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VISIONI / IL DIABOLICO DOTTOR MABUSE
di Fritz Lang / Cecchi Gori, 2010
Mabuse, o la trasformazione
dell'orrore del potere

di Luca Bifulco
Se esaminiamo in profondità la trilogia di Fritz Lang legata al personaggio del malefico Dr. Mabuse, lo spietato scienziato (o il suo epigono) che cerca di assecondare le proprie mire tiranniche, non sfuggirà una riflessione: Lang pare accompagnarci, nel giro dei quasi quarant’anni che portano dal primo all’ultimo film della saga (Lang, 1922, 1933, 1960), lungo le trasformazioni dei timori che pervadono la sensibilità occidentale e che riverberano i mutamenti politici, economici, sociali, culturali che hanno luogo tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento.

Il filo conduttore è quello del potere, con i suoi differenti ingredienti: l’ansia impaziente di chi cerca il controllo assoluto; la seduzione del dominio, ma anche il fascino che avvolge chi mostra una volontà di potenza superlativa e tratti superominici; la paura di chi avverte il pericolo per l’indipendenza individuale e collettiva che la limitazione insita nella sottomissione inevitabilmente comporta.

Ebbene, Mabuse non fa altro che fungere da catalizzatore e trasposizione schermica delle differenti inquietudini che hanno caratterizzato due esperienze storiche: 1) la società europea che, uscita dal primo conflitto bellico, perde gli ancoraggi ottimistici dell’ideale del progresso e si trova di fronte all’allarme che i presagi di regimi tirannici e totalitari lasciano intravedere; 2) la società occidentale del secondo dopoguerra, in cui la tecnologia mass-mediatica e quella nucleare prendono il sopravvento. Esse aprono il campo alle concezioni apocalittiche foraggiate dall’idea di un controllo totale dell’individuo – specie in virtù delle tecniche di comunicazione e visione a distanza – e dal timore della distruzione planetaria implicita nel potenziale devastante dei nuovi armamenti.

Il primo Mabuse, quello del 1922 – ben accompagnato dal secondo film del 1933 – rappresenta una lucida quanto amara analisi dell’epoca che porterà ai totalitarismi fascisti del XX secolo, i cui ingredienti fondamentali, la cui ossatura socio-culturale, vengono predetti con disarmante perspicacia. Il dottor Mabuse è uno psicoanalista folle che ha grandi poteri ipnotici e una fame assoluta di dominio. Attraverso manovre finanziarie spesso illegali, ma comunque pienamente in sintonia con i pericoli delle speculazioni della finanza, egli riesce ad accumulare una imponente ricchezza. Il suo intento – che risulterà fallimentare – sarà poi quello di alimentare il terrore con la sua attività criminale, per impadronirsi della sovranità dispotica.

La realtà sociale in cui il film è ambientato è un universo caotico, composto di degrado morale e sessuale, e percorso da una confusione economica e finanziaria capace di portare verso crisi e scompigli vorticosi. Il caos regna sovrano, tanto che la soluzione di un ordine tirannico – ma pur sempre un ordine – sembra aleggiare come oscuro, inquietante, ma concreto approdo.

Una minaccia che, come ha evidenziato Siegfried Kracauer, risulta onnipresente, “[…] non si può localizzare, rispecchiando così la società sotto un regime tirannico, quel genere di società in cui si teme di tutti perché chiunque può essere orecchio o braccio del tiranno” (Kracauer 2001, p. 132). Mabuse può infatti essere ovunque, in virtù dei suoi travestimenti o dei suoi pericolosi emissari. Come un potere ramificato e capillare, capace anche di manipolare le coscienze con la sua abilità ipnotica. Vale a dire, in termini più generali, un potere capace di essere legittimato e di sedurre toccando le corde degli impulsi più triviali e nascosti, magari inconsci. In parte proprio perché si propone come risoluto ed energico ordine contro il caos, soluzione alla paura dell’ambivalenza e di un mondo all’apparenza ingestibile ed in crisi – dal punto di vista economico, sociale, politico. In effetti, la parabola del nazismo non è affatto dissimile.

Il Mabuse degli anni Sessanta, Il diabolico dottor Mabuse (Die 1000 Augen des Dr. Mabuse, 1960), è invece la traccia delle trasformazioni avvenute dal dopoguerra in poi. Si echeggiano, perciò, paure nuove o quanto meno diversificate nei contenuti e nella forma.

In questo film si fanno del tutto evanescenti i richiami ad un’estetica espressionista, mentre si intrecciano modelli narrativi più vicini alla filmografia poliziesca o di spionaggio – in definitiva, siamo in piena guerra fredda, e il nuovo assetto geopolitico non può non avere in qualche misura influenzato anche l’apparato formale delle narrative di massa.

