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visioni /
di Livio Santoro
Departures e altre storie
intorno a una cosa così normale come la morte

Chiunche nasce a morte arriva
nel fuggir del tempo; e ‘l sole
niuna cosa lascia viva.
[…]
Come voi uomini fummo,
lieti e tristi, come siete;
e or siàn, come vedete,
terra al sol, di vita priva.

 

Michelangelo Buonarroti

Rime

 

 

 

Tutti si muore, questo lo sappiamo bene. Non tutti, però, si muore allo stesso modo. Non sempre e non dappertutto. Cosa rappresenta la morte? Questo ce lo chiediamo dalla prima volta in cui alcuni uomini posero su un altro uomo, ma solo quando quest’ultimo era oramai senza più respiro, dei fiori o delle derrate per il viaggio che l’avrebbe condotto nell’aldilà. Probabilmente la morte è uno dei crocicchi più importanti per gli uomini da sempre, probabilmente è solo dopo essersi accorti d’essa che gli uomini hanno cominciato a diventare tali. Ma sono questioni tediose, queste, sono questioni archeologiche, lontane nel tempo, si direbbe. A noi interessa l’oggi. Nonostante l’indubbio fascino delle mummie egizie, di una manciata di terra sul corpo inerte di Polinice, delle piroghe degli ’Are’are e delle torri del silenzio zoroastriane, a noi, qui, interessa l’oggi. Che cos’è allora la morte oggi? E, soprattutto, come si muore oggi?

Ci sono due versioni della morte contemporanea che inizialmente si sovrappongono e si accarezzano per poi separarsi ed allontanarsi l’una dall’altra, creando una sorta di continuum dell’ultima ora dell’estinto. Una la prima, è quella immortale (sia perdonato lo scherzo delle parole) di Ivan Il’ič (Tolstoj, 1886), fatta di solitudine e malcelati rancori, “una morte che si presenta con tutto il suo carico di dolore” (Cavicchia Scalamonti, 2007, p. 179); un’altra, la seconda, è quella di mamma Beauvoir (Beauvoir, 1964), fatta di solitudine e di lunga devozione. In entrambi i casi la morte è un affare privato. In entrambi casi, inoltre, la morte passa attraverso una necessaria validazione medica che costituisce l’atto di congedo in una tragedia ideale. La morte contemporanea è la morte custodita dalla tecnica, dal sensazionalismo anonimo della medicina, e, anche per questo, è la morte dell’uomo solo con se stesso. Norbert Elias, nel suo La solitudine del morente, ha sostenuto che nelle nostre società avanzate “sappiamo che la morte verrà, ma il pensiero che si tratta della fine di un processo naturale contribuisce in notevole misura a tranquillizzarci. La coscienza dell’implacabilità dei processi naturali è arrivata dalla consapevolezza di poterli controllare. Più che in passato confidiamo nell’arte dei medici, nelle diete e nei medicinali grazie ai quali pensiamo di ritardare la nostra morte” (Elias, 1982, p. 64). Questo ritardo, va da sé, amplifica la solitudine di chi muore. Come è stato per Ivan Il’ič e come è stato per mamma Beauvoir.

Se il primo caso è esistenzialmente paradigmatico per un’epoca estesa, quella che grosso modo appartiene allo scenario della famiglia borghese dell’Ottocento, il secondo è di certo più conforme alla morte di cui oggi posiamo fare più diretta esperienza. Quanti di noi hanno avuto qualcuno passato a miglior vita lo sanno bene: tranne che in sempre meno frequenti, se concesso fortunatissimi, casi, questo qualcuno ha vissuto la sua ultima notte (o meglio molte delle sue ultime notti) tra le mura anodine d’un ospedale. “La morte in ospedale – ha scritto Michel Vovelle già una trentina d’anni fa – è una morte solitaria, simbolicamente materializzata dal paravento collocato nella corsia, mascheramento derisorio dell’agonia (sempre più sostituito dalla stanza di isolamento del moribondo)” (1983, p. 634). Poi ci sono quelli passati altrove per morte violenta ed improvvisa, è vero, ma in quei casi non c’è troppo da problematizzare, il caso del mondo o la tracotanza del singolo hanno deciso che prima non era il caso di pensarci.

