District 9 fotofoto foto foto foto foto  

visioni /
di Adolfo Fattori
Quando gli alieni eravamo noi:
District 9 di Neill Blomkamp* 

In L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi (2002) Gian Antonio Stella, guardando alla difficoltà di accettare o semplicemente di adattarsi ad una realtà ineludibile, quella delle grandi migrazioni, anche per noi italiani, raccontava di come i nostri nonni e bisnonni fossero stati maltrattati, insultati, uccisi anche, quando emigravano in altri paesi. Da allora la situazione non è cambiata in meglio, anzi. Pochi anni ci separano dal libro di Stella, e il comportamento istituzionale – non contro l’immigrazione, ma contro gli immigrati – si è inasprito, senza peraltro riuscire a ridurre il flusso migratorio, o – assolutamente – ridurre lo sfruttamento selvaggio di coloro che vengono da noi alla ricerca di una vita migliore. È dell’11 marzo scorso la notizia che la Corte di Cassazione ha stabilito che gli immigrati clandestini possono essere espulsi anche se hanno figli minori a scuola. Un altro colpo alla tolleranza e alle poche qualità rimaste alla scuola italiana.

Ma non siamo i soli, evidentemente, a reagire scompostamente a fenomeni talmente enormi da modificare in prospettiva la geografia sociale, culturale, etnica dell’intero globo.

Che la paura dell’altro sia così diffusa ce lo dimostra ancora una volta la science fiction, attraverso District 9. Vietato ai non umani (Usa, 2009) di Neill Blomkamp, una di quelle pellicole che, oltre a cogliere le emergenze collettive, esaltano la moltiplicazione delle tecnologie video: è fatto di spezzoni realizzati con videocamere home, telecamere, cineprese, telecamere a circuito chiuso. Il risultato è un montaggio concitato, veloce, molto realistico, straniante. Il regista, mescolando gli strumenti e mescolando i formati – dal documentario, alla ripresa amatoriale, al film di effetti speciali – ottiene un prodotto che guarda, attraverso la complessità della scena tecnologica, a quella dell’immaginario attuale.

Chi ha visto il film, superata la perplessità che prende sempre, anche lo spettatore più smaliziato, quando si assiste alla proiezione di un film che non segue del tutto i consueti codici cinematografici, avrà probabilmente, automaticamente, confrontato questa pellicola, frugando nel suo magazzino personale, con altri film del genere “contatto con gli alieni”. Si può immaginare che abbia pensato a Incontri ravvicinati del terzo tipo (Spielberg, Usa, 1977), o a E.T l’extraterrestre (Spielberg, Usa, 1982), o anche – in una dimensione molto più apocalittica, a Independence Day (Emmerich, Usa, 1996), o a La guerra dei mondi – quello, sempre di Spielberg, del 2005.

Due film in cui gli alieni sono “buoni”: un naufrago e dei visitatori, due invece in cui sono crudeli e feroci invasori. Crediamo che tutti questi confronti non colgano invece nel segno. Credo che – se si vuole – il confronto giusto sia con Ultimatum alla Terra, un film di Robert Wise del 1951. Prima di tutto perché District 9 non è un normale film di science fiction, di quelli tradizionali. Intanto, si svolge nel nostro passato: nelle sequenze iniziali si vedono in flashback delle riprese, realizzate evidentemente da un videoamatore, in cui in basso si legge l’anno in cui sarebbero state girate: il 1982. E la vicenda “al presente” si svolge venti anni dopo: nel 2002, quindi. Sette anni fa. Si svolge in un universo parallelo, in cui il tempo è “in ritardo” rispetto al nostro? Una vicenda avvenuta realmente, ma mai risaputa fuori di Johannesburg? Si dice che Blomkamp abbia rielaborato un suo corto del 2005, ispirato a fatti avvenuti a Johannesburg nel 2005… Certo che è un bello sforzo, questo richiesto alla disponibilità a sospendere l’incredulità da parte dello spettatore al cinema… Che fa passare anche sopra qualche smagliatura nella sceneggiatura. Ma facciamo un po’ di conti. Nel 1982 era ancora pienamente in vigore l’apartheid, la politica di feroce segregazione razziale, che separava completamente i bianchi afrikaaners da neri e meticci – che non erano solo i figli di bianchi e africani, ma anche quelli di bianchi e indù, e di africani e indù, numerosi in Africa australe. Immaginiamo l’arrivo di una astronave aliena: non porta messaggi – di pace o guerra; non aggredisce, non chiede aiuto. Non ci si sorprende. Non è un avvenimento straordinario. Solo un altro sbarco di pezzenti.

Arriva, si ferma nel cielo della città, viene raggiunta dagli umani, che vi entrano dentro. E poi? L’astronave è in avaria. Rimane lì. I suoi “abitanti” vengono condotti sulla terraferma, e abbandonati a se stessi, in una miserabile distesa di catapecchie e baracche. Come i neri sudafricani fino al 1994, quando ebbe fine l’apartheid. Si aggiungono, ancor più miserabili, ai dannati della Terra locali, per usare le parole di Franz Fanon (2000), disprezzati e maltrattati da tutti, bianchi, neri, governanti, criminali. Vite di scarto (Bauman, 2005) al quadrato, insomma. Come a dire, ancora una volta, che “il fondo non esiste”.

