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inrilievo /
di Linda de Feo
dickGli ingloriosi superumani
di Philip K. Dick

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?

Ugo Foscolo


I molteplici mondi possibili degli infiniti multiversi dickiani, generati da un’articolata riflessione storica, incrociano le vicende americane della seconda metà del Novecento, per accostarsi a una dimensione metafisica, dissolvendo ogni espressione terrena di arbitrio nella tenace opera di fagocitosi che satanicamente corrode materia ed energia. 
L’individuale reazione superomistica all’avvenire di estinzione cui siamo condannati, urlata in opere che si incastonano nella parabola psichedelica della fertile attività creativa dickiana, è percorsa da una potente tensione vitale, così disperatamente forte, ma anche così tragicamente lucida, da prevedere l’efferato ribaltamento del rimando di vita nel suo ineludibile contrario. La volontà di dispiegamento illimitato della potenza, manifestata grazie all’espansione percettiva, allo sconfinamento sensoriale, all’eccitata frenesia, alla dismisurata vitalità, all’esaltazione del rimosso, esprime il desiderio di ritrovare un’autenticità arcaica, primordiale, negata all’uomo moderno da secoli di storia, da un’alienante e reificante realtà consuetuamente esperita, quotidianamente subita, che impone un sofferto trapasso senza riscatto. 
La riscoperta di un’originalità mortificata è perseguita paradossalmente grazie all’artificialità esperienziale, cognitiva e simbolica, e alla creazione di personalità sintetiche, alterate, che, nella pertinace operazione di disseppellimento della natura nascosta, finiscono invece per rendersi simili a entità meccaniche, reflex machine, macchine dotate di riflessi, in grado di fornire soltanto reazioni automatiche, scontate, prevedibili, risposte da androide, derivate dall’attivazione di un determinato numero di bit. Ed è proprio nella figura del simulacro, metafora del progressivo processo di assimilazione fra organico e inorganico, che si dibattono i conflitti di un uomo sempre più accanito nella lotta sferrata alla propria finitezza, nella battaglia combattuta all’invalicabilità del proprio limite. In Do Androids Dream of Electric Sheep? (Dick 2000) il dolore generato dall’impotenza, dall’incapacità di estendere la durata dell’esistenza, è umano, troppo umano per appartenere esclusivamente alla fondamentale elettronicità delle unità cerebrali Nexus-6 prodotte dai laboratori Rosen. Il tormento è troppo sconvolgente per indurci a ritenere che torturi solo una vita affidata ad un congegno e che non si inoltri fino a scuotere quell’abisso dell’interiorità agitato da radicate paure, insondabili timori, istintuali pulsioni, tensioni di un’umanità che progredisce per sconfiggere la propria debolezza. L’inorridito volto smaterializzato, sommerso da uno spasmodico grido di terrore, ritratto nel celeberrimo dipinto munchiano, L’urlo, raffigura splendidamente, come è sottolineato in un passo del romanzo, la misera condizione delle creature artificiali, costrette a mascherare penosamente o a scoprire miseramente la difficile riconoscibilità della propria essenza, mistificata da falsi ricordi e da sogni improbabili, da un passato fittizio e da un futuro illusorio. Gli androidi sono destinati all’inevitabile dipendenza da una tecnologia che crudelmente non può non animarsi, non riscaldarsi, infuocando parvenze di passioni, infiammando possibilità di sentimenti, incendiando potenzialità di desideri, e producendo un senso di attonito disorientamento, di atterrito smarrimento di fronte all’improrogabile condanna. Il destino di dissoluzione ingloba l’intera realtà cosmica, incontrovertibilmente votata alla frantumazione, alla trasformazione in kipple, la palta formata da un gigantesca massa di particelle di polvere radioattiva e di frammenti infiniti di detriti, che, ammantando la crosta terrestre, e insinuandosi minacciosamente nei suoi anfratti, ne distrugge i pieni e ne riempie i vuoti. La sorprendente capacità analitica di Dick nell’approfondire le antiche questioni dell’uomo di fronte a un universo che progressivamente assume tratti sempre meno consueti e la sua indubbia abilità nello scandagliare la sensazione di spaesamento spazio-temporale che affligge la nostra condizione ci inducono ad accomunare le volontà negate dei sofisticati esemplari di unità Nexus-6, infiltratisi illegalmente sulla Terra, ai timori rimossi degli umani da cui essi sono braccati. Dick vuole illuminare un’oscurità solcata da creature artificiali, tossici abbrutiti, esseri deevoluti, tutti kipple viventi, residui organici o rottami meccanici, debolmente striscianti, ammassati in un mondo che altro non è che la versione allegorica del nostro, intangibile nel suo mistero, imperscrutabile nella sua indecifrabilità, segnato indelebilmente dal crollo dell’ordine razionale e stretto dalla morsa entropica che tutto stritolerà.