La morte, in questo nostro tempo, ha da interfacciarsi continuamente con la disciplina medica, essa, infatti, non soltanto viene protratta il più possibile e ritardata anche solo di un giorno o di un mese (come Simone de Beauvoir ha drammaticamente evidenziato attraverso il racconto della morte di sua madre), ma viene interrogata, ispezionata, quasi a voler cercare una riposta incontrovertibile, certa, scientifica, che sappia dare agio ad un interrogativo esistenziale. Questo avviene non solo durante l’agonia del morente, non soltanto durante gli ultimi giorni in cui gli organi del corpo continuano stancamente a funzionare, ma avviene anche dopo, una volta che il corpo ha cessato di espletare le sue funzioni fisiologiche, ed ha cominciato un irreversibile processo di putrefazione. Anche l’autopsia, per intenderci, entra di diritto in questo quadro di medicalizzazione della morte, essa, allora, serve, ad un uomo ancora emotivamente provato, per dare una ragione a quanto è avvenuto: “quando si conduce un esame autoptico su cadaveri di anziani di oltre ottantenni, si trovano almeno quattro o cinque ragioni […] per cui in ogni caso quella persona sarebbe morta di lì a poco” (Allevi, 2001, p. 297). Ma è una ragione, quella che si cerca, esistenziale, sebbene essa sia nascosta tra le pieghe della motivazione tecnica, scientifica. D’altronde, per quel che riguarda l’autopsia, basta l’etimologia per trovare una spiegazione a questo, perché il termine autopsia significa, infatti, guardare se stessi. L’uomo si guarda, si interroga. O meglio un corpo capace di respiro e di parola interroga un altro corpo che di queste due caratteristiche non è più dotato. Il primo chiede al secondo: perché morirò? La risposta, naturalmente, l’uomo in principio di putrefazione non può darla ed allora l’altro uomo se la dà da solo. Entrambi, ovviamente, vivono nel silenzio. Questo silenzio, che fa da sfondo a trenta minuti di ispezioni meticolose sul corpo di anonimi cadaveri, è quanto Stan Brakhage, nel suo The act of seeing with one’s own eyes (1971), ha proposto come colonna sonora della morte ispezionata, di quell’atto di guardare se stessi, programmaticamente offerto come titolo di un film certamente non adatto agli stomaci più deboli.

È così che prima, durante e dopo l’esalazione dell’ultimo respiro, la morte dell’uomo contemporaneo è ammantata di solitudine, di silenzio. Questo quadro, tuttavia, che è perfetto per raccontare quanto avviene dalle nostre parti, nel nostro Occidente post-materialista, ultimamente ha provato ad adattarsi (riuscendoci) anche ad altri luoghi: pensiamo al Giappone.

Lì la morte è (o era come si vedrà tra poco) altra cosa. Junichiro Tanizaki (1935), drammaturgo conservatore del Giappone della prima metà del Novecento, sosteneva che la concezione tradizionale nipponica del mondo, fatto, quest’ultimo, soprattutto d’ombra e di contrasti, nulla ha a che fare col progresso proposto dalla cultura occidentale. Esiste un’incommensurabile disparità rispetto al mondo del Sol Calante. Tutto questo sarebbe riconducibile ad una sorta di disagio che gli occidentali provano nei confronti dell’ombra, del buio (basta guardare le loro città – che poi sarebbero le nostre – dice Tanizaki), disagio che, invece, nel vecchio Giappone è semplicemente inconcepibile. L’ombra è fenomeno normale, è vitale al pari della luce, con essa si deve convivere poiché non è necessariamente un bene voler rischiarare ciò che per sua natura è oscuro. Tanizaki racconta delle scure ciotole di legno in cui è bene bere il brodo, nulla a che vedere con quelle di porcellana bianca, oppure racconta dei sanitari che è bene siano di legno anch’essi, delle stoviglie di stagno brunite dal tempo, dei locali domestici illuminati da fievoli candele. Anche gli ospedali, nel ricalcare l’ipertrofia della luce occidentale, seguono lo stesso destino: “Ogni volta che entro in una clinica o in un ospedale, e vedo il candore delle pareti e dei camici, e il bagliore metallico delle attrezzature, mi chiedo perché non si usino tinte un poco più neutre, e che meno feriscano gli occhi. Che cosa fanno tutta quell’albedine, quella fulgidezza, quegli strumenti corruschi, in un luogo che accoglie Giapponesi malati?” (ibidem, p. 27).

