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L'uomo cartesiano, la natura bizzarra e il topolino di Thorndike
di 
Livio Santoro

b07.jpg All’inizio del secolo scorso, siamo più o meno nel suo secondo decennio, alcuni studiosi di psicologia e fisiologia cominciarono a produrre una serie di studi volti alla definizione di un concetto fondamentale per la comprensione dell’uomo. Si parla del concetto di comportamento, e di quello correlato di apprendimento. Il fatto curioso è che questi studiosi prendevano in esame non l’essere umano, pur cercando risposte per questi. Prendevano in esame, in prima battuta, il comportamento animale. Erano topi e cani a decidere dell’uomo. Il primo di questi strani studiosi fu Ivan Petrovi? Pavlov. Egli si rivolse ad un pubblico canino, inibendo o agevolando quelli che saranno poi definiti riflessi condizionati ad un cane attraverso il suono di un campanellino. La storia è questa: il fisiologo (Pavlov) suonava una campanella appena prima della somministrazione del cibo all’animale, e questo avveniva per diverse volte, fin quando l’inconsapevole quadrupede non gocciolava festoso dalla lingua ogni volta che sentiva uno scampanellio, indipendentemente dalla successiva somministrazione di cibo.
Edward Lee Thorndike, invece, poco tempo più tardi, elaborò un giochino ancora più sofisticato: era solito mettere un topolino all’interno di un labirinto e osservarne il comportamento. In sostanza riuscì a desumere dai suoi esperimenti che la cavia era in grado di rendersi conto della destra e della sinistra, dunque di risolvere l’intrico artificiale del labirinto, solo se ad ogni buona riuscita casuale (o tenace) veniva associata una ricompensa, generalmente un cibo saporito. Ne venne fuori la famosa legge dell’effetto, che Edward Thorndike ed i suoi colleghi comportamentisti allargarono per validità anche al comportamento umano. Ci si soffermi adesso su quest’ultimo esperimento. Il topolino sarebbe in grado di rendersi conto del proprio ambiente, del labirinto nella fattispecie, in presenza di una cospicua ricompensa. Altrimenti il topolino avrebbe affidato al caso la soluzione alla sua morbida prigionia. Tuttavia si disse, discutendone successivamente nella aule di psicologia, che tale legge postulata da Thorndike non poteva in alcun modo essere allargata all’uomo, in quanto quest’ultimo non segue il rigido schema che alla stimolazione giustappone una risposta sempre uguale, in quanto in esso (si perdoni la neutralità grammaticale affidata all’essere umano) vigono una miriade di processi che intervengono testardamente nel tragitto non così tanto lineare che esiste tra lo stimolo e la risposta.
E se invece non fosse veramente così? Se invece l’essere umano non subisse tutti questi processi che lo fanno un essere francamente più complesso del topolino? Sarebbe un ragionamento fatto per assurdo. Ma spesso, quando le cose non sono così chiare come dovrebbero, il ragionamento per assurdo è uno degli strumenti maggiormente fertili per un’analisi dei fatti. Quantomeno è affascinante. Ovviamente lo stesso vale per le cose che sì sono chiare, ma che forse sarebbe meglio se talvolta venissero messe in discussione, e forse questo è il nostro caso.
Si postuli allora un’assurdità: l’essere umano è come un topo, riesce a risolvere i problemi solo se messo davanti ad una ricompensa (tutto sta nel decidere di questa ricompensa, ma a questo si arriverà più sotto). Così come il topolino di Thorndike aveva per sé un luogo problematico, il labirinto all’interno del quale si muoveva, c’è bisogno di rintracciare un luogo problematico anche per quel che riguarda l’uomo. Diciamo che tale luogo è nient’altro che l’ambiente stesso all’interno del quale risiede l’essere umano. L’ambiente tutto, la Terra, il mondo, che dir si voglia. Certo che, per quanto improbabile, questo accostamento trova la sua ragion d’essere nell’assurdità postulata poco sopra, dunque non ci si preoccupi, non subito, dell’aderenza di quest’accostamento alla realtà.
