Ocean Terminal fotofoto foto foto foto

letture /
di Francesco Galofaro
Ocean Terminal, note semiotiche
su un romanzo impossibile 

Se si è disposti ad accettare alcune generalizzazioni, tutte le storie sono simili. Il punto di vista semiotico sulla narratività, almeno secondo Algirdas J. Greimas e Joseph Courtés (1979), afferma che vi è sempre un protagonista, un soggetto che vuol ricongiungersi a ciò che per lui è un oggetto di valore. E nel far questo si realizza o fallisce.

Se si è disposti ad accettare questo grado di generalizzazioni, la narratività si estende vertiginosamente, con limiti niente affatto chiari. Del resto, è proprio dell’uomo raccontare storie, ed una conversazione non dura cinque minuti senza che qualcuno non racconti qualcosa: non solo nei grandi romanzi, ma anche al cinema, all’opera e nella nostra vita quotidiana raccontare è mettere in forma la nostra esperienza e darle un senso.

Tuttavia, è lecito domandarsi se talvolta la narrazione non rispetti questa struttura generale configurandosi come antinarrativa. Se il senso è prodotto dalla differenza, se il valore non si dà come assoluto ma solo per differenza col proprio opposto, allora la narrazione stessa implica la possibilità di una antinarrazione. Ecco in cosa consiste in due parole la peculiarità di Ocean Terminal (2009), l’impossibile romanzo autobiografico di Piergiorgio Welby. E infatti, la narrazione tradizionale si basa sul fare. Il protagonista agisce, e la situazione muta di conseguenza, o per lo meno il suo tentativo fallisce. Ma il male di Piergiorgio ne fa un prigioniero del proprio non-poter fare. Egli non può neppure tentare di mutare la progressiva degenerazione che lo affligge. Non può acquisire nessuna competenza per provarci. Prigioniero dei propri cromosomi, egli non diverrà un eroe, gli è negata la possibilità di finire sulle T-Shirt, sugli striscioni dei centri sociali, alla parete di una sezione di Rifondazione Comunista:

Io finirò in un centro di rianimazione con gli occhi fissi al soffitto bianco e il corpo pieno di tubi. Mi tormenteranno i decubiti e i discorsi delle infermiere che mentre mi tolgono la merda si racconteranno i brividi dell’ultima scopata… Eroi… eroi del cazzo. Vorrei vederli al mio posto questi superuomini coccolati dalla storia. Questi morti sul campo di battaglia con il sole negli occhi come i tori di Hemingway (Ivi, pp.50-51).

Welby è il non-eroe, assiste passivamente alla ciclicità con cui la storia ripropone le guerre, dal Vietnam alla Serbia, indifferente ai suoi ideali pacifisti. Al suo non poter fare si accompagna la ricercata violenza verbale, il linguaggio bukowskiano, l’incorporazione polifonica della sua competenza culturale nel linguaggio “proprio”: la forza retorica dell’invettiva è il correlativo della debolezza fisica che progressivamente viene meno.

Allora, tutti i mutamenti avvengono entro la sfera dell'essere (Greimas, Fontanille, 1996). La logica intima che muove Piergiorgio non è deontica, legata al poter fare, ma aletica (Cfr. Palladino, Palladino, 2005), legata al poter essere. Questa è la ragione profonda di alcune scelte stilistiche e compositive che vedremo. È nella sfera passionale, nella tensione tra il voler essere di Piergiorgio in quanto soggetto ostinatamente desiderante, e l’ineluttabilità del suo non poter non essere che il romanzo si struttura tumultuosamente proprio come le diverse passioni che si susseguono nella narrazione (Cfr. Bertrand, 2002, p. 232).

La tensione tra essere e fare è la ragione profonda dei due percorsi semantici coerenti che attraversano il romanzo. Gli eventi cui Piergiorgio assiste, la guerra, i bombardamenti NATO in Serbia accostati ad Hiroshima e Nagasaki, costituiscono la dimensione pubblica che lo vede come testimone impotente. I valori del pacifismo risaltano per contrasto con la violenza verbale con cui denuncia quella bellica:

La caccia è aperta! Bombarda il serbo! Fotografa il kosovaro! Zuma sulla donna incinta, riprendi il vecchietto! Lo stesso trattore con la ruota a terra passa e ripassa sul video, una volta è in Macedonia, poi in Albania, poi chissà dove, ma chissenefrega! Viva la guerra che non è guerra! Viva le bombe intelligenti! (anche se chi le tira è una testa di cazzo). Diciannove stronzi rottinculo l’hanno chiamato disastro umanitario e tutti ci credono, anestetizzati dai Lerner, dai Vespa, dai Costanzo ripetono con un coro da bimbi deficienti: «È un disastro umanitario! È un disastro umanitario!» (Welby, cit. p. 35).

Il secondo livello di coerenza semantica è costituito dalla sessualità, dall’attrazione per la donna:

«Questa è la nuova assistente sociale»

‘Sti cazzi dovevo rispondere e invece… la voglio! La voglio! La voglio! Cristo, se la voglio!… Tu sola puoi farmi guarire… tu sola puoi farmi sognare la fine di questa tragedia, tra le tue tette di panna e nutella, sul tuo culo di pistacchio e amarena, tra le tue cosce al latte di mandorle… (Ibidem, p. 58).

