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di Livio Santoro
La musica e le parole di un suicida:
Vic Chesnutt  

A cosa serve una biografia? A cosa serve la biografia di un artista? Serve forse a trovare le ragioni e le origini della sua opera, o serve solamente per definire un personaggio, per inquadrarlo all’interno degl’ingranaggi più solidi di un’esigenza commerciale? Si può tenere la biografia da una parte e l’opera artistica dall’altra? La critica spesso risponde con due dichiarazioni antitetiche: alcuni dicono che i due ambiti possono essere separati, che l’arte sta da una parte e che l’uomo sta dall’altra e questo perché, soprattutto, c’è da mondare la bellezza dell’opera da quanto di deprecabile ha fatto chi l’ha prodotta; altri dicono che no, che uomo ed arte procedono a braccetto, che sono un tutt’uno, che senza quanto è stato di una vita, senza gli episodi, anche quelli negativi e marci, senza tutti i fatti francamente anche poco raccomandabili, l’uomo non potrebbe mai aver partorito ciò che ha fatto.

Qui, in questa sede, si prenda per buona la seconda ipotesi. Ovviamente.

Vic Chesnutt, uomo con le rotelle, bambino adottato, radicale ubriacone, poeta chitarrista, consumatore di droghe ad alternanza, paraplegico farmacodipendente, guidatore in stato d’ebbrezza, umbratile cantastorie, è morto il venticinque di dicembre del Duemilanove, il giorno di Natale, riuscendo finalmente in quel progetto che diverse volte aveva già tentato di concludere. Vic Chesnutt è morto da suicida, a causa di una dose troppo massiccia di farmaci. Circondato dai suoi affetti ma inevitabilmente solo, comatoso, in una stanza d’ospedale ad Athens, in Georgia, Usa, mentre da qualche altra parte milioni di bimbi stavano scartando milioni di regali, alcuni belli, alcuni brutti, ma questa è l’ultima cosa che adesso ci interessa. Aveva quarantacinque anni, ventisette dei quali passati muovendosi su quattro ruote, suonando una chitarra, cantando ed incidendo sedici album.

Lo sapeva Chesnutt di non essere il migliore degli esempi né il più felice degli uomini, lo cantava:

 

I am a stranger

lurking alone in my own vicious wilderness

while the meat in my chest

squeezes and teases a hulking hunger

groping in motion

balance is but a shimmering notion

and lurching compelled

my soul in its special hell of wet mortal limits

perpetually thirsting

[…]

I sing my soul

with tongue

a sword in the sunlight*

(Glossolalia, 2007).

 

Oppure, ancora:

 

I am a monster

Like Quasimodo

Or Caliban the natural man

wild ripostes to my reflection**

(It Is What It Is, 2009).

 

E questa tensione rimane solida in tutta la sua produzione, dove le canzoni raccontano storie drammaticamente tristi ma spesso con un tono enfaticamente ironico, spesso con l’accompagnamento vocale di un falsetto sbeffeggiante, spesso con ululati che alzano contemporaneamente la tonalità e la tensione della narrazione. Dove le parole vengono accompagnate da una raffinatezza compositiva decisamente inconsueta negli ultimi tempi, con un misurato utilizzo di archi soffici, di arrangiamenti jazzati, di una chitarra docile e della pesante eredità della poesia. Soprattutto negli ultimi tempi, dal Duemilasette, quando l’artista Chesnutt incontra la comunità grigia dell’etichetta canadese Constellation, quando nascono collaborazioni assolutamente apocalittiche come quella con i Silver Mt Zion, o con Guy Piciotto dei Fugazi.

Ma Chesnutt aveva cominciato già da tempo, dopo essere stato artisticamente scoperto, nel Millenovecentonovanta, da Michel Stipe. Tre anni e due dischi (1990, 1991) più tardi, il cantastorie paraplegico porta alle stampe un album che ha nel titolo il programma di una vita: Drunk (1993). Chi lo ascolta, per la prima o per la centesima volta, non può che fermarsi a guardare un punto indistinto nello spazio quando cominciano a girare le note e le parole di Supernatural:

 

Out of body experience

I flew around the little room once

on intravenous Demerol

it weren’t supernatural

Sudden smell certain view

sparks a whoppin case of the deja vu

is it inexplicable

it ain’t supernatural

or maybe. ***

 

In Supernatural c’è una calda cantata al Demerol, quell’anestetico che i medici ben conoscono, e che invece gli ascoltatori di musica (e non solo quelli) hanno imparato a conoscere dopo la morte mediatica di Michel Jackson. E non c’è solo Demerol, ci sono le droghe, c’è l’alcool, c’è tutto quello che potrebbe astrarre un uomo dalla sua condizione, per portarlo verso una dimensione soprannaturale, o forse anche lasciarlo sulla Terra, come dice lo stesso Chesnutt. Il problema, forse, riguarda il punto di vista di chi guarda, e con esso quello di chi canta. E quella di Chesnutt, seduto su quella sedia, è una prospettiva bassa, che meglio vede quanto si posa sul fondo, quanto si deposita a terra, quanto viene calpestato dalle suole delle scarpe su un selciato umido di pioggia.

