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visioni /
di Adolfo Fattori
Pulp, Reich e altri temi caldi
di Quentin Tarantino

Il colossale rogo del cinema in cui si svolge l’azione clou dell’ultimo film di Quentin Tarantino, Bastardi senza gloria (2009), contiene, secondo noi, una sequenza straordinaria: quella in cui sul movimento del fumo delle pellicole in fiamme che copre lo schermo cinematografico continua a essere proiettato il volto di Shosannah (Mélanie Laurent), la protagonista del film, sempre più deformato dal gonfiarsi delle nuvole di fumo, che trionfa nella sua vendetta contro i nazisti. In quel rogo, in quel nuvolone di fumo grigio, c’è molto del discorso sul cinema e sulla materia del cinema, discorso che il regista statunitense ha sviluppato sin dall’avvio della sua carriera, con Le iene (1992) e Pulp Fiction (1994), per proseguirlo poi con le altre sue pellicole. E anche una riflessione sulla realtà, sulla sua natura effimera, fungibile, mutevole, di cui il cinema ci parla. Ma prima di affrontare questo discorso vale la pena di raccontare velocemente la trama del film, le due azioni che si svolgono in parallelo per unificarsi nel finale. Le vicende si svolgono durante la seconda guerra mondiale. Mentre nella Francia occupata dai nazisti la giovane Shosannah riesce a sfuggire alla strage di tutta la sua famiglia dopo avervi assistito impotente, dietro le linee tedesche agisce una squadra di soldati americani di origine ebrea, a cui si è aggiunto un disertore tedesco, guidati da Aldo Raine (Brad Pitt), i “Bastardi senza gloria” del titolo, impegnati a terrorizzare i tedeschi, uccidendoli, scalpandoli, e pubblicizzando il più possibile il loro cruento lavoro di pulizia. Per sintetizzare, siamo dalle parti di “È uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo”. E loro lo fanno con gusto… Shosannah, intanto, è riuscita a riparare a Parigi, dove sotto falso nome è diventata proprietaria di un cinema. Cinema in cui i nazisti le impongono di organizzare la prima di un loro film propagandistico, Orgoglio della nazione (che ci sia qualche riferimento nascosto a Nascita di una nazione di David W. Griffith del 1915?), incentrato sulla figura di un giovane cecchino, elevato a rango di eroe del Reich, che si innamora della ragazza. Alla prima del film – e questo è il punto centrale della pellicola, dove si incrociano i fili delle due storie – assisterà l’intero gotha del nazismo, a partire da Adolf Hitler. Un’occasione perfetta per organizzare un attentato. A cui lavorano, ignari l’una degli altri, Shosannah e i “Bastardi”. E l’attentato riesce: la ragazza, per cogliere la sua vendetta, fa sbarrare le porte del cinema, e da fuoco all’intero patrimonio di pellicole in celluloide che ha in magazzino, mentre i Bastardi che si sono intrufolati nella sala cominciano a sparare sui gerarchi del nazismo, e alla proiezione dei “fasti” dell’eroe nazista si sostituisce il volto di Shosannah che recita la condanna a morte dei macellai nazisti. Ma anche la ragazza muore, uccisa dal cecchino nazista che si era introdotto nella camera del proiettore convinto che lei fosse innamorata di lui…
A salvarsi è Aldo Raine, che per la propria libertà accetta di fare da mediatore per far emigrare negli Usa Hans Landa (Christoph Waltz), il nazista che aveva fatto sterminare la famiglia di Shosannah. Si concede però un ultimo piacere: col coltello, incide sulla fronte di Landa la croce uncinata, perché questi non possa mai nascondere il suo passato di boia.

