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CAMILLE FLAMMARION E GLI SPIRITI SELENITI
di Vittorio Frigerio

camille.jpgVerso lo scadere dell’Ottocento, poté sembrare per un certo periodo che i confini della scienza stessero per muoversi in maniera insospettata e che nuovi ed imprevedibili orizzonti accennassero ad aprirsi davanti agli occhi curiosi dei ricercatori e a quelli meravigliati del grande pubblico. L’elettricità, forza indescrivibile ammaestrata da Edison, il “mago di Menlo Park”, attirava le folle alle esposizioni universali parigine, stupefacendo il pubblico con le sue innumerevoli e sorprendenti applicazioni, tra le quali il fonografo, marchingegno capace di conservare la voce delle persone fin’oltre la loro morte, pareva senza dubbio l’invenzione più straordinaria, tanto da farlo immortalare da Villiers de l’Isle-Adam in Ève future epopea moderna dell’elettricità con forti accenti spiritisti (2005). L’universo non era più vuoto. L’etere degli antichi, che riempiva gli spazi astrali, pareva infine aver trovato un nome più moderno, essere stato almeno in parte sfatato, domato, posseduto. Onde e forze percorrevano il cosmo che l’ignoranza umana aveva creduto spoglio, ma esse potevano ora essere conosciute, capite, dominate talvolta e comunque considerate non più alla stregua di potenze superne, ma piuttosto di spiriti familiari, disposti ad essere ammaestrati. Una vita insospettata si sentiva agitarsi fin nel profondo di una materia che nulla aveva più a che vedere con quella, solida e stolida, che i filosofi materialisti del secolo precedente, i Julien Offroy de La Mettrie o i Jean-Baptiste-René Robinet, avevano esaltata nella sua pesantezza arrogante contro i sogni evanescenti dei metafisici. Gli opposti parevano infine destinati a riconciliarsi. Gli spiriti si sarebbero presto rivelati conoscibili, decrittabili. Ciò che era stato nascosto, e per quel motivo solamente ammantato di mistero, sarebbe uscito all’aperto e si sarebbe mostrato realmente per quel che è: un’altra forma della realtà, una verità fino ad allora ignorata ma non per questo impossibile. Tutt’altro. 
Camille Flammarion (Montigny-le-Roi 1842 - Juvisy sur Orge 1925) va letto e riscoperto in quel contesto. L’allor celebre astronomo, il cui libro più conosciuto e diffuso, De la pluralité des mondes habités, data del 1864 e potè contare ben trentasei edizioni nello spazio di meno di trent’anni oltre ad essere tradotto un tutte le lingue principali d’Europa, si situò in effetti forse più di tanti altri in quello spazio dove scoperte d’avanguardia e ispirazioni spiritualiste si incontrano e si confondono. Autore di importanti serie di volumi di Astronomia Popolare, apprezzati e premiati fin dall’Académie Française, Flammarion è stato tra i primi ad assumere l’esistenza di forme di vita extra-terrestri e ad interrogarsi su quali aspetti potesse prendere la vita sui pianeti del sistema solare, e primo fra tutti sul vicino satellite della terra. Vicino alle teorie dello spiritista Allan Kardec, egli si sforzò di compiere attraverso le sue opere “una refutazione non teologica del materialismo contemporaneo” (Flammarion, 1868, Avertissement de la dixième édition française, c.vo dell’autore. Le traduzioni dal francese sono nostre). Flammarion, infatti, frequentò gli ambienti spiritisti parigini a partire dal 1861, incontrandovi personaggi di rilievo tali appunto Kardec e Papus, e proseguì da allora i suoi interessi nel campo finchè, nel 1923, venne eletto presidente della Society for Psychical Research di Londra. Il suo obiettivo era di sviluppare uno “spiritismo razionale, a uguale distanza dall’ateismo e dalla superstizione religiosa”, che consentisse di arrivare “[al]la Religione attraverso la Scienza”. Per lui, in effetti, il progresso scientifico non si poteva in alcun modo separare dal progresso morale, e “[...] la questione dell’esistenza d’una razza intelligente sugli altri globi dello spazio, dell’universalità della vita nella creazione siderale, dell’unità delle leggi fisiche e morali nel mondo intero [...] (ibidem)” divenivano problemi strettamente collegati che sarebbero potuti essere compresi solo tutti insieme. 
Flammarion insisteva fortemente sull’aspetto prettamente scientifico del suo operato, tenendo a distinguersi dai sognatori o dai romanzieri che nel corso dei secoli avevano tentato d’immaginare quali forme potesse avere la vita sugli altri mondi. Questa ferma volontà di ancorare il suo ragionamento esclusivamente nell’ambito di quanto l’astronomia e le scienze potessero farci imparare grazie ai progressi della tecnica, risalta ancor più nel titolo del suo secondo best-seller, Les mondes imaginaires et les mondes réels, dove la prima metà è consacrata ad una descrizione che si vuole obiettiva dei vari pianeti sulla base delle ultime scoperte astronomiche, mentre la seguente trasporta il lettore attraverso secoli di fantasticherie pseudo-scientifiche, da Bernard de Fontenelle a Jean Baptiste Charles Fourier, passando da Immanuel Kant e John Milton, ma senza dimenticare Paul de Kock, Jules Verne o Edward Bulwer-Lytton. L’astronomo-spiritista-poeta era ben cosciente della posizione delicata nella quale si situava e dell’ambiguità inerente al genere dei suoi scritti. Per questo motivo, si difendeva accanitamente dall’accusa di voler imitare Dante, Ernst Kircher oppure Emanuel Swedenborg, e affermava di voler semplicemente estrapolare sulla base del conosciuto per indovinare ciò che ancora si cela agli sguardi dei ricercatori, e formulare quelle ipotesi che più tardi nuovi sviluppi delle scienze avrebbero permesso di confermare. Agli strumenti materiali e ai calcoli scientifici egli sognava d’aggiungere una terza dimensione dalle potenzialità enormi:

Al fianco dell’astronomia matematica e dell’astronomia fisica, che costituiscono i due elementi fondatori della scienza del mondo, esiste quella che potremmo chiamare l’astronomia speculativa, che deriva dalla prime due e s’innalza talvolta al di sopra di esse con le sue viste ardite e i suoi concetti giganteschi. [...] Ma conviene evitare uno scoglio pericoloso [...] quello che consiste ad addentrarsi troppo nell’arbitrarietà. (Flammarion, 1870, pag. 3)

Paradossalmente è quello scoglio, non sempre evitato, che dà agli scritti di Flammarion quel po’ di attualità cui possono ancora aspirare ai giorni nostri, dopo che le esplorazioni spaziali hanno dissipato qualsiasi alone di mistero dalle vicinanze del nostro globo. La Luna, questa “compagna utilissima della Terra” (Flammarion, 1868, pag. 84), ha attirato particolarmente la sua attenzione. Il satellite del nostro pianeta affascinava l’autore quasi più per la sua apparente assenza di caratteri interessanti che per qualsiasi sua eventuale virtù. Egli vi vedeva “una delle scene più modeste della natura” (Flammarion, 1870, pag. 9), uno spettacolo umile ma pur sempre da non essere disdegnato. Priva d’atmosfera, sprovvista d’acqua, assente da essa ogni parvenza di vita, la Luna poteva sembrare un oggetto quasi interamente trascurabile agli occhi d’un astronomo dell’Ottocento. Ma la visione di Flammarion non si ferma alle immagini fornite dai telescopi. Egli guarda al di là delle semplici apparenze e giudica sulla base d’un ideale che vorrebbe vedere la vita spargersi e germinare nell’universo intero. La Luna attuale, ammasso sterile di pietraglie, scompare per lasciare il posto alla speranza di un avvenire abitato, oppure al ricordo di un mitico tempo che fu, quando la “vigile sentinella” (pag. 10) della terra era anch’essa dimora di esseri viventi: “Ai nostri occhi, la Luna ha ben altro destino da realizzare che quello di orbitare solitaria attorno al nostro globo. O essa è abitata o è stata abitata, o sarà abitata” (Flammarion 1868, pag. 83). O per dirla in modo ancora più dichiaratamente poetico: “Gli astri sono fatti per essere abitati come i boccioli di rosa sono fatti per schiudersi”(ibidem, pag. 12).
Di fronte al bisogno di rappresentare le forme di vita possibili sul nostro satellite, Flammarion si guarda bene dal mostrarsi troppo dogmatico e insiste al contrario nel sottolineare come esse possano assumere forme, e coscienze, così completamente aliene da essere irriconoscibili per i terrestri. Rispondendo in anticipo alle critiche di coloro che potevano chiedere come in un tale luogo potesse esistere alcunché di vivente, egli prevede sulla Luna una vita del tutto differente da quella terrestre. Ad ogni angolo dell’universo può così corrispondere un’esistenza che gli è propria, multipla e varia secondo l’astro sul quale si è sviluppata e le condizioni della sua esistenza. Soprattutto, importa di non far mostra di arroganza e di non “giudicare il mondo intiero col metro della nostra debolezza e prendere la vita terrestre per il tipo assoluto della vita universale” (ibidem, p.11).
Il discorso sulla Luna sviluppato in Les mondes imaginaires et les mondes réels è tuttavia soprattutto un modo di riportare il lettore dai deserti seleniti sulla sua terra stessa, e di fargli osservare il suo mondo alla luce riflessa del suo satellite. Flammarion riprende per illustrare il suo proposito la divisione proposta da Giovanni Keplero nella sua Astronomia lunaris, dove “chiama Sub-volves, sotto la Terra, i Seleniti che abitano questa parte della Luna, mentre chiama Privolves, privati della Terra, quelli che abitano l’altra parte. Queste denominazioni vengono dal nome Volva (Colei che gira), nome che i Seleniti, sempre secondo questo astronomo, danno alla Terra” (ibidem, pag. 13). È nel loro rapporto con la Terra che Flammarion esamina i due emisferi lunari, giudicando che i Sub-volves beneficiano della vista maestosa del nostro pianeta, suscettibile di ispirare loro pensieri elevati e di spingerli alla contemplazione, mentre i Privolves che risiedono sul lato perennemente oscuro devono aver ricorso ad altri stratagemmi, e “forse, sotto la loro atmosfera sconosciuta, hanno dei soli artificiali che accendono per la metà dell’anno” (ibidem, pag. 29). A partire dalle osservazioni astronomiche, e dalla posizione della Luna rispetto alla