Tuttavia, ad essere sinceri, in fin dei conti la storia di Chesnutt non è nemmeno troppo originale. Il mondo, ed ancor di più il mondo della musica, è una selva sotterranea di arbusti ed alberi dotati di parola, un girone pieno di suicidi, di cantanti e musicisti più o meno tristi, più o meno tracotanti, più o meno pavidi, che hanno deciso di se stessi, che hanno deciso di lasciare questo mondo, che in un modo o nell’altro è l’unico. Nulla di soprannaturale, senza dubbio. Nick Drake ha usato il Tryptizol; Tim Bukley, Sid Vicious, Janis Joplin e Jim Morrison sono andati sul sicuro con l’eroina; John Bonham ha bevuto troppa vodka; Kurt Cobain ha utilizzato un bel fucile a pompa; eccetera, eccetera.

E questa cosa della morte autoimposta, sia detto con chiarezza, che appartiene come un dato costitutivo dei più forti all’orizzonte musicale, senza dubbio apparteneva a quello di Chesnutt anche oltre la musica, vi era sempre appartenuto. Quasi un progetto già scritto, un progetto che, prima o poi, sarebbe giunto a compimento. Ma quando? Un giorno o l’altro certamente:

 

I am a man, I am self aware

And everywhere I go

You’re always right there with me

I flirted with you all my life

Even kissed you once or twice

And to this day I swear it was nice but clearly

I was not ready

When you touched a friend of mine

I thought I would lose my mind

But I found out with time that Really,

I was not ready

Oh death, oh death, oh death

Really, I’m not ready

Oh death you enter me

Death’s unmade those dear to me

And tease me with your sweet relief

You’re cruel and you are constant

When my mom was cancer sick

She fought, but then succumbed to it

But you made her beg for it

Lord Jesus, please I’m ready

Oh death, oh death, oh death

Really, I’m not ready

Oh death, oh death, oh death

Clearly, I’m not ready****

(Flirted With You All My Life, 2009).

 


 

* Sono uno straniero

che occhieggia, solo, dalla sua selvatica malignità

mentre la carne nel mio petto

tira e molla l’ingombro di una fame

brancicante, in movimento

l’equilibrio è solo un concetto baluginante

avanzando incerto ho spinto

la mia anima in un suo speciale inferno di bagnati limiti mortali

con sete perpetua […] Canto la mia anima

la mia lingua

una spada alla luce del sole

 

** Sono un mostro

come Quasimodo

o Calibano, l’uomo di natura,

che replica arguto e selvatico alla mia riflessione

 

*** Esperienza extracorporea

una volta sono volato per la mia stanzetta

mi ero iniettato Demerol

niente di soprannaturale

un odore improvviso, una certa vista

innescano un fortissimo déjà-vu

è inspiegabile

non è soprannaturale

forse sì

 

**** Sono un uomo, sono consapevole

e dovunque io vada

tu sei sempre al mio fianco

ho civettato con te per tutta la mia vita

ti ho anche baciata una o due volte

e fino a oggi, lo giuro, è stato bello ma era chiaro

che non ero pronto.

Quando hai toccato un mio amico

ho creduto di impazzire

ma ho scoperto, col tempo, che

davvero, non ero pronto.

O morte, o morte, o morte,

davvero, non sono pronto.

O morte, tu entri in me.

Morte hai disfatto chi mi era caro

e mi tenti con il tuo dolce sollievo

Sei crudele e sei costante

Quando mia madre moriva di cancro

l’ha combattuto ma poi ha vinto lui

ma tu l’hai ridotta a supplicare

Signore Gesù, ti prego, sono pronto,

O morte, o morte, o morte,

È chiaro, non sono pronto.

 

Traduzione italiana di Marco Bertoli

 


 

:: ascolti ::

— Vic Chesnutt, Little, 1990, New West Records, distribuzione Ird.

— Vic Chesnutt, West of Rome, 1991, New West Records, distribuzione Ird.

—  Vic Chesnutt, Drunk, 1993, Texas Hotel, ristampa New West Records, 2004, distribuzione Ird.

— Vic Chesnutt, North Star Deserter, 2007, Constellation, distribuzione Family Affair.

—  Vic Chesnutt, At the Cut, 2009, Constellation, distribuzione Family Affair.