E fanno quello che fanno tutti i disperati: vendono il poco che hanno, frugano nelle immondizie, commettono illegalità, praticano la prostituzione extrarazziale (anche questa, già immaginata dalla fantascienza). E si moltiplicano, fino a un milione e ottocentomila. Finché la popolazione locale non ce la fa più, e le autorità decidono di sfrattare e deportare gli alieni, i gamberoni, come vengono chiamati con disprezzo, a 200 chilometri di distanza da Johannesburg. Naturalmente seguendo formalmente tutte le regole, ma affidando l’operazione a una multinazionale diversificata (la Multi-National United) che fra le altre attività ha anche l’appalto dell’ordine pubblico tramite contractors – mercenari, insomma. E qui abbiamo un altro, forte legame con la storia degli ultimi anni da una parte, con la fantascienza dall’altra. Perché in Irak gli Stati Uniti hanno affidato l’ordine pubblico a società private. E perché Paul Verhoeven in Robocop (1987) lo aveva previsto, appaltando l’ordine pubblico nella Chicago del suo film alla Omni Consumer Product, appunto una multinazionale. Come d’altra parte Alan D. Altieri nei suoi romanzi immagina che nel nostro immediato futuro tutto il potere economico/finanziario sia sotto il controllo di una multinazionale totale, la Gottschalk-Yutani – che produce praticamente tutto: dalle armi ai militari che le devono usare, al cibo, alle telecomunicazioni, e così via. Fra l’altro, la MNU conduce ricerche, “riservate”, sulle biotecnologie aliene – che funzionano solo in simbiosi con i loro inventori – e quindi anche sugli alieni stessi. In un rovesciamento del cliché fantascientifico degli anni Cinquanta, secondo cui emissari di razze extraterrestri (i Men in Black) rapirebbero gli umani per condurre su di loro indicibili esperimenti, naturalmente di natura sessuale.

È a questo punto che scoppia la crisi, e il film comincia a viaggiare: l’incaricato della MNU, Wikus Van De Merwe, mentre cerca di sfrattare i “gamberoni”, si infetta con il fluido sintetizzato da un alieno, Christopher (questo il nome assegnatogli dalla burocrazia afrikaaner), fluido che doveva servire a far ripartire l’astronave, comincia a trasformarsi in “gamberone”, viene segregato dai suoi “colleghi” che vogliono usarlo come cavia, e finisce per doversi alleare con Christopher per cercare di salvarsi. Alla fine, l’alieno riesce a fuggire, grazie al sacrificio del giovane, cui promette di tornare a salvarlo, insieme ai suoi compagni di razza, che intanto sono diventati due milioni e mezzo. Wikus, trasformatosi completamente, nell’attesa del ritorno del suo alleato, realizza con frammenti di rifiuti fiori per la sua amata, che probabilmente non vedrà più…

Insomma, Blomkamp usa, sì, alcuni stilemi della science fiction, ma per dare maggior coerenza alla vicenda: come nel caso della MNU. Altri, con un’ironia feroce, li ribalta. Come quando ci mostra i laboratori segreti della MNU, e le ricerche che vi si svolgono. Non è un caso che una delle sequenze più significative del film è quella in cui Christopher si paralizza per il raccapriccio e l’orrore di fronte al corpo torturato di un suo simile, cavia degli esperimenti degli umani…

Diversa, speculare, è la vicenda narrata da Robert Wise in piena “guerra fredda”. In un parco di Washington atterra un disco volante, da cui scende Klaatu, un alieno di fattezze umane. Con sé ha un dono. Ma un soldato lo scambia per un’arma, e ferisce l’alieno. Portato in ospedale, Klaatu scappa, e riesce a contattare uno scienziato, cui comunica un avvertimento: se la Terra esporterà nel cosmo la sua mania guerrafondaia, la Federazione Galattica di cui è ambasciatore interverrà. Con la forza. E dà allo studioso, per convincerlo, un esempio dei poteri della tecnologia aliena: fa mancare per un po’ su tutta la Terra, l’energia elettrica. Dopo varie vicende, Klaatu viene ucciso, ma il suo robot ne recupera il corpo, gli ridà la vita, e lo conduce via col suo disco volante. Klaatu, prima di partire, riesce a lanciare il suo avvertimento a tutti i potenti della Terra.