La trama racconta di una serie di omicidi o di eventi inquietanti che coinvolgono persone e contesti che gravitano attorno all’Hotel Luxor nella città di Wiesbaden. Tutto sembra riconducibile all’opera del dottor Mabuse, che però dovrebbe essere ormai deceduto da un pezzo. Si scoprirà, invece, che l’artefice di queste macchinazioni delittuose è il figlio di Mabuse, capo di una gang criminale potente e ben ramificata. Il piano del delinquente, sagace e camaleontico nei suoi travestimenti, rivela un obiettivo esplicito: imbastire il matrimonio di una donna della banda – ipnotizzata e resa così consenziente – con un ricco produttore americano di missili nucleari. Le fabbriche di armamenti, una volta tolto di mezzo l’industriale, sarebbero finite nelle mani del crudele discendente di Mabuse, che avrebbe usato i missili per provocare il caos planetario e finanche distruggere il mondo. Ma il piano fallisce e il figlio d’arte trova la morte in un incidente stradale mentre fugge dalla polizia.

Un primo spunto di riflessione, che emerge con forza dalla visione del film, è l’inquietudine derivante dall’idea di una società del controllo resa possibile dall’utilizzo delle nuove tecniche audiovisive e della trasmissione a distanza. Mabuse ha infatti installato delle telecamere in ogni stanza dell’albergo Luxor, e così può controllare le azioni di tutti i protagonisti della storia, dal momento che buona parte degli incontri e delle conversazioni essenziali hanno luogo in quell’edificio. Un occhio ispezionatore e instancabile sorveglia così ogni individuo, come nei più inquietanti incubi di orwelliana memoria.

Questo Panopticon audiovisivo diviene la base della gestione del potere. Esso rappresenta lo strumento fondamentale che permette a Mabuse di avvantaggiarsi sui suoi rivali, di pianificare mosse e contromosse, di plasmare la definizione della realtà di tutti i suoi controllati, manovrando eventi, veicolando impressioni, gestendo le emozioni degli altri conoscendone idee, comportamenti e intenzioni.

Il timore del controllo pervasivo, dell’invasione del quotidiano e dell’annichilimento dell’individualità e della sacralità del retroscena, ha una sua risonanza in un certo percepito collettivo che – specie in virtù della nuova dotazione mediale – comincia a serpeggiare con sempre maggior forza proprio nel periodo in cui il film di Lang viene prodotto. Ci si interroga: il mondo diviene interamente visibile e sorvegliabile? Siamo sempre sotto i riflettori e, perciò, potenzialmente controllabili e gestibili da un potere onnisciente e onnipresente? Esso si insinua nelle strutture più profonde, addirittura, della nostra personalità, dal momento che puntella le nostre emozioni, la nostra coscienza, i nostri significati, i nostri incontri?

Riflessioni che acquistano il proscenio del dibattito pubblico e che vengono spalleggiate da un vasto impianto teorico speculativo, che prenderà corpo definitivamente negli anni seguenti. A questo proposito pensiamo, a titolo esemplificativo, a quelle retoriche che riprendono il concetto di alienazione nell’idea di un asservimento alla fagocitante razionalità tecnica afinalistica; oppure, consideriamo le lancinanti sofferenze di stampo foucaltiano, che scorgono la violenza del potere insinuarsi nella quotidianità, controllare e gestire le minuzie dell’azione e delle relazioni sociali, dominare e controllare nel profondo l’individuo, la sua esperienza, il corredo simbolico di cui si nutre la sua percezione del mondo (Foucault, 1976).

Il novello Mabuse degli anni Sessanta, inoltre, non propone un ordine risolutore, per quanto liberticida. Il suo disegno mira ad impossessarsi di un abbondante arsenale atomico per creare un nuovo disordine mondiale, al limite la distruzione del pianeta. Siamo ora di fronte ad una diversificazione dell’angoscia causata dalla prepotenza del potere. Questo, infatti, diventa vettore del caos più assoluto, che il timore della devastazione nucleare fomenta a dismisura.

Qui, in sostanza, la paura del potere si fonde con la percezione del rischio di una catastrofe apocalittica, inteso come consapevolezza prioritaria nel modo di pensare il mondo contemporaneo. Viene così tradotto il timore che la smodatezza del progresso tecnico ed economico possa avere come conseguenza imprevista l’autominaccia e l’autodistruzione sul piano globale (Beck, 2000). Uno stato di cose in cui i sistemi esperti faticano a fornire spiegazioni ed ipotesi plausibili sulla soluzione dei problemi. Ed è in questo vuoto che il potere può alimentarsi del caos, sorretto dall’ignoranza conclamata, e in esso fiorire.


Letture
× Beck U., Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, 1986, trad. it La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Milano, 2000.
× Foucault M., Surveiller et punir. Naissance de la Prison, 1975, trad it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976.
× Kracauer S., From Caligari to Hitler. A Psychological History of the German Film 1847, trad it. Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino, 2001.

Ascolti

× Lang F., Dr. Mabuse, der Spieler, Germania 1922, Il dottor Mabuse, Ermitage, 2003.
× Lang F., Das Testament des Dr. Mabuse, Germania 1933, Il testamento del dottor Mabuse, Sinister Film, 2008.