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I MICROCOSMI DELL’IMPERO DEL SOLE
di 
Roberto Paura

m02ballard.jpg“Vent’anni per dimenticare, vent’anni per ricordare”: così James G. Ballard, parlando in retrospettiva della stesura de L’impero del sole, descriveva i quarant’anni che hanno separato la pubblicazione del romanzo dalle vicende in esso raccontate (Ballard, 2006b). Un lasso di tempo necessario perché questo romanzo, il più noto della vasta produzione di Ballard anche grazie al film diretto da Steven Spielberg (1987), potesse perdere gli aspetti memorialistici e biografici per assumere quelli più cari a Ballard della fantasia e dell’immaginazione. Ecco perché non è un caso che L’impero del sole, ben lungi dall’essere il romanzo autobiografico così etichettato da larga parte della critica, abbia un autore che parla in terza persona del giovanissimo protagonista, quel Jim (o Jamie, come si fa chiamare) il cui cognome infatti non sarà mai citato tra le pagine della storia. Non solo le vicende, ma anche i luoghi reali del passato di Ballard assumono nell’opera forme nuove e irreali, illuminate dalla luce ultraterrena di quella bomba atomica che dà il nome all’intero romanzo (L’impero del sole si riferisce al Giappone, certo, ma è anche il titolo del capitolo in cui il sole artificiale degli americani distrugge il Sol Levante a Hiroshima e Nagasaki). Avvicinarsi a L’impero del sole senza avere chiari questi elementi impedirebbe di comprendere appieno la storia narrata nel romanzo: perché anche qui, come in ogni opera di Ballard, pur sempre di fiction si tratta, e l’esperienza reale e vissuta della guerra è filtrata dalla vivida immaginazione del giovanissimo Jim per il quale la guerra in realtà non è che un grande gioco (“La guerra è finita, ma quand’è che inizia la prossima?” sarà la domanda costante di Jim nelle ultime pagine del romanzo).
Per diverso tempo, L’impero del sole è stato considerato un romanzo a sé nella produzione di Ballard. Diverso per stile e soprattutto per genere, in quanto romanzo storico se non autobiografico, piuttosto che fantascientifico o surreale come le storie che lo avevano preceduto, fu inserito dalla critica nel genere mainstream e non a caso è stata l’unica opera di Ballard insieme a Crash a ottenere gli onori del grande schermo. Anche un attento critico nostrano come Antonio Caronia, traduttore italiano di Ballard, bolla quella cominciata con L’impero del sole come “la breve e intensa parentesi autobiografica” conclusasi con La gentilezza delle donne (Caronia, 2001). Tuttavia diventa sempre più opportuno rileggere il romanzo alla luce dell’intera produzione dello scrittore permettendo così di recuperare quei fili che lo legano alle opere precedenti e successive. Per esempio egli stesso ammetteva in un’intervista che il suo primo romanzo, The Drowned World (1962), traeva una non indifferente ispirazione dalle alluvioni stagionali che inondavano Shanghai (Ballard, 2002). La narrativa ballardiana, del resto, è sempre stata dominata dal tema del “microcosmo”: luoghi reali distorti al punto da diventare veri e propri universi alieni in cui prendono vita tutte le follie della civiltà contemporanea. A partire dai racconti di Vermillion Sands passando per l’isola spartitraffico di Concrete Island (1974), il gigantesco palazzone di Condominium (1975), il villaggio residenziale di Un gioco da bambini (1988), il complesso turistico spagnolo di Cocaine Nights (1996) e quello sulla Costa Azzurra di Super-Cannes (2000), lo spazio interiore esplorato da Ballard trova nello spazio esteriore del microcosmo il laboratorio più adatto per ardite sperimentazioni. Ne L’impero del sole si possono individuare ben tre microcosmi attraverso i quali si dipana la vicenda di Jim e la tragedia della guerra: la Shanghai decadente alla vigilia di Pearl Harbour, il campo di concentramento di Lunghua (“universo concentrazionario” nel senso reale del termine) e lo stadio olimpico che è forse la più surreale tra le tappe della fuga di Jim verso Shanghai. 
