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Sweet Home Chicago e altre culle musicali a stelle e strisce
di 
Livio Santoro

chicago.jpg Diciamo che tutto è cominciato con New Orleans, tra un campo di cotone e il letame di qualche stalla. Il primo esempio che si potrebbe dire contemporaneo di una città che detta lo stile e il concetto di una musica, ma quello era il jazz ed era l’inizio del Novecento. Poi c’è stato il country di Nashville, Tennessee, a issare la bandiera della tradizione finta e pseudo-meticcia di un popolo vario tanto quanto lo è la molteplicità delle lingue. E gli esempi che si potrebbero fare si allargano a dismisura, basti pensare a New York, detentrice del titolo di patria dell’hip hop. East coast style si chiama lo stile newyorkese del rappare ed è un concetto di vita (una rigida Way of life) prima di essere un filone musicale. Dopo la New York dell’hip hop è la volta di Detroit e della techno da ballare macchinosamente ai ritmi serrati della fabbrica. Così negli anni Novanta è toccato a Seattle assumersi l’onere di rappresentare un genere e di irradiare il suo grunge scheletrico ed arrabbiato dall’alto profilo dello Space Needle fino alle coste d’oltreoceano.
Restiamo nel continente Nordamericano, perché, che piaccia o meno, è da lì che si sono sviluppati gran parte dei generi musicali che tuttora sopravvivono riformulandosi e cacciandosi l’uno con l’altro, in un gioco di costante rifondazione e rinnovamento stilistico. Se il jazz nasce come l’anima della subordinazione di un popolo, come il suono della vocazione all’alto affermato sottovoce dalla negazione di una razza, è vero anche che in tutti gli altri generi ritroviamo quello che di sostanziale essi hanno avuto da affermare. Il country, per esempio, è forse l’esatto opposto del jazz, è una bellicosa immagine della bianchissima tradizione dal grilletto facile e dell’apple pie, del bourbon e dei cow boys. Stivaloni di pelle, speroni e una grandissima voglia di imporre al mondo il sud provinciale e paludoso degli USA.
Poi viene l’hip hop, e lì la storia si fa veramente metropolitana. Come se la città non fosse più soltanto il luogo dal quale la musica prende sostanza e corpo, ma come se fosse oramai il luogo nel quale e soprattutto grazie al quale si interpreta nel pentagramma un fatto dello spirito. Sempre la ghettizzazione di una razza, si direbbe, ha sospinto la nascita di questo genere, come è stato per il jazz. E questo è vero, ma lo è solo parzialmente. C’è tutta una questione di spazi urbani che vi sottende, un’amministrazione fisica del quotidiano, si potrebbe a questo punto sostenere. È così che le basi cadenzate dell’East coast style ricordano quell’immagine notturna dei fari di un’auto mentre illuminano la striscia bianca intermittente al centro di una strada. Giovani inviperiti alle prese con il conteggio delle proprie cicatrici, nella affannosa ricerca del proprio spazio, in una rivendicazione opaca e fraintendibile perché satura di rancore.
Nel frattempo a Detroit, e sono ancora gli anni Ottanta, la scansione dei ritmi della fabbrica impone uno stile fatto di un costante tambureggiare dove è il tempo quotidiano, e non lo spazio come per l’hip hop, a dettare tendenzialmente le linee musicali e le battute del loop di un genere incentrato sulle note della ciclica produzione industriale, della catena di montaggio, in un gioco di automatismi e movimenti regolari e standardizzati come quelli che scandiscono la vita degli operai della General Motors.
Il tempo ed il disagio per la techno, lo spazio ed il rancore per l’hip hop. E il rancore, quasi a dire che la musica spesso nasce dal malessere, è lo stesso sentimento che sottende al grunge ed ai suoi graffianti e per nulla raffinati suoni. Seattle ha fatto scuola, ha proposto alle generazioni americane degli anni Novanta una solida alternativa all’heavy metal ed alle sue varianti dalla matrice squisitamente europea. Il grunge è un genere che comunemente, perché indiscutibilmente, si incarna nella figura di Kurt Cobain, un dannato della musica come lo è stato Jim Morrison, ma forse un dannato un tantino più svogliato e pigro. Tanto svogliato da essere sopraffatto dalla sua rabbia, nella rapida e mediatica esplosione dei proiettili del suo fucile.
