispolverano il moog e si affermano con Safari Moon, un frullato di easy listening, suoni elettronici targati Settanta, house, techno, hip hop e ambient jungle.

Poi ci sono i viaggi nel tempo non dichiarati. In molti estendono il concetto di etno ambient, fondato da Brian Eno e John Hassel con la Fourth World Music, volando indietro, esplorando tempi mitici, dal dream time degli aborigeni australiani ai suoni delle praterie dei nativi americani. Due nomi per chiarire: Steve Roach e Coyote Oldman. Ancestralità di ritorno, con didgeridoo o flauti navajo, il suono delle pietre e delle conchiglie che duettano anacrononisticamente con drones elettronici. La fanta-archeologia di Peter Kolosimo trova qui un commento sonoro perfetto. Denominatore comune a tutte e queste correnti è l’ennesimo salto in avanti permesso dalla tecnologia, da quella a basso costo, come il dub partorito in Giamaica (il replicante in musica) e i campionamenti di tutti i suoni possibili, dalle conversazioni telefoniche a tracce prelevate da vinili vintage (il cut-up di Burroughs elevato al cubo), fino a operazioni di raffinato restauro ai confini della “necrofonia”, come quella del 1994 che fece risuonare insieme i Beatles per completare le ultime canzoni incompiute di John Lennon o, precedentemente, il duetto di Natalie Cole con suo padre, Nat “King”. Incontri impossibili, altro che fantascienza. In questa area si colloca in posizione alternativa un fronte eterogeneo definibile come hackerismo musicale, ovvero tutte quelle pratiche musicali che assumono il campionamento - di singoli suoni o di porzioni di brani - a fondamento della composizione. Questo modo di produrre musica è possibile solo in presenza di tecnologie capaci di trattare i suoni come una banca dati. Le origini di questa pratica sono extra musicali. I primi cut-up sono opera delle avanguardie storiche, pionieri nel gioco taglia e cuci di testi e oggetti. In letteratura è l'opera di William Burroughs a farne uno strumento compositivo maturo.

In musica tutto questo è possibile solo a partire dalla disponibilità dei primi registratori analogici ed in ambito colto. Esemplare "Hymnen" di Karl Heinz Stockhausen che ricicla inni nazionali e musiche popolari di diversi paesi.

La musica extra colta, o genericamente il pop, fonda il genere a modo suo nel 1981 con "My Life in the Bush of Ghosts" di Brian Eno e David Byrne. Cantanti arabi, dibattiti politici, un esorcismo, campionati da chissà quali trasmissioni radiofoniche, vengono frullati su ritmi funky e musica tradizionale, quella che oggi si chiama world music.

Questa specie di blob music, può essere riassunta in quattro casi, in un certo senso, cardinali, poiché segnano delle direzioni di massima, con tutte le varianti operabili nei possibili incroci, facili da intuire.


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