Eppure si afferma tenacemente una forza contraria al potere demolitore costantemente in azione, che si appiglia, di volta in volta, ad ancoraggi di natura scientifica, filosofica o teologica, o semplicemente ad espedienti letterari, epifenomeni di un oceano inconscio, buio e tempestoso, sul cui fondo scalpitano sogni, tormenti e ricordi indistruttibili. Impulsi nebulosi, regressivi, imperituri sembrano dibattersi nell’ubikiana semivita, popolata da morti viventi congelati in “moratoria”, sfera che presenta le sembianze sfuocate dell’indefinito, i contorni sbiaditi di un’esistenza sospesa, metafora di ciò che disperatamente resiste alla sua stessa fine. Flebili palpitazioni, turbinii di misteriosi pensieri, sconnessi e disarticolati, brandelli di coscienza, avanzi di memorie, fluttuanti sensazioni, fumose visioni abitano la gelida immobilità che caratterizza il kipplizzato orizzonte di non-morte, delineato in Ubik (Dick 1999), un mondo che declina, riportando alla superficie fasi passate di una realtà che smarrisce il suo sostegno interno, rifluendo verso forme arcaiche, soprattutto quando i legami con tale realtà sono ancora molto forti, e l’universo indugiante viene trattenuto come carica residuale della mente e vissuto come un ambiente apparentemente reale, ma fortemente instabile, privato del supporto di qualsiasi struttura ergica (Dick 1999, p. 135). La regressione temporale delle elaborazioni degli artefatti, contro-processo che fa riaffiorare gli stadi primitivi delle configurazioni materiali, sovverte ogni criterio di logica successione, peraltro già irrimediabilmente spezzata in Counter-Clock World (Dick 2001), che capovolge il continuum del ciclo biologico, invertendo la naturale sequenza degli eventi nascita-morte.
Il romanzo, costruito intorno alla Hobart Phase, ribalta la direzione del tempo, che appare non più solo disarticolato, scardinato, fuori squadra, out of joint, ma upside down, rigirato (Pagetti 1983, p. 173), cosicché i morti resuscitati possono rivivere all’indietro il già vissuto, dalla tomba all’utero. Alcune ditte specializzate, i “vitaria”, si occupano di prelevare i defunti, ritornati al mondo, da cimiteri trasformati in magazzini di vita, serbatoi di anime in procinto di risvegliarsi dalle maligne tenebre, depositi che custodiscono sottoterra la vita nascente pronta a riattraversare, in senso inverso, le varie fasi dell’esistenza già trascorsa. A ritroso è vissuto anche il periodo della gestazione: “Le madri, nove mesi dopo che un bambino era entrato nel loro utero, diventavano… in calore […], era una necessità biologica; lo zigote si doveva scindere in sperma e uovo” (Dick 2001, p. 135). Sembra non essere già così lacerante la vocazione alla sterilità che serpeggia nelle pagine dickiane: “Nove mesi l’ho tenuto, mentre diventava giorno dopo giorno sempre più una parte di me; è una sensazione meravigliosa, lei non ha idea di come ci si sente mentre un’altra creatura, una creatura che si ama, si fonde molecola dopo molecola con le tue stesse molecole” (ivi, pp. 133-134). In realtà è già affermata la volontà di azzeramento della potenzialità creativa propria del concepimento, che si convertirà in negazione di ogni principio di vita: “Mi sento solo come morta e svuotata […]. Forse sono incinta” (Dick 1997, p. 266). In In Counter-Clock World, infatti, l’attimo della fecondazione è il momento conclusivo di un’esistenza che ha già compiuto il suo ciclo e che reperirà proprio nel suo incipit l’ineluttabile fine: dalla morte ci si può risvegliare, ma nel principio primo della vita si incontra il termine ultimo, che occlude ogni spiraglio, sigilla ogni apertura, nega ogni riconversione, nella chiusa circolarità di un percorso avvitato claustrofobicamente su se stesso, nell’assoluta, soffocante coincidenza di realizzazione originaria e annientamento finale, di regressione embrionale e rattrappimento cadaverico.
