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Mercier e Camier, due cognomi a zonzo
di 
Erika Dagnino

beckett.jpg Il senso del cognome è per definizione ciò che socializza la persona con i suoi stessi antenati attestandone contemporaneamente l’esistenza di fronte alla società. Infatti, se è vero che esso risulta in apparenza più generico, è anche vero che, nella sua collocazione sociale, paradossalmente, assume e fornisce una maggiore identità rispetto al nome, quest’ultimo definendo una sorta di ‘finta’ individualizzazione.
Mercier e Camier. Due cognomi, o forse, alla francese, dovremmo dire nomi, dalla desinenza che indica spesso un mestiere. Se si fossero chiamati Pierre e Jean, per citare due appellativi tra i più noti, quanti Pierre e Jean, in senso formale, avrebbero potuto o potrebbero esserci? Invece qui il cognome, necessariamente legato soltanto in senso virtuale a una loro discendenza, presuppone certo una possibile ascendenza: un padre Mercier, un nonno Mercier, un bisnonno Mercier, e così via, e ugualmente per Camier. Entriamo subito nella contraddizione all’interno dei due personaggi protagonisti e di questa stessa opera beckettiana; infatti il cognome, che sembra dare uno spessore genealogico, decreta qui una doppia assenza, o mancanza. Totalmente estranei, fino alla narcosi, dai tratti dichiaratamente meno confidenziali, si muovono con la loro propria specificazione sociale tramite i passi e l’andatura di una negazione sociale: estranei persino l’uno all’altro.

Accadeva allora, ora a Mercier, ora a Camier, di sprofondare talmente nei propri pensieri che la voce di uno, riprendendo il discorso interrotto, era impotente a strappare l’altro alla sua meditazione, o a farsi udire. Oppure accadeva che, giunti simultaneamente a conclusioni sovente opposte, si mettessero simultaneamente a parlare. Succedeva spesso, in questi casi, che uno cadesse in catalessi prima che l’altro avesse potuto terminare il proprio resoconto. Di tanto in tanto si guardavano, incapaci di pronunciare una parola, completamente svuotati. Fu alla fine di uno di questi  torpori che rinunciarono a spingere più avanti la loro ricerca, almeno provvisoriamente. (Beckett, 1971, pag.20).

Non si tratta quindi di un’assenza di interiorità nei termini di una meditazione o rielaborazione interiore; mentre al parlare distonico la letargia si aggiunge come elemento di ulteriore straniamento, subentra la supposizione di un mondo interiore – seppure di un’interiorità quasi del tutto ignota, persino a se stessa – con il verificarsi di una concentrazione su un punto, sorta di vuoto pieno: il pieno della meditazione, il vuoto del contenuto. Eccoci così di fronte all’ulteriore contraddizione tra apparenza e realtà ipotetica , la cui scenografia – per usare un termine la cui derivazione teatrale denuncia tutto l’irrealismo dell’antiromanzo – si configura vagamente come città o paesaggio di campagna presente allo sguardo, entro il cui spazio gli incontri e le conseguenti relazioni sono puramente accidentali. Guardando poi al campo d’azione si visualizzano mezzi di trasporto, luoghi e situazioni che presuppongono un mondo; i personaggi si trovano in un ambiente, vivono in un contesto collettivo, ma nonostante con questo si trovino ad interagire se ne distaccano ancora di più proprio attraverso la stessa interazione. Assoluta solitudine, persino dell’uno rispetto all’altro, quindi, in un mondo che nel frattempo va avanti da sé, avendo una sua esistenza, magari più incolore, nell’ulteriore sottolineatura della loro radicale estraneità.
Al senso della differenza si affianca il senso della fuga: apparendo anche come un girare intorno a se stessi, o forse una serie di false partenze con false mete, il viaggio di Mercier e Camier è un vagare che comprende in se stesso, in un incessante, circolare conferma, anche i presupposti di allontanamento, di fuga, di distacco. Esiste un senso centrifugo rispetto alla base, da o verso un punto di partenza. Senza psicologizzare – i personaggi volutamente sono vagabondi a n dimensioni – individuando una motivazione generica, forse una diffusa insoddisfazione, o di non-contatto, essa si identifica come trampolino di lancio per un ipotetico tentativo di sganciamento, di abbandono. In ogni caso una partenza per sfuggire/distaccarsi da qualcosa, che in questo caso sembra identificarsi con il perimetro della città. Ma, al bando di ogni conforto, con un senso di espansione della stessa partenza il viaggio permane nella condizione interiore. Muoversi eventualmente sul posto poi, in realtà non è soltanto precisamente segnare il passo, ma anche una sorta di percorso, pellegrinaggio entro cui si sposta sempre il senso della meta: la meta sfugge continuamente. In tutt’altra realtà e fatte salve le ovvie, ciclopiche, differenze, avvertiamo il castello di Kafka come presenza incombente, mai raggiungibile: si va al di là di una meta che non appartiene nemmeno più alla consapevolezza di chi si sposta. Comportando sì una zona spaziale, ma che indica un partire senza mai (rag)giungere. 
In ogni caso – anche se l’ignoto potrebbe forse qui prefigurare quanto verrà visto pur mancando una dichiarata intenzione di ‘partire per’, o addirittura la partenza mancare del rapporto, non in termini naturalistici, di io/dove/perché/come – quello di Mercier e Camier è e rimane un viaggio sufficientemente lecito – dal punto di vista della liceità dell’assunto – e lecitamente contrapponibile a quello tradizionale, al viaggio ottocentesco che porta a una dimensione di un esperire ben definito. Non siamo di fronte a due giovani ricchi rampolli inglesi che intraprendono viaggi di impianto conoscitivo impostati sull’accrescimento dell’esperienza vitale e di quella culturale.

