logo [ torna al servizio ]

stampa
UNA FORMA DI POTERE INSAZIABILE: LA DIETA
di 
Catello Parmentola

frigoSiamo sempre pronti a dire, agli altri, cosa fare riguardo a tutto, nonostante i continui riscontri di inutilità (del dire).
Ognuno sa già cosa sarebbe meglio fare, riguardo a molte cose: il vero punto è che non riesce a farle, perché magari non ha maturato ancora, dentro di sé, le condizioni complessive per riuscirci.
È facile essere edificanti riguardo agli argomenti in oggetto; più difficile è intercettare i soggetti, le persone, la loro vita, le loro difficoltà. Queste sono le premesse di ogni semplice discorso sulla pretesa pedagogicità–psicologicità di qualsiasi relazione, umana o professionale. Sono premesse ovvie, eppure, spesso dimenticate.
Accade altrettanto spesso di dimenticarle anche a proposito della dieta, uno dei più importanti presidi terapeutici, uno degli aspetti più significativi di un corretto stile di vita e quindi, conseguentemente, unao dei capisaldi dei processi educazionali in un mondo che ha  fatto del corpo e del cibo due fulcri simbolici fondamentali. Troppe volte insegniamo la vita, dicendo solo quello che va fatto…
Dispieghiamo un sapere autoritario e non al servizio, con tutta la concentrazione solo sull’oggetto–dieta e il calcolo preciso dei punti, e non sul soggetto, il suo lavoro, i suoi orari… ma il cibo è tante cose, il cibo è troppe cose. Cose belle/cose brutte: non possiamo qui riportarle tutte. Ci esibiremo dunque solo in una rapida e schematica carrellata degli aspetti che ne sono riguardati.
La prima forma di rapporto affettivo si sperimenta attraverso la suzione dal seno materno: la bocca resta quindi, poi, fortemente investita di significati in tal senso. Nel suddetto rapporto, per esempio, ogni madre esprime il concetto che ha del proprio bambino e glielo trasmette: se risponde con il cibo ad ogni tensione, quest’associazione tensione/cibo si fissa nel bambino, impedendogli di maturare l’autoconsapevolezza della diversità dei bisogni. La funzione alimentare diventa così pseudo-soluzione dei problemi, quando non si distingue la sensazione di fame da altri stati di tensione fisica ed emotiva. Una madre molto protettiva induce una forte dipendenza orale, strutturando nel bambino come solo linguaggio e unica forma di reazione a ogni circostanza, solo un domanda continua di affetto materno, facendogli sviluppare, quindi, poca autonomia. A lungo termine, questa domanda d’affetto sarà troppo esagerata perché possa essere sempre soddisfatta: eventuali ammanchi in tal senso dovranno essere compensati in modo secondario, per esempio attraverso l'assunzione del cibo. La fase biologica dell’autoindividuazione, l’adolescenza, potrà poi confermare o risolvere questa situazione: questo è solo un esempio di come l’oralità, la nostra sfera psico-affettiva, si riverbera sempre sulla bocca, sul nostro rapporto con il cibo o su forme diverse di nevrosi orali, dal fumare al mangiare le unghie. La suzione, prima fondamentale esperienza dell’uomo, mediava oltre che nutrimento e proteine, anche sentimenti, affetto e rapporto: allo stesso modo, il mangiare media sempre in qualche modo anche gratificazione e compenso affettivi.
Resta un’esperienza legata alla sensazione di benessere, pace, sicurezza, amore, protezione. Implica simbolicamente il ricevere, l’incorporare, il possedere. Stimola una zona erogena.
Per questo motivo, ogni discorso di cultura alimentare, e quindi pietistico, andrebbe sempre ben contestualizzato in un contesto più generale, relativo alla sfera orale e alla sfera emozionale/nervosa.
Basti pensare che la medicina integrale, nelle tabelle degli eventi stressogeni, assegna alla dieta un punteggio simile a quello delle malattie gravi. Sempre, comunque, il cibo si collega all'atmosfera di una famiglia. Nel vissuto emotivo dell'ora di pranzo si sintetizza il senso di calore e di rifugio, o di tensione nei conflitti interfamiliari. Il tempo e il modo dello stare in tavola sono quindi importanti indicatori degli andamenti relazionali e del grado di benessere di un sistema familiare. Tanto che il modo contemporaneo di alimentarsi, nella società occidentale, è uno degli oggetti cardine della pubblicità, una pubblicità che guarda caso promoziona un’alimentazione ipercalorica e un uso tossicomaniaco del cibo. Il fatto che si sacrifichi sempre più il tempo umano al tempo produttivo, condiziona inoltre fortemente i tempi della nostra alimentazione. Si mangia sempre più velocemente, con sempre meno attenzione estetica nei confronti degli aspetti rituali e conviviali del mangiare.  In molti ambienti sociali la corpulenza ha costituito un valore (l’abbondanza), la pancia ha descritto un’autorevole phisique du role (l’ommo de panza), e l'obesità ha addirittura contrassegnato la classe sociale  (le mogli degli emiri). Nel nostro dopoguerra, il frigo pieno costituiva un rimando d’immagine sociale, un po’ come adesso certi pranzi sociali o matrimoniali. Oggi ci sono più macellerie nei quartieri più poveri, dove la carne a tavola è ancora culturalmente un simbolo di status conquistato. In altri casi, dalle Veneri archeologiche ai dipinti ottocenteschi alle modelle, il valore è costituito dalla magrezza. Possiamo quindi dire, in generale, che nelle società ricche il valore estetico è dato dalla magrezza, e in quelle povere dalla corporatura abbondante. L’organizzazione formale del mangiare descrive il senso sociale che il cibo sta mediando, dal pranzo d’affari alla cenetta intima, alle grandi tavolate. Culturalmente, dividere o no lo stesso cibo, ha sempre avuto precisi significati simbolici, dal segno di pace e d’amicizia (per gli indiani d'America), alla divisione di casta (in India), ai riti religiosi (anche cattolici). In generale si può affermare che in nulla s’identifica il carattere di un’etnia, quanto nelle tradizioni culinarie. Tutte le commistioni cui abbiamo accennato, tra cibo e diversi livelli culturali e psicologici, non a caso ricadono fortemente sul linguaggio che, proprio a proposito del cibo, si complica di metafore e doppi sensi: i bocconi amari non digeriti, per descrivere la fame d’affetto dei soggetti ulcerosi; un peso sullo stomaco, i rimorsi; le coliti, il purgare i cattivi pensieri; l'intestino, le viscere, le parti basse del rimosso, dello sporco; ti mangerei, per descrivere l’irrefrenabile sentimento verso l’oggetto dell’affetto; non abbiamo mai mangiato nello stesso piatto, un sentimento contro, di non condivisione affettiva, d’estraneità.