Il fosco paesaggio sepolcrale fa da sfondo al divenire e al suo ciclo perpetuo di produzione e di distruzione, al prepotente, operoso dissidio di un processo che promuove la nostra nascita e ci divora senza tregua. È nel trasformare il futuro in passato, nello scompaginare l’ordine degli accadimenti che si riesce a cogliere l’impulso febbrile proteso a rivitalizzare l’esanime, a ricostituire il corrotto, a ricomporre l’infranto. Una tensione ontologica, manifestazione di pulsioni profonde, si riflette sul piano epistemologico, intrecciando un inscindibile nodo tra processi e rappresentazioni, natura e metafisica, esistenza e conoscenza, essere e scienza, e riaccendendo una dialettica che non si estingue nell’implosione della polarizzazione vita-morte, nella cinica e crudele inconsistenza di un tempo inafferrabile. Se le categorie di spazialità e temporalità consentono la costituzione dell’identità soggettiva attraverso la nostra collocazione in un particolare flusso storico e il nostro inserimento in una determinata costruzione sociale, l’inabilità umana ad esercitare un controllo su spazio e tempo sollecita Dick a divellere tali coordinate, a divertirsi nel moltiplicarle o dissolverle, per approdare perfino alla reversibilità dei processi, alla reiterazione dei percorsi, alla ripetizione di uno sviluppo già completamente dipanato.
Nelle riflessioni dickiane, dotate di un’intima coerenza, proliferano potenti risonanze filosofiche, che, pur senza giungere a una conoscenza approfondita, attraversano la cultura sapienziale buddista, la gnoseologia scettica di tipo analitico-humeano (cfr. Di Costanzo 1990), la dottrina della percezione kantiana, lo spirito anti-idealistico dello storicismo critico, ancorandosi, in Counter-Clock World, alla profondità speculativa della tradizione teologica occidentale, cogliendo il motivo ispiratore di specifici studi, rielaborandone i precipitati, ereditando l’intelligenza, la sensibilità e l’intuito di pensatori illuminati. “La materia stessa, indipendentemente dalle forme che assume, è al tempo stesso invisibile e indefinibile. Scoto Eriugena” (Dick 2001, p. 95): se lo spazio, mai corrispondente, almeno nell’infinitamente piccolo o nell’infinitamente grande, alla sua apparenza, ridelinea continuamente i suoi contorni, il tempo, disperso nella molteplicità informe degli istanti, sfugge inesorabilmente. “Ma non si è ancora raggiunto il domani e si è già perso lo ieri. E la vita di oggi non è più lunga di quell’attimo fuggevole e transitorio. Boezio” (ivi, p. 183): la tragedia cosmica della natura riconduce all’irrevocabile trascorrere dei giorni, sospendendo l’uomo tra il terrore del nulla e l’ambizione al raggiungimento della conoscenza ultima. “Tali pensieri meditava il mio misero cuore, oppresso dai più tormentosi affanni, per paura di dover morire prima di aver scoperto la verità. S. Agostino” (ivi, p. 201): nell’inquietudine della sua finitezza l’uomo ricerca la purezza, la perfezione e l’immutabilità dell’Essere, solo parzialmente carpito. Il sapere non è mai assolutamente esatto per non dover accogliere ripensamenti, assecondare riadattamenti, accettare accomodamenti, così come l’esistenza non è mai perfettamente definita da non presentare contorni da infrangere, barriere da oltrepassare, che Dick collega a forme di vita altre, altalenanti fra mondi diversi, in bilico fra passato e futuro, fra organico e meccanico, fra natura e artificio, espressioni di un costante slittamento dei confini, di una progressiva dissoluzione delle differenze nell’indistinzione di umano e oltreumano. E se Seth Morley, nelle pagine finali di A Maze of Death (Dick 1994), riconoscerà nell’esito letale l’unica speranza di salvezza, il suo pensiero sarà subito contraddetto dal gioioso entusiasmo di Mary Morley: “Una nuova vita […]. Nuove responsabilità e avventure eccitanti. Mi piacerà Delmak-0?, si chiese. Sì. So che mi piacerà” (Dick 1994, pp. 197-198). Anche in questo romanzo, dunque, si riconfigura una direzione, si ridisegna una destinazione, ricompare una meta già raggiunta, per quanto illusoriamente, all’interno dei mondi poliencefalici, dove ciascun personaggio, saldamente ancorato al proprio cubicolo, con cilindri di fili multicolori innestati sul capo, ricoperto dall’oscurità, può esperire un’idiosincratica realtà, vivendo vite artificiali, nella reiterazione convulsa di un ingannevole trip ripetuto all’infinito.
Il viaggio del protagonista di Counter-Clock World segue un percorso circolare, che inizia e si conclude nel piccolo cimitero di Forest Knolls, fra fiori rinsecchiti ed erbacce ammuffite, mentre le ombre della notte, regnanti nell’entropico tomb world, avvolgono Sebastian Hermes e il freddo tagliente, penetrato fin nel suo cuore, lo attanaglia. Scrutando nell’oscurità, scorgiamo questo eroe senza gloria, coperto di polvere, intento a scavare, per far sgorgare la vita dalla fossa, tra le macerie prodotte dal catastrofare del tempo avido e rapace. Mentre osserviamo il suo volto contratto non possiamo non pensare a un’altra icona dickiana del dolore, l’inebetito Bruce di A Scanner Darkly (Dick 1998), che, in ginocchio, contempla attonito il sorgere, questa volta, della morte dalla terra, il suo spuntare insieme all’azzurro “fiore del futuro” (Dick 1998, p. 327), la Substance Death, la droga che dissemina degenerazione e disperde vita. “Sic igitur magni quoque circum moenia