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visioni /
di Daniela Fabro
Don't worry, Be stupid
tanto c'è chi pensa e fa per te 

Cosa sia La vita autentica, titolo dell’ultimo libro, dopo il fortunato L’anima e il suo destino, del teologo “liberal” Vito Mancuso, nessuno lo sa. Ma almeno Mancuso ha la forza, forse peccando di un eccesso di romanticismo, di rivendicare il primato dell’insegnamento cristiano, così come espresso dalla parola di Gesù, senza indulgere nelle professioni astratte di fede, ipocrisia grazie alla quale molti sospendono il giudizio critico sulle gerarchie ecclesiastiche (e le loro malefatte). Per quanto paradossale possa sembrare che la riflessione antidogmatica provenga, anziché da un laico, proprio da un cattolico professante come Mancuso, che insegna all’Università Scienza e Vita San Raffaele di Milano, il fatto è invece sintomatico della confusione e della crisi dell’era postmoderna. Che paga oggi le conseguenze (pesanti) dell’abbandono della razionalità modernista senza nemmeno avere applicato i concetti dell’estensione della fruizione del tempo e dello spazio (Harvey), se non per quanto concesso dalla rete, che però è sempre lo specchio dei rapporti di forza esterni ad essa (Žižek). Se oggi si può già, come ha fatto il sociologo di Concept Future Lab, Francesco Morace, teorizzare il superamento del pensiero postmoderno con il ritorno ai “grandi valori”, essendo questi intrisi di sentimentalismo e di fideismo quel che si è perso per strada è la razionalità. E, nonostante la fine delle metanarrazioni sul destino individuale e sociale dell’uomo decretata dall’era postmoderna, quel che è stato cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Pazienza per la fine del progresso, tanto crederci o non crederci la storia prende sempre pieghe inaspettate, ma l’abdicazione del senso critico e l’abbandono dell’esercizio delle facoltà del pensiero producono qualche effetto di non poca portata sulla vita delle persone. Ecco perché il claim di una recente campagna pubblicitaria, che si vuole intelligente e invece è stupida, o l’incontrario (il che è lo stesso ai fini di chi l’ha pensata), è esattamente lo specchio del vicolo cieco in cui individui atomizzati, telepoliticizzati, spersonalizzati dalla “cura” della sostituzione del dialogo con la comunicazione e della feticizzazione della comunicazione come panacea di tutti i mali (anche quelli incurabili), sono finiti. Per pubblicizzare una nota marca di jeanseria, i creativi, che naturalmente non sono stupidi, o almeno non si ritengono tali, hanno coniato lo slogan “smart critics, stupid creates” (e gli stupidi ovviamente ci cascano: altissimo il gradimento delle inserzioni e dei manifesti a poco tempo dalla loro pubblicazione e affissione). Il concetto, che non ha alcun fondamento plausibile se non quello di gettare discredito sulla categoria degli intellettuali e dei critici (letterari, cinematografici, televisivi ecc.), viene declinato in altre amene espressioni ad effetto similari, tutte in inglese (perché lo stupido specializzato parla oggi molte lingue, direbbe Ennio Flaiano), coniate per suscitare in un pubblico non troppo smaliziato (ma che, invece, si ritiene tale) l’impressione di essere molto creativo (e quindi, a dispetto dello slogan, davvero intelligente). Tanto intelligente da comprare solo quella marca di jeans, e indossarla sarebbe sufficiente a farsi etichettare come un pericoloso anticonformista. Di questa pubblicità è stato anche scritto che non è nemmeno provocatoria, e si può essere d’accordo, ma è proprio l’indifferenza generale in cui cade ormai ogni alzata d’ingegno del sistema della comunicazione a far suonare un campanello d’allarme. L’assuefazione, se è diventata un dato di fatto, farà alzare il livello delle “dosi” con cui addormentare il cervello dei consumatori. Consumatori che una (tele)visione limitata della realizzazione di sé e del proprio riconoscimento sociale (e qui si ritorna agli esiti nefasti della telepolitica), ha trasformato in bulimici fruitori dell’ultimo modello di telefonino, in spensierati acquirenti di gadget elettronici anche molto costosi, in acritici utilizzatori di prodotti finanziari purchessìa (tanto l’unico fine è sempre quello dell’arricchimento personale e della sua ostentazione): in una parola, in consumatori felici perché i produttori vogliono il meglio per loro. Ecco cosa ha fatto dei baby boomers (oggi anche baby boomerangs, perché spesso di ritorno al nido familiare a causa di fallimenti vari) il paradigma “produci – consuma – crepa”. Consumo che alcuni, in barba alla teoria economica che lo vorrebbe soggetto a mutevolissime mode perché funzionale all’accumulazione flessibile di capitale (Harvey), si ostinano a definire “un’esperienza davvero autentica” (Morace) riservata, magari, agli ex figli dei fiori, oggi compratori più che affluenti (che il sociologo chiama “Pleasure growers”: notare l’assonanza tra growers e flowers). Dietro l’apparente richiamo a Dio, Patria e Famiglia – altra ovvietà: in tempi di insicurezza economica che mina le basi della coesione sociale si torna sempre a questi vecchi incrollabili lidi – si celebra così il trionfo del vitalismo di chi ha raggiunto l’età matura senza invecchiare (e detiene il potere del denaro). Che altro non è invece che l’annientamento dell’individuo e dei valori di una società democratica, secondo il profetico protagonista del film Quinto Potere (Lumet, 1976). In una democrazia progressivamente svuotata nelle sue forme (che sono poi la sua sostanza) dal predominio del fare (senza pensare) sul parlare, l’imperativo “Be stupid” è l’ennesima prova della trasformazione della trasgressione (una volta elitaria e dei borderline) in cultura di massa. “Incitare, oggi, alla stupidità è molto conformista, ma rimane il paradosso che senza intelligenza il messaggio si perde nel vuoto” (Papi). Intelligenza senza la quale, evidentemente, non si può minimamente aspirare nemmeno alla creatività. Che dire, per esempio, di un mostro sacro della cultura americana, scrittore di cui si affermò, tra l’altro, e giustamente, che avrebbe influenzato il pensiero e avuto effetti sulla coscienza del Novecento più di William Faulkner, Norman Mailer e Kurt Vonnegut Jr., tre giganti nel loro genere? Parliamo di Philip K. Dick, che si accontentava di sopravvivere in qualche modo (se questo mondo vi sembra spietato…) sullo scarsissimo reddito originato dalla sua abbondante produzione letteraria fantascientifica (all’epoca considerata genere minore e perciò pagata poco). Oltre alle difficoltà economiche, Dick ebbe una vita non particolarmente serena, che lui non esita però a definire felice nel racconto autobiografico di un visionario che fu capace di realizzare le sue utopie, fregandosene del sistema, anche se in realtà si rammaricava tantissimo di non saper scrivere romanzi mainstream, sfida in cui si impegnò più volte ma con risultati decisamente inferiori rispetto ai suoi libri di fantascienza. “Smart has the plans/Stupid has the stories”, recita ancora la pubblicità della Diesel. Dick creò tantissime storie in poco tempo (48 romanzi e innumerevoli racconti) e chiaramente non era affatto uno stupido. E se risulta fin troppo ovvio che opporre intelligenza a creatività (di cui sarebbero capaci gli stupidi secondo questa pubblicità) non ha alcun senso, bisogna anche dire che l’ingenuità del vivere, e la forza del sentire, di cui sono capaci i geni come Dick, non hanno niente a che vedere con la stupidità. Quando poi si accompagnano a grandi doti di intuizione, rendono possibili acute predizioni sull’attuale deriva della società dei consumi anche in grande anticipo sui tempi. La campagna della Diesel, ma non solo, era molto di là da venire, ma Dick, per esempio, scrutando il lato oscuro delle merci e dei consumi, aveva già “intuito come il processo di tecnologizzazione avrebbe potenziato a dismisura le capacità delle aziende di sedurre il consumatore, interpretandone i desideri, accarezzandone i sogni, orientandone le scelte, utilizzando le varie ispirazioni della comunicazione, dalla razionale all’emozionale, dall’edonistica all’ecologica, attente alle dinamiche dei bisogni manifesti e latenti” (De Feo, di prossima pubblicazione, ndr). Senza commettere l’errore, proprio del pensiero condizionato, di fare delle idee di Dick (di cui nemmeno lui si fidava fino in fondo) un oggetto di culto, la fatica di farsi le domande che lo scrittore si era posto non sfiora nemmeno chi crede che i “Pleasure growers /…/ apprezzano una comunicazione che utilizzi modalità ed espressioni in chiave ironica” (Morace). E per questo viene calato un velo sul dubbio che l’ironia dell’imperativo “Be stupid” sia invece un’ “arma” doppio taglio. Quando finalmente lo saranno diventati (stupidi), i cittadini-consumatori crederanno di essere molto intelligenti (in virtù di quella stessa “creatività” che il messaggio pubblicitario associa alla stupidità). Senza aver capito (perché qui un minimo di intelligenza invece ci vuole) di essersi piuttosto rassegnati al potere, che è la forza di convincere gli altri ad agire contro i propri interessi (e questo anche se naturalmente a molti possono davvero piacere i jeans pubblicizzati e fare benissimo a comprarli, ci mancherebbe). Ecco perché smascherare la (falsa) ironia di chi la adopera per fini commerciali, utilizzando quella vera come sano rimedio contro ogni tipo di manipolazione. Proprio come ci ha insegnato Dick, che nella sua breve vita felice di scrittore usò, anche con molto sense of humour, il concetto di relatività della nostra percezione della realtà per immaginare nella sua fantascienza cosa sarebbe stato possibile “se” (“as if”). Estendendo, attraverso i continui paradossi con cui creava mondi paralleli, la coscienza percettiva, ma anche critica, dei suoi lettori. Lettori dallo spirito curioso e aperto a cui questo mondo sembra davvero spietato. E vederne altri, anche se da incubo, fa per un momento dimenticare l’incubo stupido (il sonno della ragione) in cui siamo precipitati.