Hollywood ha spesso riscritto la Storia, romanzandola e elaborandone versioni melodrammatiche, a partire dai colossal peplum e continuando in quest’opera di rielaborazione attraverso tutte le epoche. Ma Tarantino compie un’operazione molto più vertiginosa, quasi da science fiction. Perché riscrive il passato prossimo, quello ancora vivo e doloroso, e quindi direttamente confrontabile con i “fatti” raccontati nel film. Architetta, insomma, una storia parallela, che potrebbe far pensare – anche se quella tarantiniana ha un esito sicuramente più gradevole – a operazioni come quella allestita da Philip Dick con La svastica sul sole (2001). E, ancora una volta, ne approfitta per parlare di cinema e di cultura di massa. Prima di tutto, facendo suo il titolo con cui è noto in America Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari (1977), a cui si è ispirato anche per la sinuosità dell’intreccio, se non per la struttura della trama. Ancora, per la centralità del cinema, del dispositivo cinematografico (Albano, 1992), nella storia che racconta – e per il taglio estremo che dà ad alcuni tratti del film, a incominciare dai ritratti dei “Bastardi”: caratteri iperbolici, eccessivi, come quelli dei personaggi dei fumetti e dei pulp magazine. E ancora, per il piacere della libertà di raccontare storie esagerate, forti, senza porsi troppi scrupoli nei confronti del politically correct. È evidente che – senza ricorrere alle acrobazie di Le iene o di Pulp Fiction – il regista americano lavora prima di tutto di montaggio, intrecciando le varie sequenze di eventi (ce n’è una terza, che racconta la prima fase – disastrosa – dell’organizzazione da parte degli alleati dell’attentato a Hitler che poi verrà affidato ai Bastardi di Raine) in modo tale da tenere sempre alta l’attenzione degli spettatori e da gestire al meglio la “macchina dei perché” – la concatenazione logica dei fatti – su cui viaggia il film. Come straordinarie sono la prima scena della pellicola, colma di tensione, quasi hitchcockiana, in cui il maggiore nazista Landa recita perfettamente la sua parte di gatto che gioca col topino, il contadino francese che nasconde la famiglia di Shosannah sotto il pavimento, con la macchina da presa che in carrellata verticale riprende prima i due e poi gli ebrei stesi sotto le assi, in attesa… Scena che si replica nel bar in cui la ragazza, ormai proprietaria del cinema a Parigi, viene condotta dai nazisti per essere “invitata” a ospitare la prima di Orgoglio della nazione e ritrova proprio Hans Landa…

