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    Beware
    di 
    Bonnie 'Prince' Billy

    Testa pelata e lunga barba rossiccia, una discografia sconfinata, collaborazioni disseminate ai quattro venti nella scena indie (da Susanna ai Current 93 per citarne solo due) e tre nomi da scegliere alternativamente. Questo è Bonnie ‘Prince’ Billy, Will Oldham o Palace che dir si voglia. A meno di un anno dal suo precedente lavoro, l’etichetta londinese Domino presenta Beware, ultimo tassello della carriera densissima e sempre attuale della bandiera del songwriting made in Usa. Non ne sbaglia una, questo Bonnie ‘Prince’ Billy. Fedele alla tradizione più classica di quel country della polvere umida, del bourbon e del banjo, il cantore di Louisville, Kentucky, sa introdurre nella sua musica quei piccoli elementi che contraddistinguono uno stile. E così i violini diventano strazianti (Death final; Heart’s arms), alla maniera del folk più freddo del New England e del Mid West, così capita che il sax si ponga come l’innesto di un malinconico blues bianco (My Life’s work) e allo stesso modo che la tromba, come il banjo, scherzi un po’ con questi toni alla maniera messicana (You don’t love me). E la voce segue garbata, talvolta leggermente dissonante, a ricordare il tremore del principio di una lacrima, raccontando le storie degli addii, delle malinconie del quotidiano, delle piccole cose delicate che succedono nella vita di ogni uomo. Ecco cos’è Beware, un disco fatto per celebrare le suggestioni intime di tutti i giorni, il senso sussurrato di un ultimo saluto, il profilo sfocato di una vecchia fotografia, senza che nulla di tutto questo abbia la presunzione di farla da padrone.
    Livio Santoro

    Beware
     
    titolo 
    Beware

    di Bonnie 'Prince' Billy

    etichetta Domino

    distributore Self

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    Canzoni di schiena
    di 
    Paolo Bonfanti

    L’autorevolezza con cui Paolo Bonfanti conduce un blues irregolare come Jimmy e Maria per sette lunghi chorus è degna del miglior Bob Dylan. Nel nuovo progetto del bluesman genovese (ma oggi forse sempre più rocker e un po’ cantautore), questo simpatico rock ‘n’ roll (già noto ai fans), che rivisita la vicenda di Bonnie e Clyde, viene riproposto in chiave tex-mex o zydeco grazie alla fisarmonica di Roberto Bongianino. Ma Canzoni di schiena, album solare e tuttavia segnato da una profonda amarezza, ha molto altro da offrire. Il tema dominante sembra essere quello della partenza, del necessario abbandono di un Paese che da tempo non riconosciamo più. Qui non ci voglio più stare, sferragliante e caustico rock vecchia maniera, è il brano simbolo di questo stato d’animo. Ma analoghi contenuti spuntano qua e là per tutto il lavoro, a cominciare dallo splendido down-home blues d’apertura O gh’ è ‘n piaxei, cantato in genovese e puntellato dalla national steel guitar di Roy Rogers. Anche Jack Gets Up ovvero Paolo si alza (…tardi), sontuosa cover in italiano di un brano di Leo Kottke, signore del finger picking, resta in linea con le atmosfere cariche del cd. E siccome prima o poi tutti dovremo tornare sull’Appennino, ecco arrivare Bob sull’Appennino, una perfetta ballata rock che prende spunto da quella fatata leggenda che vuole che sulle colline del genovesato Dylan venga ogni tanto a trovare una sua vecchia amica. C’è tempo per un’altra ballata (Bei tempi andati), tenero omaggio alla generazione del ’77, e per una ironica e inaspettata cover degli Stormy Six di Franco Fabbri (Cosa danno, in televisione si intende). L’album chiude con una sorta di malinconica ninnananna (Dove a l’è), in cui il genovese, grazie anche alla voce di Vittorio De Scalzi, torna protagonista, rendendo tutto più intimo e familiare. La degna conclusione di un disco militante e allo stesso tempo divertente, capace di riportare in vita la classicità funzionale del buon vecchio rock.
    Marco Maiocco

    Canzoni di schiena
     
    titolo 
    Canzoni di schiena

    di Paolo Bonfanti

    etichetta Club De Musique Records

    distributore Clubdemusique

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    You Lost Me At Hallo
    di 
    Bushman's revenge

    “Rune Grammofon is a record label dedicated to releasing work by the most adventurous and creative Norwegian artists and composers”. Con questa dichiarazione di intenti si apre il sito della Rune Grammofon, etichetta norvegese che, muovendosi dal jazz, ama sondare i territori sottostanti delle avanguardie senza distogliere lo sguardo dalla tradizione scandinava degli ultimi cinquant’anni. Questo You Lost Me At Hallo, frutto del lavoro del trio (chitarra, basso e batteria) che porta il nome di Bushman’s revenge, è la quintessenza della dichiarazione della Rune Grammofon. C’è spirito d’avventura, c’è creatività ma c’è, soprattutto, la Norvegia. Chi pensa alla musica, e la pensa in quel lembo di Scandinavia, ha tendenzialmente due possibilità: la wave jazz degli anni Settanta ed Ottanta oppure il metal gutturale e tagliente degli anni Novanta. I Bushman’s revenge fanno di queste due versioni del pentagramma una sola sintesi intensa e sfrenata. Certo i modelli del trio, per quel che riguarda il versante oscuro del metal, non sono solo quelle facce dipinte dei loro conterranei arrabbiati alle prese con satana, ma ricordano soprattutto la tradizione britannica dell’heavy più classico (Black Sabbath su tutti ma forse, ancora prima, Necromandus). Lo stesso si dica per i riferimenti jazz, c’è sicuramente più Albert Ayler che Jan Garbarek (soprattutto se si pensa all’ultimo Garbarek) in You Lost Me At Hallo. È così che questo album di sintesi dev’essere ascoltato, con lo sguardo rivolto al passato certo, ma con la decisa sensazione che tutto quello che sopravvive, e si rigenera, può essere più innovativo dell’avanguardia stessa.
    Livio Santoro

    You Lost Me At Hallo
     
    titolo 
    You Lost Me At Hallo

    di Bushman's revenge

    etichetta Rune Grammofon

    distributore Goodfellas

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