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    colpacolpacolpa
    Giù, in fondo al senso di colpa, fino a sfiorarne la superficie di Erika Dagnino

    Cosa potrebbe consentire di penetrare, di rompere il ghiaccio? Il vero senso di colpa come assolutizzazione di uno stato non lascia spazi alla penetrazione, è un blocco inerziale assoluto. 
    Parliamo sempre di una sorta di radiografia istantanea dell’anima. Quasi assolutizzando, comunque restando questo stato paralisi e immobilità ma non silenzio, al contrario può essere permeato da fin troppe voci. Il senso di colpa parla, urla, per definizione non può tacere. Tutto si traduce invece, verbale extraverbale, voce, emozione come voce, emozione, sorta di impazzimento, di riconduzione a se stessi nell’impotenza più assoluta. Sorta di tortura inerziale, di assoluta refrattarietà a tutto ciò che esce ed entra. Il senso di colpa è per sua stessa natura il momento, perpetuo, della tortura. Parlando in termini figurati, come un Prometeo che è sempre lì a farsi cogliere, a farsi beccare. 
    Il silenzio risultando esterno, poiché è il singolo stesso, sorta di doccione eterno, che non ha la minima opportunità di contrapporre alle voci qualcosa di esterno o di interno che possa risultare udibile. Immobilità silenzio esteriore, orrore interiore, senza possibilità di contrapposizione udibile esternamente. Più che la paura, si addensa il raccapriccio, come qualcosa che si sente giungere dall’esterno ma viene da dentro di sé. La direzione è importante, sembra essere sì una norma da fuori, ma anche da sé stessi si auto produce, nell’impotenza assoluta fino a cui può arrivare a ridurre.

    Chi mi salva? E dentro di me, quell’affollamento, nel profondo, quasi irraggiungibile con lo sguardo. Io sono come un reticolato vivente, un cancello che sta ritto e vuol cadere. (Kafka, 2002, p. 426).

    colpaEsiste anche un senso di irrimediabilità del fatto compiuto, in generale gli atti i fatti compiuti sembrano avere una propria rimediabilità, il fatto, per riprovato che sia, in qualche modo appare rimediabile. Investendo una dimensione prettamente etica. Ma dove il senso di colpa coincide con quello che si è, ecco l’innescarsi del senso dell’irrimediabile. Si vuole qui ammettere che prima esiste l’essere e poi il fare, non asserendo che siamo la somma di ciò che abbiamo e non abbiamo fatto, affermiamo che la scaturigine di ogni atto deriva da come si è. E qualsiasi atto non è lo stesso se chi lo mette in essere è in un modo piuttosto che in un altro. Il senso di colpa dell’essere riguarda una modalità di espressione nel mondo, altra parola chiave, sempre in termini di concetti, è l’asserzione su se stessi, che riguarda la propria identità o quella che pensiamo di essere. Ancora, ci si sente in colpa. Ma si sta vedendo sé stessi come si è realmente o si sbaglia nel vedersi? Un senso di colpa per quello che si è parte dall’esistenza e presenza dell’io e noi vediamo quello che siamo davvero? Questo deve essere il presupposto. Diamo quindi per scontato il rapporto di autenticità con se stessi. E se c’è l’io stesso che si sente in colpa per quello che è, ci sono allora due atti distinti: l’io in quanto tale e, come se ci fossero due ego, in qualche modo la propria soggettività che si distacca scindendosi in quella che vede e che si vede. Ma la funzione del senso di colpa a cosa si collega? È l’io che si sente in colpa per la sua vera essenza, o per le manifestazioni accessorie, i comportamenti, le modalità?

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