Apparentemente la pellicola appartiene al filone della “fantascienza d’invasione” tipica del secondo dopoguerra. Attese millenaristiche da una parte – Karl G. Jung ne scrive in Su cose che si vedono nel cielo, proprio in quegli anni – e paure apocalittiche dall’altra – la distruzione atomica, prima di tutto – danno in questo caso vita a un film realistico, pessimista, in cui vengono messi a confronto la stupidità degli umani, la potenza della tecnologia, ma anche la saggezza, nata dall’esperienza, degli alieni, il loro non voler aver a che fare con noi – e il fatto che a loro rimane tutto il controllo del gioco. Ma la parentela è solo in superficie. Al contrario, quello che accade ai “gamberoni” di Blomkamp è che pur avendo a disposizione tecnologie molto più avanzate di quelle umane (e sennò, come facevano ad arrivare sulla Terra?) sono impantanati.

E gli uomini: li mettono sciattamente da parte: per il Sudafrica dove sbarcano sono una bega, una seccatura… Non li temono, né ne sono incuriositi. Ne sono infastiditi, mentre la delinquenza locale – altri straccioni, in fondo – non vede in loro altro che un’altra occasione per i propri sordidi affari.

Tutta la conoscenza che hanno agli alieni non serve a nulla. Devono trovare una via d’uscita – quella a cui lavora Christopher – intanto, però, fanno la vita dei profughi, dei deportati… La situazione è rovesciata: sono gli alieni gli eroi, gli “argonauti” smarriti, non gli umani. Come in un altro – scandaloso per i tempi in cui fu scritto – racconto di science fiction. Di una sola pagina: Sentinella (1959) di Fredric Brown, scritto nel 1954 e finito anche nelle antologie scolastiche, come esempio di relativismo culturale e di antirazzismo. Erano tempi diversi, in cui il mondo, uscito dalla guerra e avviatosi al benessere, sperava in una nuova “età dell’innocenza” e in un futuro senza distruzioni.

Oggi il quadro è cambiato: l’accettazione piana, rassegnata, dell’arrivo degli alieni, l’accoglienza disillusa che gli viene concessa, la sciatteria con cui vengono trattati ne fa solo un altro popolo in più, fra i migranti, i deportati, i profughi, i vagabondi che girano per il mondo, alla ricerca di un posto dove fermarsi per un po’, in attesa di tornare a casa (una speranza che hanno tutti). Un mondo secolarizzato e disincantato, insomma: quello della globalizzazione, delle multinazionali tentacolari, delle grandi migrazioni. E naturalmente delle guerre – quelle non finiscono mai, e sono ormai quasi l’unico luogo del ricorso al nome di Dio: Got mit Uns, no?. “La guerra è eterna”, fa dire Alan D. Altieri ad uno dei personaggi della sua trilogia sulla Guerra dei trent’anni (2005). Esseri senza volto che ci camminano al fianco (Bauman, 2000, pp. 51 e segg.). E in cui si trasformano anche, nonostante la diversità fisica, i “gamberoni” di District 9.

Non c’è più spazio, nel bene o nel male, per l’apocalissi o la palingenesi. Non c’è più Unheimlich, perturbante. C’è solo la terribile banalizzazione dello straordinario che diventa quotidiano. E naturalmente del Male, che serpeggia sempre, sotto le vicende umane.

 

* Questo articolo è la parziale rielaborazione di “Ma gli alieni sognano gamberi elettrici (ovvero su District 9)” pubblicato in rete su AgoraVox Italia, nella rubrica Traiettorie.

 


 

:: letture ::

— Altieri A. D., Magdeburg, 3 voll., Corbaccio, Milano, 2005-2007.

— Altieri A. D., Hellgate Al confine dell’inferno, Tea, Milano, 2009.

— Bauman Z., Thinking Sociologically, 1990, trad. it. Pensare sociologicamente, Ipermedium, Napoli, 2000.

— Bauman Z., Wasted lives. Modernity and its Outcasts, 2004, trad. it. Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari, 2005.

— Brown F., Sentry, 1954, trad. it. Sentinella, in Fruttero C. Lucentini F., (a cura di) Le meraviglie del possibile, Einaudi, Torino, 1959.

— Fanon F., Les Damnés de la terre, 1961, trad. it. I dannati della Terra, Einaudi, Torino, 2007.

— Jung C. G., Ein Moderner Mythus, 1958, trad. it. Su cose che si vedono nel cielo, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

— Stella G. A., L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano, 2002.

 

:: visioni ::

— Blomkamp N., Alive in Joburg, Canada, 2005

— Emmerich R., Independence Day, Usa, 1996, 20th Century Fox Home Entertainment, 2004.

— Spielberg S., Close Encounters of the Third Kind, Usa, 1977, Incontri ravvicinati del terzo tipo, Sony Pictures Home Entertainment, 2001.

— Spielberg S., E.T. The Extra-Terrestrial, Usa, 1982, E.T l’extraterrestre, Universal Pictures, 2007.

— Spielberg S., War of the Worlds, Usa, 2005 La guerra dei mondi, Paramount Home Entertainment, 2005.

— Verhoeven P., Robocop, Usa, Robocop Il futuro della legge, 1987, 20th Century Fox Home Entertainment, 2008.

— Wise R., The Day the Earth Stood Still, Usa, 1951, Ultimatum alla Terra, 20th Century Fox Home Entertainment, 2003.