Terra, Flammarion si lascia tentare dal desiderio di prevedere quali possano essere i rapporti tra gli abitanti dei due opposti emisferi lunari, e conclude per l’esistenza di “una distinzione fondamentale nella nazionalità dei Seleniti. Quelli che abitano l’emisfero privilegiato [quello dal quale si vede la Terra] sarebbero i nobili; ai loro antipodi risiederebbero i villani”. Egli s’immagina che la vista del nostro pianeta, coi suoi brillanti colori, attirerebbe le popolazioni del lato oscuro desiderose di vedere almeno una volta nella loro vita lo spettacolo che è loro negato. Ma se la divisione geografica dovesse effettivamente corrispondere a una separazione sociale, prevede che “forse i pellegrinaggi alla Terra avrebbero un valore ancora ben più grande, e potrebbero anche essere proibiti ai plebei”, aggiungendo tuttavia prudentemente: “Di questo preferiamo non discutere” (ibidem, pag. 23). Questo trasferimento nello spazio dei conflitti sociali terrestri serve all’autore per ricordare ai suoi lettori come, vista dalla Luna, la Francia appaia “quasi invisibile”, (ibidem, pag. 18)  e per supporre che “i Seleniti che contemplano tranquillamente durante le notti silenziose gli squarci verdi e grigi della Terra, non sospettano minimamente le battaglie che oppongono tra loro quelle nazionalità lontane” (ibidem, pag. 19).
Lo spiritismo che l’autore sottoscriveva aveva in effetti un lato progressista molto marcato. Il socialismo romantico di Fourier e di Pierre Leroux prevedeva già certi elementi dottrinali poi recuperati dallo spiritismo fin-de-siècle e adottati per l’essenziale anche da Flammarion. Al disfacimento sociale causato dall’industrializzazione e dalla società borghese dominata dall’egoismo, questo proto-socialismo pre-marxiano opponeva l’idea di un’unione totale dell’umanità al di sopra delle classi, che trovava la sua espressione più alta nella teoria della reincarnazione delle anime. Questa visione, metafisica ma non prettamente religiosa, aveva il vantaggio di emarginare il Cristianesimo – considerato il braccio spirituale della repressione borghese – per proporre l’idea di uno sviluppo armonioso degli spiriti di vita in vita, all’interno di una spirale eternamente ascendente. Jean Reynaud fu probabilmente il primo, in questo contesto, a rappresentare nel suo libro Terre et ciel (1854) l’idea di una catena continua di reincarnazioni dove gli animi passavano da un pianeta all’altro e di vita in vita, in una progressione inarrestabile verso la perfezione (cfr. Weber, 2007). Il concetto di pluralità dei mondi abitati sviluppato da Flammarion si prestava a meraviglia ad un tentativo di collegare logicamente il progresso materiale e il progresso spirituale, arrivando per finire ad identificare le forme di vita extraterrestri con le nuove incarnazioni di esistenze terrestri passate. In uno dei sue tre romanzi a tema fantascientifico, Stella (1897), l’autore identifica nell’elettricità la sostanza autentica dell’anima e la forza che permette la comunicazione tra gli spiriti, dipingendo il ritratto di un universo dove fluidi imponderabili in perenne stato di transizione collegano tra loro pianeti, soli e satelliti (Finn, 2007). In questo contesto dotato di una sua logica interna ineccepibile, dove spirito e materia superano la loro antichissima opposizione per ritrovarsi in una “sintesi di tutti i saperi” (ibidem), la Luna di Camille Flammarion, da pallido, inutile e deserto satellite della Terra, diventa il primo gradino su di una scala che porterà le anime umane alle soglie della perfezione. 

 


 

:: letture ::


Finn, M.R., “Science et paranormal au 19e siècle: la science-fiction spiritualiste de Camille Flammarion”. Dalhousie French Studies 78 (Spring 2007), pp. 43-51.

Flammarion, C., La pluralité des mondes habités: étude où l'on expose les conditions d'habitabilité des terres célestes discutées au point de vue de l'astronomie, de la physiologie et de la philosophie naturelle. Paris, Didier, 1868.

Flammarion, C., Les mondes imaginaires et les mondes réels. Voyage pittoresque dans le ciel. Paris, Didier, 1870.

Villiers de l’Isle-Adam A., Eva futura, Guanda, 2005.

Weber, T. P., “Carl du Prel (1839–1899): explorer of dreams, the soul, and the cosmos”. Studies In History and Philosophy of Science Part A Volume 38, Issue 3, September 2007, Pages 593-604.