Fu un viaggio di nessuna difficoltà materiale, senza mari o frontiere da superare, attraverso regioni poco accidentate anche se deserte per collocazione geografica. Restarono a casa loro Mercier e Camier, ebbero questa inestimabile occasione. Non dovettero cimentarsi, con maggiore o minor fortuna, con modi di vita stranieri, con una lingua, un codice, un clima e una cucina bizzarri, in ambienti che avessero, dal punto di vista della somiglianza, un sia pur minimo rapporto con quello a cui l’infanzia prima e l’età matura poi li avevano abituati. (ibidem, pag.7). 

Lungo questa direzione, per così dire obbligata, la disarmonia con gli oggetti diventa anche una sorta di sfiducia nella possibilità di operare su e verso una realtà, nella sua stessa accezione pratica e pertanto di spostamento. Il duo sembra avere un rapporto antagonistico con le cose, mentre gli oggetti assumono una specifica funzione memoriale e non pratica come patrimonio di ricordi che perdono così il loro valore d’uso per diventare valore di memoria. Infatti, se da un lato ogni singolo oggetto si perde nel vago proprio perché manca del suo valore d’uso, dall’altro questo elenco privo di funzionalità concreta assume una visibilità maggiore poiché possiede un suo spessore, funzionale al personaggio proprio nel momento in cui sparisce il suo valore strumentale.

Oggetti talmente inutili da volersene liberare, È come soffiarsi il naso, disse tra sé. (C’est comme si je me curais le nez, se dit-il. Beckett, Paris, 1970, pag.89) – rispetto all’originale “pulirsi il naso” si è optato per una traduzione che appare più consona anche se meno letterale), da abbandonare dopo averli ammucchiati e ricordati e dimenticati in una soffitta; e sono le tasche di un indumento a diventare e ad essere la soffitta in cui si raccoglie e si evoca una vita intera. 

– Non abbiamo lasciato niente nelle tasche, almeno? – disse Mercier.

– Biglietti forati di ogni tipo, – disse Camier – fiammiferi usati, su dei pezzetti di margine di

giornale tracce obliterate di appuntamenti irrevocabili, il classico mozzicone di matita spuntato, qualche foglio sporco di carta igienica, qualche preservativo di dubbia impermeabilità, cioè della polvere. Tutta una vita insomma. (Beckett, 1971, pag.86).

