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Simplicissimus, Švejk, Forrest Gump, o la guerra combattuta dai semplici
di 
Adolfo Fattori

b06.jpgLa guerra è brutta. Per tutti. Specialmente la guerra moderna. Quella che non conosce differenze: fra civili e militari, fra uomini e donne, fra adulti e bambini. Ancor di più per chi non ne conosce, né capisce le ragioni. La narrativa l’ha raccontato bene, prima attraverso i romanzi, poi col cinema. Mettendo in scena personaggi paradigmatici: innocenti e inermi travolti dal corso delle cose. Che però qualche volta, per loro fortuna, riescono ad uscirne vivi. Pensiamo in particolare a tre romanzi, tutti e tre raccontati anche dal cinema, seppur con diversa fortuna.
Pensiamo a L’avventuroso Simplicissimus, il romanzo barocco del tedesco Johan Jakob von Grimmelshausen (1672), trasferito sullo schermo da Fritz Umgelter (Francia, 1975), a Il buon soldato Švejk di Jaroslav Hašek (1923), da cui il film di Karel Steklý (Cecoslovacchia, 1956), a Forrest Gump di Winston Groom (1986), portato sugli schermi da Robert Zemeckis (Usa, 1994). Tutti e tre i personaggi dei titoli si trovano coinvolti in una guerra. 
Una guerra che – col senno di poi – si dimostrerà devastante, per gli umili, gli indifesi, naturalmente, ma anche per l’assetto politico generale.
Quella che combatte Simplicissimus è la Guerra dei Trent’anni, che sconvolse l’Europa dal 1618 al 1648, messa in opera da cattolici e luterani, e che mostrò con grande impiego di mezzi lo zelo meticoloso dispiegato nello scannarsi reciprocamente in nome dello stesso dio, con almeno una appendice periferica durata fino a tempi recenti in Irlanda del Nord che ha tenuto alto il memento delle vecchie stragi – imitati peraltro con entusiasmo, appena affacciatisi nella modernità, dai musulmani, sciiti e sunniti almeno. Naturalmente anche a danno delle popolazioni civili, in primis – naturalmente – donne, vecchi, bambini. Tirato per i capelli nella catastrofe, il giovane sopravvive inventandosi mille ruoli, e transitando da una situazione all’altra, con astuzia e prudenza, millantando e scantonando, fino alla fine del conflitto.
Imitato, all’inizio del XX secolo, da un piccolo truffatore, commerciante di cani, che raccatta randagi per le vie della Praga imperialregia per dotarli di pedigree falsi e spacciarli agli ingenui come cani di razza, impiegando i ritagli di tempo che la sua nobile arte gli concede per sbevazzare all’Osteria del calice, sparlando dell’imperatore e del suo governo, ignaro delle profonde questioni che agitavano l’impero degli Asburgo, fin quando non viene sentito, all’indomani dell’attentato di Sarajevo, da un agente della polizia politica. Ora, come doveva essere vivere in Cacania subito prima che scoppiasse la Grande guerra ci è stato illustrato per altri versi con assoluta precisione da Robert Musil in L’uomo senza qualità. Lo scrittore austriaco costruisce uno straordinario affresco di una cultura in crisi di identità – e della crisi delle identità di chi in quella società viveva. Ma Musil si ferma alla vigilia dell’attentato di Sarajevo. E comunque il suo è il punto di vista dell’intellettuale, del borghese (seppur critico). Ironico e distaccato quanto è necessario per osservar/si mentre la catastrofe si annuncia. Švejk, invece, ci offre il punto di vista dei semplici. Degli operai, dei contadini, dei piccoli borghesi, della metropoli (Vienna e l’Austria) e della provincia (il resto dell’Impero) che furono coinvolti nella guerra e nel disastro direttamente, perché vi combatterono. Švejk comincia la sua guerra finendo prima in manicomio, poi sotto le armi, a combattere per Francesco Giuseppe, impegnato alla fine in un lungo viaggio verso Leopoli, in Ucraina, dove peraltro non arriverà mai...  