 


 

:: letture ::

— Arbasino A., La vita bassa, Adelphi, Milano, 2008.

— De Feo L., Philip K. Dick. Dal corpo al cosmo, Cronopio, Napoli, 2001.

— De Feo L., Sguardi cibernetici e icone luminescenti: l’ubiquità della merce, in corso di pubblicazione.

— Dick P.K., Vita breve e felice di uno scrittore di fantascienza, Feltrinelli, Milano, 2001.

— Dick P.K., The Metz Speech, 1978, Se questo mondo vi sembra spietato, dovreste vedere cosa sono gli altri, Edizioni e/o, Roma, 1996.

— Dick P.K., Counter-Clock World, Usa, 1965, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.

— Dick P.K., Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2007.

— Harvey D., The Condition of Postmodernity, 1990, trad. it. La crisi della modernità, Net, Milano, 2002.

— Mancuso V., La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009.

— Morace F., Società Felici. La morte del post-moderno e il ritorno dei grandi valori, Libri Scheiwiller, Milano, 2004.

— Morace F., Per i Pleasure growers il consumo è un’esperienza davvero autentica, in "Mark Up" 184, dicembre 2009.

— Papi G., L’intelligenza, in "D La Repubblica delle Donne", 20 febbraio 2010.

— Žižek S., Lacrimae Rerum, Libri Scheiwiller, Milano, 2009.

 

:: visioni ::

— Diesel, Be Stupid, Anomaly Agency & Creative Team Diesel, 2010.

— Lumet S., Network, MGM, Usa, 1976, Quinto Potere, 20th Century Fox Home Entertainment, 2008.

— Scott R., Blade Runner, The Ladd Company, Usa, 1982, Blade Runner The Ultimate Collector’s Edition, Warner Home Video, 2007.