Tuttavia, ovviamente, dato che nulla va perduto, tutto questo sopravvive ancora. Sopravvive nelle gang di New York che scelgono il loro colore e gesticolano la loro difficoltà nella comunicazione. Sopravvive nei club cittadini dove il jazz è diventato una cosa per ricchi ed acculturati wasp con la pipa tra le labbra ed il cappello di feltro. Sopravvive nei calzoni bassi che raccolgono l’acqua piovana tra i gruppetti di timidi ragazzini dai capelli lunghi. Ma fortunatamente, per quanto è concesso, si è in grado di ritrovare una tradizione che si rigenera, e che, come una famelica bestia affamata di spazio, invade altri luoghi, li contamina e li colonizza trasportando con sé il fertile lavoro delle cose passate. Così alle vecchie città si sostituiscono altre e nuove patrie musicali. Se si dovesse scegliere una città degli Stati Uniti d’America, ai giorni nostri, in cui è rintracciabile chiaramente lo spirito musicale di una visione del mondo e di un modo di fare, andrebbe scelta senza dubbio Chicago, e non solo per la sua classica e rinomata scuola di blues e di jazz che detta le sue battute ai quattro venti, e nemmeno per lo stile martellante e sequenziale della musica house che proprio da Chicago ha mosso i suoi primi passi tra gli anni Ottanta ed i Novanta. Andrebbe scelta Chicago perché è lì che converge buona parte della produzione di quel genere musicale che prende la propria definizione da qualcosa che entra nella musica solo liminarmente: l’indie rock (dove indie sta per independent). Anche se Boston potrebbe forse contendere a ragione il titolo di città del nuovo rock, basti qui fare il nome di gruppi bostonians quali Dinosaur Jr e Morphine, è Chicago che fa scuola. La questione sta proprio nel motivo che dà il nome al genere, l’indipendenza appunto e il prolifico lavoro di decine di label anche semi-sconosciute.
Indie, come detto, è independent. È prima di tutto un movimento di idee che trascende la sola concezione musicale per come essa appare all’orecchio. Indie si affaccia sull’orizzonte della produzione, nel lavoro costante e impagabile di piccole etichette (non sempre troppo piccole) che contendono alla varie major il vessillo del possesso e della promozione di un genere. E questa definizione morbida, perché inclusiva e ingorda di prospettive, di indie è proprio il portato di quella musica che non si identifica con una sola wave, ma che assume da diversi generi le proprie linee guida. Indie è la dissonanza del post-rock, è la lentezza dello slow-core, ma è anche la tradizione del folk, il nuovo richiamo identitario di un country mitigato, è influenza jazz, fascino elettronico, cantautorato classico, progressive e molto altro ancora.
Per questi motivi indie è uno stile, e non come lo sono stati gli altri, esclusivi ed escludenti, autopoietici si potrebbe dire. È uno stile che appartiene all’alveo generalizzato della musica tutta. Infatti una musica che suona come indie ha la sua ragion d’essere prima di tutto nella necessità di sintesi, come se lo sguardo dal geometrale più alto degli States, quello della Sears Tower di Chicago, possa arrivare a catturare le diverse tendenze che albergano altrove negli Usa, e concentrarle in un mood singolo, in un mixaggio continuo ed incessante dagli arrangiamenti raffinati di chi può permettersi un punto di vista centrale ed eminente.
Forse per questo andrebbe scelta Chicago come città dei primi anni del Duemila. Chicago che è la più progressista delle città americane, solido fortino del Democratic Party nei suoi ottant’anni di continuità municipale. La Chicago capitale economica dell’Illinois, quello stato che, affacciato sui Grandi Laghi, ha esportato ed esporta non solo il mais al resto del mondo, ma anche il primo presidente afro degli States. Chicago che, in fin dei conti, è forse la metropoli più statunitense degli Usa, effervescente e multietnica, perché riesce a condensare le anime diverse di una nazione forse troppo grande e forse troppo osservata per restare sempre al proprio passo. La Windy City riesce nel suo lavoro di sintesi nazionale apprendendo dal Midwest ciò che generalmente avviene altrove, mondando dagli eccessi gli scivoloni a volte imbarazzanti dell’eccezionalismo made in USA da esportazione. La città ventosa, allora, da una parte oltrepassa la grandeur e i sensazionalismi della Grande Mela dimenticandosi anche della spocchia dei dintorni del New England, ma allo stesso tempo si tiene anche alla lontana dal provincialismo dei grossi stati del sud, con i loro deserti, le loro spesse bistecche di manzo e i goffi cappelloni di qualche ricco petroliere.