Il romanzo è una feroce critica contro la chiesa, l’impero, i militari, la burocrazia fatiscente di un impero austroungarico ormai allo sfascio. Contro i poteri, insomma, ormai imbalsamati e bolsi di una società al crepuscolo. Švejk sostanzialmente guada i guai, facendo l’ingenuo, dichiarando la sua idiozia, e – e qui è l’operazione magistrale di Hašek – dichiarandosi, lui praghese, suddito fedelissimo dell’Imperatore, desideroso di andare in guerra. Motivo per cui il medico militare boemo che lo visita lo considererà veramente pazzo, spedendolo in manicomio. Da cui verrà però strappato dai medici austriaci, che considerandolo un simulatore, lo manderanno in prigione. Ma qui incontrerà un cappellano militare che lo tirerà fuori e lo porterà con sé alla guerra, che il “buon soldato” comincerà a “combattere” sbronzandosi con lui e recitando delle farsesche messe da campo completamente ubriaco. Ma la pace non durerà a lungo, e dopo varie traversie, si ritroverà a vagare nelle retrovie, girando più o meno in tondo, nel vano tentativo di raggiungere la sua destinazione. Cosa che non avverrà mai, per la morte di Hašek, che lascerà il soldatino a vagare per l’eternità nelle terre dell’impero in frantumi…
Švejk, in realtà, è un furbastro, come Simplicissimus: “fa – come si suol dire – lo scemo per non andare in guerra”. Mente, svicola, si destreggia. E, fin quando il suo autore morendo non lo lascia da solo, a metà delle sue avventure, riesce perfettamente nel suo intento. Chissà cosa sarebbe diventato alla fine della guerra, con la dissoluzione dell’impero… Speriamo, non uno di quei reduci incarogniti o di quei piccoli borghesi, così ben descritti da Joseph Roth in La tela di ragno (1975), ottusi e meschini, che forniranno ad Hitler il materiale umano (?) per le sue falangi di assassini e burocrati. Probabilmente avrebbe continuato ad imboscarsi e industriarsi per sopravvivere. Ricordiamo che l’Europa del Seicento viaggiava a larghi passi verso la modernizzazione – anzi, la Guerra dei Trent’anni realizza uno dei punti di catastrofe di questo transito – e che per contro la Cacania era ancora ampiamente un paese feudale, imperniato sulla tradizione e sul suo rispetto: laddove il XV secolo guardava al futuro, l’Impero austro-ungarico fissava caparbiamente il passato…
Figure del transito dall’arcaico al moderno, Simplicissimus e il buon soldatino sono espressioni di quella mitica saggezza popolare che si industria per schivare le varie tegole che la “Storia” gli scatena contro – e, necessariamente, padroni di un progetto mirato al futuro: come minimo, appunto, sopravvivere…
Ma Forrest Gump? Il suo caso è differente. Intanto, il successo dell’opera si deve prima di tutto al film che Robert Zemeckis ne ha tratto, a differenza degli altri due romanzi. Poi, Forrest è molto diverso dagli altri due eroi – “di guerra”, è proprio il caso di dire. Intanto, in realtà il giovane è, senza saperlo, in guerra da sempre; da quando suo padre, dopo averlo visto nascere e prima di abbandonare lui e la madre, lo aveva fatto battezzare con il nome di un ufficiale del Ku Klux Klan. Da quando i suoi coetanei scoprono le sue debolezze – gli effetti di una poliomielite, la sua fragilità intellettiva… È in guerra da vittima predestinata, ma…