Perché l’ambiente, quello che così abbiamo definito per non dire Terra, può risultare per l’essere umano un labirinto? Semplicemente perché, in certe situazioni, è estremamente difficile rintracciare una via d’uscita a determinate problematiche. Questo soprattutto in ragione di un’evidenza, sia concesso. Se le pareti del labirinto cominciassero a crollare o, per lo meno, a vacillare? Certamente il topolino di Thorndike avrebbe bisogno non solo di un lauto pasto per uscirne, forse avrebbe bisogno di un aiuto sostanziale da parte della mano attenta del suo aguzzino.
Allora si postuli ancora uno stadio successivo per questo ragionamento, o meglio si ponga ancora un’altra domanda, a patto di non lasciarsi sopraffare dal tedio di tutto questo giro di punti interrogativi, va da sé. La domanda successiva è questa: se anche l’ambiente in cui l’uomo cresce e pasce cominciasse a vacillare, a mostrare delle crepe minacciose di incurabilità? Questo è il punto decisivo, e lo descriviamo con un’altra domanda: come si comporterebbe l’essere umano? Sicuramente, o meglio probabilmente, dovrebbe trovare una seria alternativa alla fiducia nella mano del suo aguzzino, come avrebbe fatto il topo. O magari no, forse dovrebbe fare la stessa cosa del topo, comportarsi come l’animaluccio, curandosi però di non tralasciare un’evidenza per nulla secondaria. L’aguzzino dell’uomo è l’uomo stesso. Quell’uomo che ha sperimentato continuamente sulla propria pelle, accorgendosi solo in ritardo del fatto che, forse, la sperimentazione non è riproducibile all’infinito, soprattutto in regime di scarsità. E dato che la scarsità è una della caratteristiche principali dell’ambiente in cui l’uomo vive, questa diventa giocoforza una delle variabili sulle quali va maggiormente puntato il fuoco della questione qui dibattuta.
Certo questa storia non è così semplice e lineare come sembrerebbe, tuttavia se ne rintraccia una discreta corrispondenza con le cose che succedono e questa, purtroppo, è la scoperta più tragica che mostra la sua evidenza. Sono innumerevoli i motivi per cui avviene l’esiziale apparizione di un gigantesco labirinto, il mondo, che mostra crepe e minaccia di crollare, ma non è certo il caso di elencarli tutti. Non è, ovviamente, il caso di riportare la memoria alla combustione grigia, solforosa e continua della rivoluzione industriale; non è il caso di fare menzione ai gas di scarico delle automobili e delle fabbriche; allo stesso modo sarebbe tedioso ricordare le bombolette spray che hanno cocciutamente assottigliato, fino a bucarlo, lo strato di ozono (fortunatamente gli anni Ottanta si sono conclusi da un pezzo, con buona pace di permanenti bionde ed acconciature voluminose). E nemmeno c’è motivo di dare un tocco di colore alla nostra questione immaginando che anche la pastorizia, uno dei più antichi mestieri dell’uomo (non il più antico, è ovvio), incombe con i problemi gastrici delle numerosissime mandrie di vacche sull’equilibrio gassoso del nostro pianeta. Lo spessore di questo ragionamento, per buona sorte, vuole essere solo leggermente più elevato, ma è necessario andare un po’ più indietro nel tempo rispetto allo stato attuale delle cose, rispetto agli anni Ottanta, ed anche rispetto agli esperimenti di Ivan Petrovi? Pavlov e di Edward Lee Thorndike. Bisogna arrivare fino al Milleseicento e parlare per un attimo di René Decartes, Cartesio o Renatus Cartesius per usare un forbito latinismo. Bisogna andare a ritroso di così tanti secoli per rintracciare un fattore forse liminare rispetto a quello che si sta trattando, o forse non troppo marginale, quantomeno accostabile. Si faccia questo tentativo. Tra gli innumerevoli apporti all’indagine scientifica del pensiero di Cartesio c’è quello che parla di res cogitans e res extensa. Res cogitans e res extensa non sarebbero altro che le astrazioni primordiali attraverso le quali è possibile considerare l’essere umano. La prima corrisponde al mondo psichico, la seconda al mondo corporeo, quello fisico. Vi sono, cioè, alcuni fenomeni che appartengono in maniera privilegiata al primo tipo di realtà ed altri che, invece, corrispondono al secondo. È facile far scaturire da questa contrapposizione quella più classica e duttile che vige tra anima e corpo. Come