La Shanghai vista attraverso gli occhi di Jim assume i contorni di “un cinegiornale di cui la sua mente era il proiettore” (Ballard, 2006a, p. 11), un affastellamento di immagini senza senso o – come la descriverà il James Ballard maturo – “un presagio delle città mediatiche del futuro, dominate da pubblicità e giornali di diffusione di massa” (Ballard, 2006b). La festa in costume degli europei nei sobborghi occidentali della città sembra quasi un tentativo di esorcizzare la paura della guerra rifugiandosi nelle fantasticherie più sfrenate, al punto che – nota Jim – “Shanghai sembrava diventata una città di pagliacci”. La ricostruzione del film, dove una teoria di clown, sultani e Marie Antoniette sfila tra centinaia di cinesi disperati in comode Rolls-Royce e Packard, rende perfettamente questo stridente contrasto. È il tema che ritroveremo nelle opere più tarde di Ballard, dove la civiltà ricca e gaudente dell’alta borghesia ricorre alle soluzioni più estreme (sesso, droga, omicidio) per rifuggire la mediocrità della routine. Chi appare fuori posto paradossalmente è proprio Jim, che pur con la mente piena di fantasticherie tipica di un ragazzino prende contatto con la guerra prima degli adulti, inoltrandosi nell’aerodromo abbandonato dove s’imbatte in una colonna di giapponesi pronta all’azione. È la guerra vera, non quella sempre fittizia e virtuale di cui parlano gli adulti, tra i cui campi di battaglia pieni di detriti appositamente sistemati addirittura passeggiano le “signore in abiti di seta” e i loro “mariti in vestito grigio” (Ballard, 2006a, p. 28). Quando la guerra scoppia davvero, il lusso e l’opulenza che tanto hanno abbagliato il giovane Jim si rivelano mere illusioni. Nelle grandi ville abbandonate in cui vaga in cerca di cibo, Jim rischia quasi di morire di fame: un terribile paradosso dato che nelle ville “lussureggianti” (come le definisce Jim) abbondano il whisky, il gin e le curiosità più strambe, come una collezione di denti e un cinema privato. Vuoti simulacri, come la piscina ormai asciutta in cui Jim ritrova alcuni oggetti che aveva perso, le ville degli occidentali sono microcosmi nel microcosmo di Shanghai, dove i giradischi tornano a suonare solo per far ballare i giapponesi che hanno fatto delle case le loro basi operative. 
Il campo di internamento di Lunghua, che nella memoria reale di Ballard viene assimilato a una “sudicia bidonville, lo slum di una township” (Ballard, 2006b), diventa nella memoria filtrata dalla narrazione la versione militarizzata di quei microcosmi così ricorrenti nella sua produzione (complessi residenziali o turistici che siano). Per Jim, il campo è “l’università della vita” senza la quale egli non sarebbe riuscito a venir fuori sano mentalmente e fisicamente dagli anni di internamento: pur facendo del campo di prigionia lo sfondo di un gioco per la sopravvivenza, Jim non perde il contatto con la realtà della guerra, diversamente dagli altri occidentali internati che – fedeli al loro stile di vita – periranno presto o tardi per gli stenti e la disillusione. È a Lunghua che avviene l’evento-chiave della psicologia ballardiana, quella che Riccardo Dalle Luche definisce: “la precoce distruzione della sicurezza borghese [causata da] l'esperienza infantile della guerra e dell'internamento nel lager giapponese” (Dalle Luche, 2001). Jim impara nel campo la sconsolante verità del dover far affidamento solo su se stesso, ed è una verità che gli trasmette il Ballard ormai adulto che ricorda come nel campo avesse imparato a vivere in modo indipendente dai suoi genitori, genitori che nel romanzo (non a caso) sono rimossi. L’indipendenza di Jim dal controllo dei genitori e in generale dal controllo degli adulti del campo sarà probabilmente l’esperienza alla base di uno dei più inquietanti romanzi dell’autore, Un gioco da bambini (1988). Lo stesso Ballard ricorda il turbamento derivante dall’osservazione di come gli adulti stessi, nel campo d’internamento, non offrissero la protezione richiesta:  “Vedevo adulti sotto tensione, che è qualcosa che pochi bambini hanno visto… e ciò è stato di grande insegnamento – benché fosse alienante” (Ballard, 2002). È per questo che Jim, nel romanzo, finisce per diventare affetto da una sorta di “sindrome di Stoccolma”, cercando nei giapponesi – formalmente e sostanzialmente suoi nemici – i dispensatori di quella sicurezza perduta. Del resto, la finzione ancora una volta messa su dagli internati occidentali, per illudersi che il campo non sia poi tanto dissimile dalle loro ville a Shanghai, non dura molto: le conferenze, i concerti, le recite, gli incontri dei club e i corsi della scuola da campo cessano con i primi bombardamenti americani, l’inizio del razionamento e delle morti. Man mano, anche in questo microcosmo la morte entra inesorabile, infrangendo le labili speranze degli inglesi di tenerla fuori dalle loro vite come fosse un coolie poco gradito. 