Ma non è solo il virtuosismo di Tarantino nella gestione delle sequenze – e la lezione di cinema che ci offre – a rendere Bastardi senza gloria un film speciale: è, come scrivevamo sopra, il discorso sul cinema come dispositivo che il regista ci propone. È la sala parigina della giovane Shosannah, infatti, il centro di tutto. È lì che lei trova una nuova identità, le ragioni per continuare a vivere – e sperare di poter organizzare una futura vendetta. Cosa che puntualmente avviene. Ed è sempre lì, nella dimensione fuori del tempo e dello spazio che è possibile organizzare la riscrittura della Storia, forzare la mano, agire sugli eventi e costruire un percorso parallelo per le vicende umane. Come lo spettatore in sala, al buio, avvolto nella sua poltrona, si lascia andare al flusso delle immagini che scorrono sullo schermo, e si ritrova in una dimensione parallela, in cui sospendere l’incredulità e proiettarsi lui stesso nel mondo immateriale del film, così Shosannah – e noi con lei – può sognare di rinchiudere l’intera élite criminale nazista nella sua sala, per fargli fare – a loro, sì – la fine dei topi, fra il fumo e le fiamme delle pellicole che bruciano. E proiettare il proprio volto gigantesco, incombente, che sovrasta quell’accolita di macellai per dire in diretta la sua vendetta – e liberare il mondo dalla peggiore feccia della storia. La sala cinematografica diventa lo strumento della giustizia, il luogo dove l’ordine stabilito delle cose si può ribaltare. Ma può diventarlo solo perché lì si materializza la sostanza – e la potenza – del cinema come dispositivo fatto per rendere reale il desiderio, per rendere viva la materia dei sogni. E solo lì la giovane ebrea può pensare di esigere il suo credito. Cambiare la Storia, renderla più “giusta” attraverso l’immaginazione. Questo sembra l’obiettivo – giovanilista? – del regista, che lo persegue con gli strumenti della cultura di massa, dei pulp magazine, in particolare. Divertendosi, insomma, e ricorrendo a tutti gli attrezzi che questa gli offre. Proseguendo nel suo lavoro di esplorazione e disvelamento delle possibilità offerte dal linguaggio cinematografico. Costruendo il suo percorso quasi al contrario: partendo cioè dalla forzatura delle regole con il montaggio di Le iene, in cui la scansione temporale degli eventi data dal montaggio si combina in un gioco di flashback ancora, se si vuole, “canonico”, seppur portato al limite, per poi esplodere con Pulp Fiction, dove l’organizzazione del testo fa pensare alla lettura casuale di fumetti seriali, comprati a caso in un mercatino dell’usato – il che costituisce la sua forza, esprimendo la sinuosità dell’immaginario, il suo essere percorribile solo come labirinto, come un “sentiero dei giardini che si biforcano”, per citare Jorge Luis Borges (2003). Poi, torna ad una dimensione più classica della gestione del tempo narrativo con Jackie Brown (1997), tratto da un romanzo di Elmore Leonard (2004), uno degli scrittori – non a caso – più apprezzati dal regista. La scrittura di Leonard – sceneggiatore di valore – è già di per sé decisamente cinematografica, in termini di scansione delle vicende, di “montaggio”, se si vuole, e di gestione dei dialoghi fra i personaggi – secchi, essenziali, profondamente ironici. Scrittura perfetta per il cinema di Tarantino. Lavoro che continua con Kill Bill I (2003) e Kill Bill II (2004), fino ad arrivare a Inglorious Basterds. Con quest’ultima fatica si può dire – se assumiamo che i Bastardi siano a cavallo fra storia e fantascienza – che il regista, sfruttando al massimo l’artificio della croyance, abbia affrontato tutti i generi narrativi, tutti filtrati attraverso la sua sensibilità pulp/pop, non solo riattraversando la storia del cinema ed esplorandone il linguaggio, ma anche descrivendo il funzionamento del cinema stesso come dispositivo: come un qualcosa che – fatto di sala, di proiettore, di schermo e di spettatore – riesce a rielaborare la realtà: il tempo e lo spazio che abitiamo, i nostri sogni, i nostri incubi – e a materializzare l’antica premessa dell’immaginazione: Cosa sarebbe successo se…? In questo caso, proponendo un sogno titanico: la fine del nazismo in anticipo. Fantasia, certo. Facile gratificazione, forse. Ma… Che bello, vederli bruciare, con la paura trasparire dai volti e dai gesti.

 


 

:: letture ::

— Albano L., La caverna dei giganti, Pratiche, Parma, 1992.

— Borges J. L., El jardin de los senderos que se bifurcan, in Ficciones, 1944, trad. it.
Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, Adelphi, Milano, 2003.

— Dick P. K., The Man in the High Castle, 1962, trad. it. La svastica sul sole, Fanucci, Roma, 2005.

— Leonard E., Rum Punch, 1992, trad it. Jackie Brown, 2004, Il Saggiatore, Milano.

 

:: visioni ::

— Castellari E. G., Quel maledetto treno blindato, Italia/Germania/USA, 1977, Medusa Home Entertainment, 2008.

— Griffith D. W., The Birth of a Nation, USA, 1915, Nascita di una nazione,
20th Century Fox Home Entertainment, 2006.

— Tarantino Q., Reservoir Dogs, USA, 1992, Le iene, Eagle Pictures, 2003.

— Tarantino Q., Pulp Fiction, USA, 1994, Cecchi Gori Home Video, 2000.

— Tarantino Q., Jackie Brown, USA, 1997, Cecchi Gori Home Video, 2003.

— Tarantino Q., Kill Bill I, USA, 2003, Buena Vista Home Entertainment, 2006.

— Tarantino Q., Kill Bill II, USA, 2004, Walt Disney Company Italia, 2004.

— Tarantino Q., Inglorious Basterds, USA, 2009, Bastardi senza gloria, Universal Pictures, 2010.