Ma attraverso questa enumerazione, elenco anche compilativo di oggetti che sembrano concreti ma rimangono soltanto l’enunciazione di se stessi – con funzione di ricordo, appunto – si manifestano, quasi sotto gli occhi, tutte le azioni, i verbi sottintesi, addirittura comportamenti a matrice sessuale. Ma qui si verifica uno scatto, per così dire, in avanti: i personaggi hanno una memoria – gli oggetti mancano di una funzione di uso al presente ma, accidentati e ormai inservibili, in qualche modo sono stati fruiti attraverso una funzione proiettata verso il passato dell’oggettistica stessa e di conseguenza del personaggio stesso – e ciò sembra ricollocarli nella definizione del tempo in cui vivono. 
Insieme di rottami di realtà, dunque, di personaggi, persone, forse di romanzi. Ipotesi di un’allusione, seppure archeologica, a tutto quello che è il romanzo tradizionale attraverso le sue stesse vestigia fisicamente messe a nudo. Intanto, l’ideale riflettore puntato su Mercier e Camier, primo piano in senso strutturale piuttosto che narrativo, sorta di dettaglio ideale e ideale di un dettaglio, sembra sottolineare il fatto che la realtà è decostruita e non costruita; che la realtà sembra decostruire piuttosto che costruire. Permane sempre una sensazione molto sottile, difficile da descrivere, dove si danno per scontate le nozioni realistiche e le azioni quotidiane attraverso la cui riconoscibilità scatta facilmente l’identificazione. È sempre come se, in una a-storia in cui succede tutto ma non succede niente, ci fosse uno sfuggente ma chiaramente percettibile effetto totale, straniato-straniante, composto di nulla ma anche di materiali spiccatamente particolareggiati e realistici, ancora una volta tutt’altro che irriconoscibili. Citazioni ironiche, frasi di buon senso, quasi proverbiali – 1) La mancanza di denaro è un male. Ma può diventare un bene. 2) Ciò che è perduto è perduto. 3) La bicicletta è un gran bene. Ma utilizzata male può diventare molto pericolosa. (ibidem, pag.93) – si surrealizzano verso un costante lievitare in una dimensione altra – quella di quest’opera – che, seppur non ben definita, li ingloba derealizzandoli. Compreso quel formalismo dialogico – …le presento le mie scuse… lei non deve prenderlo nel senso sbagliato…Le rinnovo le mie scuse…e le dico addio. (ibidem, pag.83) – che fa da contraltare alla pseudoarroganza, presente a volte tra loro:

– Un attimo – disse Camier.

– Che rottura – disse Mercier.

– Dove andiamo –  disse Camier.

– Non riuscirò mai a liberarmi di te? – disse Mercier. (ibidem, pag.118).

Non precisamente personaggi che si muovono nel vuoto o in un’ambientazione falsa, quindi, ma una sorta di mondo, esserci-non-esserci, collisione, luogo-non luogo in cui si verifica una sorta di urto, si inciampa, si prendono testate, circondati e immersi in una cornice che per sua natura ha una sorta di pseudo solidità sempre in bilico di tramutarsi in ostilità. È un mondo che mostra una certa forma di durezza in senso fisico, estranea a chi vi si muove nell’immobilità, scenografia e ambiente, per un verso, ma sempre qualcosa che si presenta sotto le specie di potenziale pericolosità o conflitto.
Eppure, nonostante tutto, nell’opera non viene mai negata, seppure fantasmaticamente, una sorta di presenza della soggettività, nel senso di identificazione, non certamente come azione e ancor meno come azione finalizzata, ma come individualità che continua a esistere. Infatti Mercier e Camier, contrariamente ad altre personae beckettiane, non sono vittime di uno scardinamento assoluto in termini di definizione, ma, considerati nel loro effettivo ruolo di motori della narrazione, emergono dal fondale come personaggi aventi sufficiente forza da essere protagonisti delle vicende. Protagonisti e vicende che si inseriscono anche nella ricapitolazione: ogni due capitoli il Riassunto dei due capitoli precedenti, in una pseudo matematicità data, stabilita, razionalizzazione-riassunto di qualcosa che per sua natura non ha niente da riassumere. Operazione strettamente tecnica che non aggiungendo nulla di semantico – ogni parola della narrazione essendo autosufficiente – si rivela soltanto l’aggiunta di una pseudo sintesi o riepilogo, opposizione o trascrizione ironica di quei romanzi popolari ottocenteschi, o ancora precedenti, in cui il riassunto precede e annuncia lo sviluppo dei capitoli.

 


 

:: letture ::

- Beckett S., Mercier e Camier, traduzione di Luigi Buffarini, Sugar Editore, Milano, 1971

- Beckett S., Mercier et Camier, Les Éditions de Minuit, Paris, 1970