A tratti la lingua di Welby ricorda Tropico del Cancro, di Henry Miller (2000). Il paragone regge per più di un motivo: il romanzo di Welby, come quello di Miller, è erotico solo in superficie; in realtà cela una storia di disperata solitudine esistenziale, che trova riscontro perfino nel punto di vista adottato, sempre in prima persona singolare, senza che sia mai descritto il punto di vista dei personaggi che incrociano il protagonista, delle donne con cui non riesce mai ad entrare davvero in contatto:

È andata via lasciando che nell’aria si rapprendesse il gesto di un abusato saluto della mano avvitato in un elegante riccio di convolvolo. Ho chiuso gli occhi. Un odore sereno e familiare di Violetta di Parma e Palmolive… lo stesso odore del cassetto della camera da letto il cassetto proibito dove perdersi tra il rosa carnicina del reggicalze e la trousse di tartaruga, le calze di seta con la riga e il reggipetto dove nascondere il sapore della solitudine. Quando mi ha sfiorato ho sentito il fruscio da peccato mal confessato delle cosce e il frenetico calpestio dei tacchi a spilli… poi il corridoio l’ha risucchiata come un tapis roullant, arrivata vicino alla statua della Madonna si è segnata e ha accennato un inchino ipocrita da pedaggio domenicale (Ibidem, p. 111).

Le due dimensioni, voler essere e non-poter fare, privata e pubblica, si intrecciano grazie ad una sovrapposizione linguistica tra terminologia erotica e bellica:

Stasera si scopa con la tv accesa! ELETTRIZZANTE: un bocchino, e un missile centra una corriera carica di passeggeri; apri la fica, cercando con la lingua il clitoride, e un corpo smembrato brucia sul barbecue dell’asfalto; vengo… vengooo… e una colonna di profughi viene avanti nel fango, sotto la pioggia, sotto le bombe, sotto l’indifferenza delle telecamere che gli rubano l’ultima cosa che gli è rimasta: la propria immagine sbiadita (Ibidem, p. 35).

Anche l’ordine della narrazione, rigorosamente stocastico, trova una giustificazione nella tensione profonda tra voler essere e non poter fare. Verrebbe da avvicinarlo ad un diario, fatto com’è di istantanee, di schizzi a tinte vivaci, giustapposti talvolta secondo il principio della sfumatura, talvolta del violento contrasto. Ma del diario non ha l’ordine cronologico. Piergiorgio emerge solo dal quadro d’insieme, come in un mosaico, o in un quadro cubista. La linearità del romanzo ne esce rivoluzionata, e così la lingua:

Palline di merda numerate e catalogate per patologia, stagionatura. Palline nauseanti espulse dal Corpo Mistico della Normalità, dai Circuiti Cromati della Mediocrità. Palline di sterco avviate ai grandi catalizzatori della depurazione bonzodiazepinica. Antidepressivi triciclici, inibitori selettivi del reuptake della serotonina, inibitori delle monoamminoossidasi e benzodiazepine: capsule, compresse, gocce, fiale, flebo. Tutto pestato con cura nel mortaio della psicoterapia e spinto a forza nelle palline di sterco per esorcizzarle. (Ibidem, p. 139).

A ben vedere, qui abbiamo un terzo livello di coerenza semantica, quello ospedaliero della cura, dove la lingua si fa una pura combinazione di ritmo e suono rendendo bene il nonsenso dell’esperienza chimica ed asettica del protagonista.

Soffermiamoci ora su due caratteristiche: il punto di vista ed il registro linguistico. Prevalentemente in prima persona il primo, prevalentemente feroce il secondo, né l’uno né l’altro sono impiegati con effetto monocorde. Sono interessanti, ad esempio, gli inserti mitologici in terza persona. Partendo dalla mitologia azteca, buddista, indù, piccoli apologhi ripetono la struttura delle esperienze di Piergiorgio, trasfigurandole attraverso la presa di distanza. In questo modo la sua solitudine si fa metafisica, finendo per coincidere antropologicamente con la condizione umana. Il romanzo è preceduto da un racconto, uno tra i tanti scritti da Welby che speriamo trovino al più presto pubblicazione. Temporalmente, vi si racconta uno Welby successivo all’esperienza della droga e alla disintossicazione, uno Welby ormai paralizzato che viene sbranato dai cani pezzo a pezzo. In esso, è interessante il punto di vista, quello di una persona supina. Il romanzo ci “mostra” i dettagli di ciò su cui noi esseri verticali ci soffermiamo di rado: il cielo, il soffitto, in una dimensione di quiete per noi innaturale. Qui si invita il lettore a tornare sul racconto dopo la lettura del romanzo, non solo perché la storia, naturalmente incompiuta come quella di qualunque romanzo autobiografico non paradossale, trova la propria degna conclusione proprio nel racconto iniziale. Soprattutto, va riletto per come il senso del romanzo svela quello del racconto: è difficile altrimenti comprenderne davvero lo spirito.

Piergiorgio Welby è circoscritto dalla propria lingua. Come scrive Wittgenstein (1995), indipendentemente da quel che ciascuno di noi prova nella propria esperienza privata, l’espressione del dolore nella sua dimensione linguistica definisce una forma di vita specifica. Il linguaggio che impiega rende la sua esperienza simile alla nostra; eppure essa è allo stesso tempo radicalmente diversa, nella misura in cui l’uso attivo di quella lingua ci è precluso.

 


 

:: letture ::

— Bertrand, D., Précis De Sémiotique Littéraire, trad. it. Basi di semiotica letteraria, Meltemi, Roma, 2002.

— Greimas A. J., Courtés J., Sémiotique - Dictionnaire Raisonné De La Théorie Du Langage, Hachette, Paris, 1979, trad. it, Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, La casa Usher, Firenze, 1986.

— Greimas A. J., Fontanille J., Sémiotique Des Passions, 1991, trad. it., Semiotica delle passioni, Bompiani, Milano, 1996.

— Miller H., Tropic of Cancer, 1934, trad. it. Tropico del cancro, Mondadori, Milano, 2000.

— Palladino D., Palladino C., Logiche non classiche, Carocci, Roma, 2005.

— Wittgenstein L., Philosophische Untersuchungen, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1995.