mundi expugnata dabunt labem putresque ruinas” è scritto sul monumento dell’Anarca Thomas Peak di Counter-Clock World, il profeta carismatico, il messia che avrebbe dovuto salvare il mondo con la sua rinascita, e che gli uomini hanno crudelmente ucciso. Hermes non comprende alla fine il significato dell’iscrizione, non trova un senso che spieghi le sventure, che plachi la sofferenza, che attenui lo sconforto. Ad un tratto, però, il gelido silenzio sembra sciogliersi, frantumato dal mormorio confuso del ritorno alla vita, l’eccitato balbettio, indistinto e lontano, dei redivivi: “ -Hanno bisogno d’aiuto - disse Sebastian […]. -Non ne ho sentito uno solo questa volta, li ho sentiti tutti- Non aveva mai sentito nulla del genere. Mai. Così tanti tutti in una volta, tutti insieme” (Dick 1998, p. 259). E seppure Hermes non riuscirà a cambiare il corso dell’umanità, né ad essere ricordato in eterno come il titolare del vitarium Fiasca della Grande Los Angeles, perché rivelatosi incapace di salvare l’Anarca risorto, seppure sarà destinato ad essere cancellato dalla storia, dopo aver distrutto le nuove basi di una nascente teologia mondiale, continuerà comunque ad assistere al travaglio della rinascita, a testimoniare la realizzazione dell’avvertimento di Paolo di Tarso, costante riferimento nell’opera dickiana, il risveglio dalla morte del Cristo, primizia di tutti coloro che si sono addormentati, e lo farà nel modo più nobile per un essere umano, compartecipando a una sofferenza e adoperandosi per attenuarla, ricercando la vita nell’annullamento di un dolore corale, contraddicendo l’ultima verità dell’incomprensibile epitaffio, interrompendo l’infinità del grande riposo. “Sum tu, pensò [...]. Io sono te, per cui quando tu muori, muoio anch’io. E finché io sono vivo tu continui a vivere. In me. In tutti noi” (ivi, p. 244): con questa riflessione Sebastian scrolla gli ultimi residui, reali e metaforici, dell’umido terriccio della tomba dai corpi inerti, soffiando la vita in essi, riaffidando loro un compito, riconsegnando loro un’anima. “Ma come possiamo misurare il presente vedendo che non ha spazio? Lo si misura mentre passa; ma quando sarà passato non si potrà misurarlo, poiché non ci sarà niente da misurare. S. Agostino” (ivi, p. 209): se il passato non è più, è però nell’anima che persiste la memoria del tempo trascorso, e se il futuro non è ancora, è  sempre nell’anima che insorge il desiderio di ciò che l’avvenire potrebbe riservare. È dunque nell’anima che si riesce a fissare la caducità di un tempo altrimenti ingovernabile, trattenendone l’inarrestabile corsa, ed è nel gioco di dissolvenze, così tipicamente dickiano, in cui alla realtà si sovrappone l’illusione e alla morte si sostituisce la vita, che, forse, intravediamo ciò che veramente Dick tenta di dirci con questo romanzo permeato del senso dell’attesa, scosso dagli effetti macabri e grotteschi di un capriccioso processo siderale. “Hanno bisogno d’aiuto” suggerisce accoratamente il rabdomante dei vivi, battezzato da Dick come il dio greco che accompagnava le anime dei defunti nell’Ade e che fu concepito, in un tempo molto antico, come divinità ctonia, oltre che dei morti, della fecondità, della terra e delle forze potenti che la animano. Hermes, evocando, dunque, con il suo nome, significative contraddizioni, esorta a prestar attenzione, a condividere empaticamente gli affanni altrui, a prendersi cura del prossimo, tesaurizzando un altro insegnamento paolino, il perseguimento dell’agape, la carità, qualità che lo stesso Dick si preoccupa di far guizzare nelle batterie ad elio dei suoi robot, quasi a volerne contrastare l’assenza nei cuori umani. “Tu e io, quando argomentiamo, ci compenetriamo l’uno nell’altro. Quando infatti io comprendo ciò che tu comprendi la mia mente si fonde con la tua, e in certo qual modo ineffabile mi compenetro in te. Scoto Eriugena” (ivi, p. 87): la religione dell’illusione si traduce così in religione della realtà fondata sul culto delle virtù, trasformando il canto della morte in elegia alla vita, tramutando il tempo cangiante in condivisa dimensione dell’esistere e la durata sincopata in una serie di ritmi che concatenano terreni vissuti individuali. Il prestar attenzione alle cose presenti, il rivolgere la mente all’hic et nunc dell’oggi, e a quanto esso ci richiede, con il suo portato di pene e afflizioni, con il suo carico di responsabilità, ci permette di rinascere nella solidarietà, di non irrigidirci in un passato che non è più e di non disperderci in un futuro che non è ancora, ma di fissare l’istante, protraendo l’Augenblick di un tempo che, da successione desolatamente disgregata, si converte in sensata unità di un eterno presente in cui nulla sembra trapassare.