noto, questa doppia visione delle cose ha avuto una serie di effetti nella lettura della realtà che per numerosissimi anni (ed è forse il caso di dire che, per certi versi, ancora siamo in questo periodo) hanno imposto un modo di vedere le cose per così dire condiviso. Non è la distinzione tra anima e corpo che ci preme indagare, ma quella, forse più mondana che appartiene alle maglie ristrette del metodo dell’indagine ontologica del mondo. Tale distinzione è quella tra soggetto ed oggetto. Lungi dal pretendere una soluzione frettolosa a questo problema secolare, sarebbe tuttavia importante assumerlo nella sua più immediata considerazione. Sostenere che esiste un soggetto e che esiste, parimenti, un oggetto ad esso separato vuol dire che si suppone l’esistenza di due realtà distinte: quella naturale (che corrisponde al mondo degli oggetti) e quella spirituale (che corrisponde a quello del soggetto). Si è presa a prestito la risaputa distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito non a caso, quanto per un motivo particolare. Le scienze della natura hanno come oggetto la natura stessa, le scienze dello spirito, va da sé, hanno come oggetto l’uomo. Ciò che le distingue non è solo il metodo che le caratterizza, che pure è differente tra le due, ma è anche e soprattutto l’oggetto a cui esse alternativamente si riferiscono. L’uomo è oggetto separato dalla natura, è, chiaramente, soggetto. Questo significa che esisterebbero due aree separate ed inconciliabili in quanto non hanno dichiaratamente continuità tra di loro, necessitando di un vero e proprio salto per essere perlustrate entrambe. Dunque l’uomo, ossia chi agisce nella pratica della perlustrazione scientifica, ha la possibilità di appropriarsi del mondo naturale con la certezza del fatto che esistono delle leggi a cui il mondo naturale si rifà, inderogabilmente. Il problema nell’indagine scientifica si verificherebbe, invece, all’interno dell’uomo stesso, inafferrabile fin quando non lo si promuove al ruolo di oggetto naturale. E quest’ultima cosa è, sia detto a margine, grossomodo quello che i comportamentisti, Thorndike e Pavlov, intendevano fare trattando l’animale come l’uomo (ossia l’uomo come l’animale).
Tuttavia abbiamo imparato che la realtà non è poi così lineare e che, di conseguenza, nemmeno l’essere umano è così semplice da poter essere ridotto a mero oggetto naturale. Dunque sarebbe il caso di associare nuovamente quelle due astrazioni cartesiane di res cogitans e res extensa ad un’unica piattaforma, e per farlo, qui, c’è purtroppo bisogno di insistere per qualche altro breve passaggio sul linguaggio tecnico della filosofia. Il primo ad aver sistematizzato questa rinnovata unione è stato il rigido fenomenologo austro-tedesco Edmund Husserl, e lo ha fatto proprio partendo dalla natura corporea dell’essere umano. In breve egli sosteneva che continuare a pensare anima e corpo nei desueti termini cartesiani di res cogitans e res extensa non faceva altro che imporre una separazione inaccettabile, per l’uomo e per la natura stessa. Motivo per cui propose una nuova definizione di corpo, non più soltanto considerato come Körper, che poi significa corpo organico, bensì considerato come Leib, ossia corpo vivente (questo è chiaro riflettendo anche sul fatto che la radice del termine Leib, nella ricchissima lingua tedesca, ha la medesima origine del termine Leben, che invece vuol dire vita). Nel Leib c’è quello che c’era nella res cogitans ed in quella extensa, c’è la natura corporea dell’uomo, dunque il suo specifico organismo, e c’è la sua natura psichica, dunque la sua soggettività. Husserl non ha fatto altro che riunificare ciò che Cartesio aveva separato, annullando un divorzio forse troppo affrettato. E questo accorgimento porta con sé un’altra importante ammissione ossia che se prima, con Cartesio, esistevano dei termini escludentisi quali anima e corpo, uomo e natura, adesso non è più il caso di parlare in questa maniera oppositiva. L’uomo è uomo, è corpo vivente, cioè sintesi di organismo e spirito. E questo vuol dire che l’uomo così inteso partecipa di un mondo che esiste nella natura relazionale della condivisione, dell’essere-con, dirà lo stesso Husserl. E questo succede dalla parte dell’uomo.