Ma Forrest ha una grande qualità: è ampiamente inconsapevole di ciò che gli accade intorno. È innocente. E riesce, senza nessuna volontà, nessun calcolo, a schivare i colpi che gli vengono dalla sorte. Così affronta – senza nessuna consapevolezza del posto che questa assumerà nella storia del Novecento, e nell’immaginario americano – anche la guerra in Vietnam. Ne esce vivo, addirittura da eroe, dopo aver visto morire il suo amico Bubba, e aver salvato dalla morte il suo tenente – che perderà le gambe, e lo maledice perché avrebbe preferito morire. Addirittura, realizzerà il sogno di Bubba: una nave da gamberi! Su cui lo raggiungerà proprio il tenente, un volta superato il rancore per Forrest, e riconosciutane la grande, profonda affettività e innocenza. Avrà addirittura una medaglia, per il suo eroismo involontario. E incontrerà il presidente degli Stati Uniti. E subito dopo si ritroverà a partecipare da protagonista, sul palco degli oratori, alla grande marcia per la pace che si svolse a Washington nel 1973. Ma non se ne farà un vanto – non se ne accorgerà nemmeno... 
In realtà, è come se Forrest viva in un altro flusso temporale. Fuori del tempo sociale e del tempo storico, vive in un tempo degli affetti che gli permette di continuare a dialogare con i suoi morti (Cavicchia Pecchinenda, 1996), e di aspettare per un tempo lunghissimo che la sua amata, Jenny, che conosce fin da quando erano ragazzini, si decida ad amarlo a sua volta. Forrest Gump è, insomma, invulnerabile agli eventi tragici del mondo – quasi invisibile ad essi, impalpabile, per cui non ne viene colpito, mai.
In questo rappresenta bene l’uomo del passaggio alla tarda modernità – di cui peraltro il Vietnam fu uno dei momenti cruciali – inconsapevole e irresponsabile, staccato dal mondo, privo di progetto. Con una peculiarità, però: la capacità di conservare qualche ancoraggio al passato, almeno al suo passato personale, quello degli affetti. E la capacità di raccontare: il film è un lunghissimo flashback, di lui su una panchina, in attesa dell’autobus che lo porterà dalla sua Jenny, a raccontare alle persone che si avvicendano al suo fianco mentre aspettano il loro autobus, tutta la sua vita. Affidandosi alla narrazione di se stesso, l’eternamente giovane Forrest risulta l’unico, fra i suoi contemporanei, capace ancora di riconoscere un filo che colleghi gli eventi fra loro, e di dargli senso – un senso che però procede dall’affettività. Non certo quindi il senso delle cause e degli effetti, ad esempio, o quello delle coincidenze, come Milan Kundera fa fare a Tereza in L’insostenibile leggerezza dell’essere. Per il giovane americano – come non c’è progetto (se non il riunirsi alla “sua Jenny”) – non c’è causalità, o casualità. C’è lo scorrere fluviale degli eventi, della vita, degli affetti. Tanto che sono gli altri, spesso, a provare ad attribuire senso ai gesti di Forrest, come coloro – in numero sempre più grande – che cominciano a seguirlo quando inizia una corsa non stop attraverso tutti gli Stati Uniti, giusto perché “… ne ha voglia” – eludendo con questa risposta la domanda che continuamente gli viene posta, e lasciando su malgrado libero il suo “seguito” di immaginarsi quello che vuole…
Seppur fuori della storia, privo di consapevolezze, è il solo fra i tre personaggi di cui abbiamo scritto ad essere (fuor di metafora) davvero “scemo”, e a sopravvivere lo stesso alla sua guerra.

 


 

:: letture ::

— Cavicchia Scalamonti A., Pecchinenda G., La memoria consumata, Ipermedium, Napoli, 1996.

— Groom W., Forrest Gump, 1986, trad. it. Sonzogno, Milano, 2002.

— Hašek J., Osudy Dobrého Vojáka Švejka, 1921-1923, trad. it. Il buon soldato Švejk, Feltrinelli, Milano, 1992.

— Kundera M., Nesnesitelná lehkost byti, 1984, trad. it. L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, Milano, 1985.

— von Grimmelshausen J. J., Der abenteuerliche Simplicissimus Teutsch, 1669, trad. it. L’avventuroso Simplicissimus, Mondadori, Milano, 1982. 

— Roth J., La tela di ragno, Bompiani, Milano, 1975.

 


 

:: visioni ::

— Steklý K., 1956, Osudy Dobrého Vojáka Švejka, Cecoslovacchia, 1956, 1957.

— Umgelter F., Der abenteuerliche Simplicissimus Teutsch, Germania/Francia, 1975.

— Zemeckis R., Forrest Gump, USA, 1994, Paramount Home Entertainment, 2004.