L’avventura letteraria dickiana, sempre aperta a nuove soluzioni, disposta a rischiarare inesplorati risvolti, tesa a svelare i profili di universi probabili, varca la sottile soglia del sensibile, per sondare l’invincibile invisibile. Dick, cercando incessantemente la ragione profonda che ci lega alla nostra sorte, urla la sua fede dolente non nella resurrezione dei corpi, bensì nella condizione di una storia che non procede seguendo un senso unitario, poiché ogni esistenza singola, in ogni suo attimo, deve trovare tutto il suo senso in sé. Scompaginando gli ordini stabiliti, sconvolgendo gli itinerari prefissati, moltiplicando i tragitti possibili, il sentire dickiano rifiuta l’idea di un divenire ascendente e cumulativo, nel quale ogni evento risulta essere il diretto precipitato di una crescita rispetto al passato e la condizione di uno sviluppo futuro. Ben lontana da una visione storica unilineare in senso verticale, tale world view, conferendo problematicità alla nozione dell’esistente come sequenza di avvenimenti proiettata finalisticamente verso un risultato, dissolve ogni pretesa di tipo assolutizzante, collocando il disincantato Occidente, razionalizzato e intellettualizzato, non più al culmine di una vicenda di progresso. Dick non interpreta la realtà come manifestazione graduale di un escatologico realizzarsi storico, né il progresso come suggello di una Weltanschauung pervasa dell’illusione di certezze inconfutabili. Non è dato reperire nei suoi complicatissimi romanzi alcuno stereotipo tardo-positivistico di glorificazione tecnologica, ma, aggirandoci nelle cupe atmosfere delle distopiche metropoli del suo futuro e del nostro presente, si scorgono degli spiragli, dei varchi dischiusi nei catastrofati landscape, che, attraverso i capovolgimenti di prospettiva e i finali aperti, ci permettono di penetrare in mondi probabili, pronti a ricostituire significati, a correggere soluzioni, a rielaborare interpretazioni, grazie a un soggetto che si riappropria di una consapevole individualità e di una responsabile libertà.
La negazione di una teoria totalizzante comporta una costante ridefinizione dei limiti di una visuale che, nell’intreccio di analisi storico-politico-filosofica, idiosincratica rifunzionalizzazione religiosa ed elaborazione di immaginario, come un complesso e sconfinato sistema di linkage, si mostra finalizzata a inattese connessioni, a insospettate ramificazioni. “Poi oltrepasserò anche questo limite della natura, innalzandomi per gradi fino a Colui che mi ha creato. E giungerò ai campi e agli ampi palazzi dei miei ricordi. S. Agostino” (ivi, p. 217): Dick riarticola la dottrina della conoscenza come rimembranza, anche attraverso il richiamo, in altri punti della sua opera, all’anámnesis platonica, che allude alla perdita dell’amnesia, all’annullamento della dimenticanza, al recupero della memoria delle proprie origini, rievocando un più autentico sapere e incrociando il tempo all’attività della coscienza, misura delle vicissitudini dell’anima, con le sue reminiscenze e con le sue proiezioni.
È l’alitare della pietas sull’impenetrabile mistero universale a sollevare l’uomo dall’epica vicenda del cosmo verso l’assoluto, placando l’ansia di una ricerca che non si arresta di fronte alla soglia fluttuante del confine, ma ne fa la sua linea di partenza, rilanciando sfide, rinvigorendo le energie intrinseche della speculazione, conciliando le dicotomie, mentre l’infinito sfuma nel finito, il provvisorio interseca l’eternità, l’individuale sparisce nell’universale, e la morte, che non uccide fino in fondo la vita, trasforma la fine nel principio di un tempo nuovo.
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:: letture ::