Ma dalla parte della natura, invece, che cosa succede? Anche la natura, sebbene con altre modalità, si ribella alla fossilizzazione cartesiana e dichiara, incontrovertibilmente, che essa non segue, né vuole seguire, leggi e schemi certi e sempre uguali a se stessi. Anche la natura si può divertire ad essere imprevedibile. Se è vero che l’uomo è oramai libero dalle ristrettezze di quattrocento anni di pensiero, ebbene anche la natura rivendica la sua indipendenza dichiarando che, se vuole, sa essere caotica ed indeterminata come nessun uomo saprebbe essere. E le teorie del caos, la meravigliosa inspiegabilità di cui parlano quei frattali che sono i fiocchi di neve, l’indeterminazione subatomica di Werner Karl Heisenberg, la classica relatività di Albert Einstein non fanno altro che rivendicare il diritto di autodeterminazione di una natura che non è mai stata così arrabbiata con l’uomo. E sì che la rabbia è proprio uno degli elementi costitutivi dell’essere umano. Dunque che la natura abbia un proprio pensiero? Questa forse è una concessione troppo elevata anche per Pindaro, tuttavia la natura è certamente più umana di quanto la pensassero gli apologeti, consapevoli ed inconsapevoli, del vecchio Cartesio.
Ecco che, tornando adesso sui nostri passi, incontriamo nuovamente il piccolo topolino di Thorndike, e la mano chiaramente divertita e segretamente crudele dello sperimentatore in camice bianco. Allo stesso modo incontriamo quell’uomo inebetito che vuole testardamente assomigliare al roditore da laboratorio, non rendendosi conto che la natura (come tuttavia dovrebbe essere valido per l’uomo stesso) è quantomeno bizzarra. Quell’uomo credeva di poter avere mordente sulla natura, tanto che la considerava come un sistema riassumibile in poche leggi dal risultato sempre uguale, un risultato tanto pervasivo da affascinare anche l’uomo stesso, nella considerazione della propria umanità, della propria soggettività. Ma così, ovviamente, non è stato. Nessuno è riuscito ad avere gioco facile con l’uomo, e lo stesso si può dire per la natura, per il nostro ambiente. Come per il nostro contemporaneo e spaesato topolino che non riesce più a destreggiarsi per una sola, immediata ricompensa attraverso le macerie del suo labirinto, lo stesso si può dire per quel che riguarda l’uomo, impegnato ancora a cercare le singole e minime ricompense per se stesso come singolo, come individuo separato dal resto, in un gioco oppositivo costantemente mirato al ribasso. Sarebbe la medesima cosa dire che le difficoltà incontrate a Kyoto (e soprattutto dopo Kyoto) sono le stesse di cui stiamo parlando? Sarebbe la medesima cosa evidenziare le difficoltà che il singolo (o la singola nazione, certo) ha nel percepire il valore delle ricompense? Magari potrebbe imparare dal topolino di Thorndike quest’uomo spaesato, o magari potrebbe aspettare che la mano del suo aguzzino lo aiuti a rialzarsi, a rimettere in piedi il suo mondo-labirinto. Ma è stato anche detto, in questa sede, che è proprio l’uomo ad essere aguzzino di se stesso, dunque questo proprio non sarebbe possibile, a meno di affidarsi all’imprevedibilità di quella natura arrabbiata che fa da sfondo alla vita quotidiana di miliardi di individui. E magari questa stessa natura potrebbe, chissà, decidere inaspettatamente di essere d’accordo con l’individualizzazione delle ricompense, e contribuire anch’essa a questo gioco crudele rilanciando sempre di più sulle risorse in campo, inventando nuove storie ed edificando nuovi labirinti da offrire all’uomo. Ma forse questa è veramente fantasia, è veramente immaginazione. E sì che proprio l’immaginazione testimonia della bizzarria dell’uomo, un essere tanto bizzarro da non sentir dolore al crollo delle macerie sulla propria testa.