Senza ovviamente sposare nella sua interezza queste tesi, qui si può dire che, dalle nostre parti, il fascino dell’oscurità, delle tonalità fenomeniche umbratili, è rischiarato, dunque annullato, da una ipertrofica pervasività tecnica. Ciò (e questo forse è vero) ha delle ricadute, almeno narrative, anche sulla concezione della morte in quanto si annulla la sua dimensione esistenziale intesa come fatto presente. È una questione di secolarizzazione, si direbbe forse. Quando la morte non è più presenza (dunque non è più scontata), ma quando essa è invece la sottrazione esistenziale che richiede la certezza dello sguardo tecnico, essa ha bisogno che si fissi incontrovertibilmente un motivo che ne giustifichi l’accadimento, ed ha bisogno allo stesso tempo che questo motivo, la malattia o il deperimento del corpo, possa essere contrastato e ispezionato con gli stessi strumenti con cui si è manifestato. La morte, nella sua versione occidentale e contemporanea è diventata un termine decisivo in cui subentra l’epifania della tecnica a colmare un vecchio e troppo tradizionale vuoto esistenziale. Non ci si rivolge più al prete, nel nostro Occidente illuminato, ci si rivolge, invece, al medico.

Yukio Mishima, quando c’era da parlare della morte poneva quest’ultima come termine di paragone tra Oriente ed Occidente. Lo sviluppo dei sistemi di welfare occidentali, sostiene Mishima, corrisponde con l’atrofizzazione dell’istinto di morte, con il suo rifiuto: “tutto si basa sulla premessa ch’è meglio vivere il più a lungo possibile. [… L’uomo occidentalizzato] attende solo di andare in pensione, rassegnato alla noia e alla tranquillità dell’impotente vecchiaia. Questo spettro si annida nell’ombra, in qualsiasi Stato di benessere, ovvero assistenziale, e minaccia l’umanità nei suoi gangli vitali” (1967, p. 55). L’Occidente propone un rifiuto della morte, l’Oriente, un’accettazione (si sorvoli sulla banalizzazione). Un’accettazione, questa, che non deve solo essere interiorizzata ma, come insegna la stessa biografia di Mishima, anche auto inflitta, utilizzata, fatta propria, decisa dal suo stesso protagonista. Forse alcuni, nella nostra parte di mondo, potrebbero leggere in questo l’eco delle affermazioni nietzscheane per cui la morte, con la sua abissale ambiguità, corona la volontà di verità dell’uomo: “in fondo, per Nietzsche, la verità ultima è la morte” (Jaspers, 1974, p. 214), e la morte di Zarathustra, del profeta, porta con sé la “verità suprema” (ibidem). Dunque è la morte stessa ad essere costitutiva della vita. Ed allora si potrebbe citare anche Martin Heidegger (1927), e l’Essere-per-la-morte. Ma forse non è bene andare così lontano, almeno non adesso.

In un modo o nell’altro, tuttavia, Mishima si fa interprete di una certa tradizione, come Tanizaki d’altronde, ripescando vecchie e polverose concezioni di un antico Giappone, per contrastare quell’incipiente occidentalizzazione che anche la morte, insieme all’illuminazione delle strade, insieme alla porcellana bianca, ha cominciato a subire durante il Novecento. Non a caso Mishima sceglie di commentare lo Hagakure (Yamamoto, 1906), compendio di regole per samurai scritto nel Settecento da uno di questi ultimi (un po’ sfortunato, certo, ma pur sempre un samurai), di cui basterebbe qui citare solo questo passo: “La meditazione sulla certezza della morte deve essere praticata tutti i giorni. Ogni mattina, in profondo raccoglimento del corpo e della mente, devi immaginarti di venir fatto a pezzi da frecce, fucilate, lance e spade, oppure di venir travolto dalle onde, di trovarti in mezzo a un vasto incendio, di venir colpito da un fulmine, di venir scosso da un grande terremoto, di cadere in un profondo precipizio, di morire di malattia e infine di dover fare seppuku [morte autoinflitta per eviscerazione] per la morte del tuo signore. Ogni mattina, senza alcuna negligenza, devi considerarti come morto” (p. 184). Senza pretendere di esaurire con questo passo quanto di problematico racchiude lo Hagakure, è certo che l’immagine che si dà della morte nelle sue pagine, è l’immagine di una morte sempre presente, di una morte intramondana, fattore costitutivo di una realtà, quella dell’antico Giappone, che autori e uomini come Mishima e Tanizaki hanno cercato di difendere dall’invasione occidentale.