L’ultimo microcosmo del romanzo è sicuramente quello più ballardiano, poiché rappresenta un “non-luogo” per eccellenza: è lo Stadio olimpico di Nantao voluto da Chang Kai-shek, il generalissimo, nella speranza di ospitare nella sua Cina nazionalista le Olimpiadi del 1940. Lo stadio è diventato durante la guerra la centrale operativa dell’esercito giapponese di stanza nella Cina meridionale, e quando Jim e gli internati di Lunghua vi arrivano nel corso della loro estenuante marcia verso Nantao trovano ad accoglierli le ombre della loro vita precedente. Nell’enorme stadio sono stati stipati dai giapponesi tutti i mobili pregiati, le auto americane, i tappeti persiani e le statue di marmo appartenenti agli occidentali della Concessione, e sottratti durante il sacco di Shanghai successivo allo scoppio della guerra. Jim ritrova la Packard dei genitori tra le tante auto accatastate e impolverate, e come in Crash l’auto assurge a simulacro di un corpo, in questo caso quello dei genitori, dei cui volti Jim non ricorda più i dettagli e che ritornano nella sua memoria attraverso una sorta di proiezione freudiana. Ma Jim si rende presto conto che lo stadio è un microcosmo irreale, una grande tomba dell’imperialismo occidentale in Cina dove non a caso si lasciano morire buona parte degli inglesi scampati da Lunghua. La morte, ancora una volta, aleggia tra “ruote da roulette, carrelli da bar e ninfe in gesso dorato con lampade dai colori sgargianti sopra il capo… rotoli di tappeti persiani e turchi frettolosamente avvolti in teli incerati” (Ballard, 2006a, p. 267 ). Tra questi “miseri trofei”, come li giudica giustamente Jim, ben presto trovano la morte più di un centinaio di prigionieri, facendo dello stadio un enorme tomba. Ed è proprio su questa tomba, a suggellare l’irruzione della morte, che si staglia improvvisa la luce della bomba di Nagasaki che illumina in modo spettrale e persistente lo stadio, nonostante le centinaia di miglia che separano la costa cinese dal luogo dell’ecatombe. Simbolicamente, la luce della bomba unisce i giapponesi e gli inglesi nello stadio olimpico, stendendo su entrambi un velo di morte. I due mondi che hanno accompagnato la vita di Jim fino ad allora scompaiono in questo momento catartico del romanzo e del film. È la fine dell’Impero del Sole.   
La luce della bomba atomica riflessa sullo stadio di Nantao sembra quasi alludere, inoltre, a una sorta di esperienza onirica. La scelta di Ballard per la novellizzazione della sua esperienza autobiografica si potrebbe leggere anche in questa chiave; in più riprese, Ballard sostenne che le vicende di Shanghai e del campo di Lunghua gli sembrassero appartenere a una specie di sogno. I “vent’anni per dimenticare” e gli altrettanti “vent’anni per ricordare” sarebbero stati perciò necessari affinché esperienze reali ed esperienze immaginate si fondessero in un intreccio inestricabile, l’intreccio di un romanzo. Solo negli ultimi, con l’approssimarsi della certezza della morte, Ballard ha avuto il coraggio di uscire per una volta dalla finzione dei suoi romanzi - tutti, più o meno, autobiografici - per scrivere I miracoli della vita, la vera autobiografia non romanzata dove l’esperienza di Shanghai è stata per la prima volta esposta nella sua realtà. Eppure, anche qui il lettore non riesce a liberarsi dal dubbio che Ballard sia giunto a fondersi con le sue stesse opere, facendo della sua stessa vita l’oggetto di una grande e surreale fiction. Dopo la visione del film di Spielberg, in un articolo Ballard raccontò, “Christian Bale e John Malkovic [i due attori protagonisti] sembrano prendere per mano i miei veri genitori e il me stesso più giovane davanti alle luci della ribalta” (Ballard, 2006b), come se tutto fosse divenuto (o fosse tornato ad essere) solo uno spettacolo: “Ma forse, alla fine, è stato tutto solo un film”, concludeva.

 


 

:: letture ::

— Ballard J. G., Empire of the Sun, 1984, trad. it. L’impero del sole, Feltrinelli, Milano, 2006.

— Ballard J. G., Miracles of Life, 2008, trad. it. I miracoli della vita, Feltrinelli, Milano, 2009.

— Ballard J. G., Look Back at Empire, “The Guardian”, 4 marzo 2006.

— Ballard J. G., Interview with James Naughtie, BBC4, 3 febbraio 2002, trascrizione di Mike Bonsall.

http://www.jgballard.ca/interviews/empire_naughtie_2002.html

— Caronia A., Archeologia del virtuale. Teorie, scritture, schermi, Ombre Corte, Verona, 2001. 

— Dalle Luche R., James G. Ballard e la psicopatologia della sopravvivenza, in “Delos SF” n. 67, 2001, http://www.fantascienza.com/delos/delos67/ballard4.html

 


 

:: visioni ::

— Cronenberg, D., Crash, 1996, Crash, Filmauro, 2008.

— Runcie J., Shanghai Jim, BBC4, Uk, 1991.

— Spielberg S., Empire of the Sun, 1987, L’impero del sole, Warner Home Video, 2007.