— Dick, P.K., Counter-Clock World, 1967, trad. it. di P. Prezzavento, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.

— Dick, P.K., Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968, trad. it. di R. Duranti, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000.

— Dick, P.K., Ubik, 1969, trad. it. di G. Montanari, Ubik, Fanucci, Roma, 1999.

— Dick, P.K., A Maze of Death, 1970, trad. it. di V. Curtoni, Labirinto di morte, Fanucci, Roma, 1994.

— Dick, P.K., We Can Build You, 1972, trad. it. di G. Montanari, Abramo Lincoln androide, Fanucci, Roma, 1997.

— Dick, P.K., A Scanner Darkly, 1977, trad. it. di G. Frasca, Un oscuro scrutare, Fanucci, Roma, 1998.

— Di Costanzo G., Appunti su Philip Kindred Dick, in La parola abitata, aprile 1990.

— Frasca G., La scimmia di Dio, Costa & Nolan, Genova, 1996.

— Frasca G., L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, Meltemi, Roma, 2007.

— Nietzsche F., Unzeitgmässe Betrachtungen, Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1873-76, trad. it di Giametta S., Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1973.

— Pagetti C., Quando i morti si risvegliano: il mondo alla rovescia di Dick, 1983, in Viviani-Pagetti 1989.

— Pagetti C., Quando i mostri si svegliano, in Ph. K. Dick, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.

— Ronchetti E., Postfazione, in Ph. K. Dick, In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.

— Viviani G – Pagetti C., (a cura di) Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, Editrice Nord, Milano, 1989.