Cavicchia Scalamonti, nel suo testo già citato (2007), sottolinea come la morte moderna occidentale, quella paradigmaticamente interpretata da Ivan Il’ič, sia in netto contrasto con quella della Grecia classica, dove l’Occidente stesso affonda le proprie radici. Uno dei protagonisti di quest’altra morte è Achille, il perfetto rappresentante della morte gloriosa, della bella morte (kalos thanathos). Una morte che vive tutti i giorni accanto all’uomo, e che l’eroe tratta “accogliendola invece di subirla” (ibidem, p. 204). Ed allora il Giappone di Yamamoto e di Tanizaki, come la Grecia di Omero, è quanto di più distante ci sia, in tema di morte, dall’Occidente di noi moderni.

Fatto sta che si muore, ad Oriente ed a Occidente, nel passato e nel presente. Chi per una causa, chi per un’altra. E, una volta morti, alcuni, che tendenzialmente dovrebbero essere i cari del defunto, si prendono cura della salma, seguendo ognuno quanto la religione, le tradizioni, la legge e non in ultimo il buon senso suggeriscono. Nemmeno si può dire, tuttavia, che nel nostro Occidente tutto avvenga nella stessa maniera. Numerosi sono infatti i modelli della ritualità dell’ultimo saluto (Favole, 2003): dalla cremazione Nordeuropea fino alla tumulazione classicamente cattolica dell’Europa mediterranea, passando attraverso le tanatoprassi ed i cocktail death party suggeriti dal marketing degli Stati Uniti tesi a negare lo scandalo della morte, quasi incentrati a far finta che nulla sia successo. E il Giappone d’oggi?

Il regista Yojiro Takita, nel suo recente Departures, parla proprio di questo. Della storia di una società, di una nazione (un impero, piacerebbe forse dire a Tanizaki) che sembra non voler più fare i conti con la morte, adattandosi al gusto occidentale della negazione. Departures è la storia di un tanatoesteta che veste e trucca i cadaveri prima della cremazione, ed è la storia del cordoglio misurato che le sue pratiche rituali riescono a trasportare in un ambiente familiare che ha ancora la forza di non avere paura della morte, che ha ancora la forza di sorridere garbatamente davanti ad un cadavere, di accettare quest’ultimo per quello che è. Perché la morte è una cosa normale, e che sia triste e che abbia bisogno di essere negata e allontanata siamo stati noi a deciderlo, dalle nostre parti, da quattro o cinquecento anni. Tutto qui.

 


 

:: letture ::

Allevi S., 2001, L’ultimo tabù: individuo e società di fronte alla morte, in Neresini F., Sociologia della salute, Carocci, Roma

Cavicchia Scalamonti A., 2007, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli

de Beauvoir S., 1964, Une mort très douce, trad. it. Una morte dolcissima, Einaudi, Torino, 1966

Elias N., 1982, Ueber die Einsamkeit der Sernbenden in unseren Tagen, trad. it. La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna, 1985

Favole A., 2003, Resti di umanità, Laterza, Bari-Roma

Heidegger M., 1927, Sein und Zeit, trad. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1971

Jaspers K., 1974, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierenes, trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano, 1996

Mishima Y., 1967, Yukio Mishima on Hagakure. The Samurai Ethic and Modern Japan, trad. it. La via del samurai, Bompiani, Milano, 1983.

Vovelle M., 1983, La mort et l’Occident de 1300 à nos jours, trad. it. La morte e l’Occidente, Laterza, Roma-Bari, 1986

Tanizaki J., 1935, In. Ei Raisan, trad. it. Libro d’ombra, Bompiani, Milano, 1982

Tolstoj L., 1886, Smert’ Ivana Il’iča, trad. it. La morte di Ivan Il’ič, Rizzoli, Milano, 1976

Yamamoto T., 1906, Hagakure, trad. it. Hagakure. Il codice segreto dei samurai, Einaudi, Torino, 2001