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    colpacolpa
    Giù, in fondo al senso di colpa, fino a sfiorarne la superficie di Erika Dagnino

    Forse, in caso contrario, non ci sarebbe senso di colpa, che nel momento stesso in cui si innesca assume in sé elementi di incoercibile, di ineluttabile, una sorta di nemesi greca.
    Qui ci si prova a credere poco al pentimento lucido razionale che porta a pensare di non commettere una seconda volta, se non addirittura ripetutamente, un medesimo errore, il quale, certo, dal momento che è già stato compiuto ha avuto e continua ad avere in qualche modo influenza. Il senso di colpa rischia di essere una sorta di congelamento della norma dentro di sé, che può essere tragico. Adozione di un comportamento libero utopisticamente da norme e norma stessa interiorizzata, può rivelarsi devastante anche perché il senso di colpa è memoria dell’ineludibile: ormai il passato è commesso, i fatti, i moti, movimenti, i gesti. Ma non coincide necessariamente con quella forma di pentimento che può essere portatrice di cambiamento: il senso di colpa si configura al contrario, e al di sopra della propria volontà, come una sorta di coma, inteso cioè non come stato dinamico, ma giacente, per questo può manifestarsi ed essere tanto doloroso e buio, immutabile: e l’immutabilità è dello stesso e dallo stesso senso di colpa. Si rimane inchiodati a ciò che si è commesso o a ciò a cui riconduce il senso di colpa. Il passato a cui si resta rivolti riporta a qualcosa che permane per sempre. Fatto per non spegnersi, il senso di colpa è autoalimentazione, autofagocitazione, se ad un aumento della sua stessa natura congelata, fredda, immutabile, al tempo stesso sempre più gravosa, corrisponde una dinamica, questa si muove come sommatoria, non per evoluzione, ma, involvente, gira su se stesso l’unico mutamento possibile, avvenendo per quantità, non per qualità. Il senso di colpa, somma di tutti i sensi di colpa possibili, è una sorta di costante rinnovarsi nel senso quantitativo, pura configurazione materiale. Quindi il dramma. Per definizione eterno soffrire, tribolare, tornare su se stessi, permanere in una perenne dannazione. Un piccolo inferno privato, si accetti l’immagine banale. Mancanza di libertà, blocco, congelamento, ghiaccio che è paralisi per antonomasia.
    La tragedia di tutto questo è una sorta di umbratilità, entro la stessa corporeità a cui per sua natura appartiene il senso di colpa, e viceversa. Permanendo l’interiorizzazione anche di qualcosa di molto aereo, difficile da definire, trasparenza di qualcosa di molto materiale, senso di colpa che, pur addicendosi in misura maggiore allo spirito, è anche assolutamente fisico.
    Siamo così di fronte al congelamento del fiume dell’anima. Gelido, glaciale, gelido; sorta di dimensione di tortura; un continuo rimanere crocifissi. Non dimentichiamo che il senso di colpa può scaturire anche per qualcosa che si potrebbe fare, che ancora non si è fatto, ma la maggior tragedia, il profondamente drammatico, è il senso di colpa non per quello che si fa, il fare, ma per quello che si è, l’essere.

    L’aria della campana di vetro mi premeva intorno come bambagia e io non avevo la forza di muovermi. (Plath, 2004, p. 427).

    È in effetti anche lo sguardo degli altri che normalizza o colloca al di fuori della norma. Non c’è senso di colpa senza riferimento: è per definizione sociale. Se poi la socialità sia la voce dentro di sé e non degli altri, permane comunque e sempre un riferimento altro. Un senso di colpa che dunque divora se stessi perché non si può non essere quelli che si è. L’io è l’agente della propria vita, ma congelamento significa anche solidificazione di qualcosa che dovrebbe essere fluido. Quindi senso di colpa anche come impermeabilità al mutamento della propria situazione. Può essere morte, stasi, anti-dinamicità, immobilità, sorta di sonno senza sogni, cessazione di ogni funzione vitale. Anche come impenetrabilità nelle due direzioni, da interno da esterno.

    Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo. (Plath, 2004, p.478).

     
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