Si potrebbe continuare con infiniti esempi. Tutte le implicazioni considerate, non potevano alla fine non investire il cibo anche di un valore psicologico aggiunto. Schematicamente, potremmo indicare degli esempi di cibi che rimandano in tal senso ad alcuni valori, dai “cibi sicurezza”, come il latte, ai “cibi consolazione”, i dolci, ai “cibi forza”, come le bistecche, e ancora i “cibi prestigio”: il caviale, i “cibi adulti”: il vino, il caffè…
Così condizionamenti e gratificazioni possono intervenire con eguale forza nell'iperalimentazione: la pubblicità, il condizionamento individuale (il bambino che mangia è un bimbo buono; quello che non mangia è cattivo: per molte mamme il bambino che si ingozza è buonissimo), ma anche disfunzioni ormonali reali. E poi gratificazioni alternative, come il bisogno di compensazione o di sicurezza affettiva; la sostituzione nevrotica, in cui l’emozione stressante si riverbera sul rapporto con il cibo, in certi casi facendo mangiare, in altri togliendo l’appetito.
Come la magrezza rimanda a un gruppo di significati psicosociali fortemente connessi ad elementi positivi, così l’obesità si carica di significati psicodinamici di segno diverso: la paura di dare, il desiderio di rimanere attaccato all’infanzia (il corpo come zavorra che impedisce di conquistare l’indipendenza); l’espansione negata allo spirito e delegata quindi al corpo, occupando aggressivamente spazio, grazie a un corpo che minaccia; il desiderio inconscio di essere di peso ai genitori con un corpo che impone la propria presenza, ma anche un vuoto da riempire; o il desiderio di essere avvolti, appunto nel grasso; l’autoaffermazione, per trovare spazio vitale; o l’insicurezza: il grasso aiuta a parare/attutire i colpi.
Crediamo di aver dato così un’idea della complessità che frequentiamo quando abbiamo a che fare con il nostro “rapporto con il cibo”. Dovremmo dedurne un’estrema cautela nel toccarlo/intaccarlo, poiché si toccano/intaccano gangli molto delicati e complessi della persona. Prima di rimuovere i chili vanno indagati i loro motivi, le condizioni che li giustificano, le economie profonde, le logiche che li hanno determinati. 
Se non sappiamo cosa significano i nostri chili in più, non sappiamo quali significati affrontare e risolvere per risolverli.
Per questo c’è bisogno di tempo. Difficilmente una dieta può avere gli esiti attesi, se non si indagano prima i perché di un certo tipo di rapporto con il cibo. Da dove vengono quei chili in più? Cosa significano? Cosa compensa il cibo? Perché è stata scelta proprio quella modalità di compenso? Qual è la causa prevalente dell’iperalimentazione in quello specifico caso (condizionamento sociale, individuale, gratificazione alternativa, sostituzione nevrotica, magari una vera disfunzione ormonale…)?
Una dieta troppo veloce interviene solo sui chili, senza dare tempo al corpo, all’organismo, alla persona e alla vita di riorganizzarsi/accomodarsi sul cambiamento. Durerebbe poco, poiché quei corpo-organismo-persona-vita restati gli stessi, si ridarebbero presto gli stessi, propri, loro chili. I chili in più dell’irrisolto, i chili stampella che servono a sostenerlo.
Spesso, invece, nelle riflessioni accademiche e nella pratica il Soggetto non viene intercettato, né per quanto riguarda la sua motivazione, la sua mobilitazione psicologica, come prodotto di fattori endogeni e di fattori sociali, né per quanto riguarda la sua organizzazione quotidiana, la sua possibilità pratica di fare la dieta. Contano invece la vita della persona – e la sua intenzione, la sua motivazione – la sua organizzazione pratica, la sua personalità complessiva, i suoi desideri, i suoi sogni…