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La sottile linea gialla di Friedrich Dürrenmatt

di Livio Santoro

fried.jpgLa trama del romanzo giallo è un canovaccio versatile quanto asfittico. Ciò che si va narrando non deve oltrepassare certi standard. Deve restare ancorato ad una sequenza ineluttabile: fatto criminoso, sgomento, dubbio, certezza, soluzione. Tutto deve stare in queste cinque fasi: la psicologia dei personaggi, la descrizione dei paesaggi, la sequenza degli avvenimenti; che si scelga una forma narrativa o che se ne scelga un’altra non importa, bisogna calpestare questo sentiero già segnato per il romanzo giallo. Motivo per cui, forse, si legge un giallo nelle collane da edicola o sulle spiagge, perché, bene o male, non ci si aspetta nulla di nuovo, sebbene lo scopo del giallo stesso sia la scoperta.
Friedrich Dürrenmatt applica fino ad un certo punto questo schema alle sue storie, la sua preoccupazione non è quella di trasportare il lettore attraverso una strada da percorrere scegliendo la destra o la sinistra di un bivio. Risiede piuttosto in un chiarimento ancora più grande, che oltrepassa le angustie di una trama canonica. Per cui la realtà del giallo è il mezzo attraverso cui discutere della natura della realtà stessa, delle sue fessure e dei suoi interstizi come di elementi caratterizzanti di una gigantesca allucinazione ipnagogica: la realtà. Non serve conoscere l’assassino (non soltanto), secondo Dürrenmatt, serve conoscere il perché, e soprattutto il come, la colpa si sostanzi nel profilo di un personaggio. La tensione canalizzata dalle sue storie sta a testimoniare di un ragionamento che principia con un lapalissiano credo quia absurdum, e che termina con un per nulla lapalissiano credo-quia absurdum. L’assurdo è un teatro del grottesco, per Dürrenmatt quello dell’esistenza, un teatro in cui la trama del giallo ha senso nello svelamento delle cose per quello che sembrano essere, un testardo rimando alla fallacia di un tragitto già segnato.
È la storia il principale protagonista delle narrazioni dello scrittore svizzero, una storia che si impossessa dei personaggi, quasi a voler racchiudere le potenzialità espressive e pratiche del soggetto in una rete dal sapore vagamente post-strutturalista. Il soggetto sembra perdersi, perché il soggetto di Dürrenmatt non è altro che un accidente, quasi una contingenza che appartiene alla trama in quanto strumento di un disegno più ampio di quello che lui, da solo, potrebbe dipingere. Per questo la realtà si viene formalizzando come uno schema ineludibile, inappellabile, che i personaggi lo vogliano o meno. E così si trascina una visione sfiduciata della giustizia, dei metodi di indagine, delle pratiche comuni dello svelamento. La realtà si va letteralmente costruendo, e lo fa quasi da sé. Basti prendere come esempio, come filo conduttore, due dei più riusciti lavori brevi della narrativa dello scrittore svizzero, Il giudice e il suo boia (1952) e Il sospetto (1953). In entrambi il protagonista (quello apparente) è il commissario Bärlach, un vecchio funzionario di polizia che si trova, a pochi passi dalla sua morte, ad essere soggiogato da due episodi ricomparsi dalle maglie del suo passato come un dono prepensionistico dei più onerosi. A leggere i romanzi uno dopo l’altro, Bärlach appare come posizionato al centro di un palindromo ideale, in cui la realtà può essere letta (o costruita) da una parte come dall’altra.
Nel primo romanzo, infatti, la realtà delle cose viene stravolta in modo tale che il commissario vede costruirsi un canovaccio su cui adagiare le colpe passate del medico Gastmann: i due si fecero una promessa nel passato, il commissario promise di condannare il medico per un suo antico delitto, il medico promise al commissario di continuare a commettere delitti restando impunito. Il delitto attorno a cui ruota Il giudice e il suo boia non ha come colpevole Gastmann, e Bärlach ne è consapevole, ma tale delitto verrà interamente ricostruito dagli eventi e dal commissario, in modo tale da far cadere colpevole il medico reo, invece, di tantissimi altri delitti, ma non di quello. La trama si costruisce come nel classico romanzo giallo, apparentemente, solo che la colpa è l’elemento che chiede la punizione del medico, la colpa in generale, e non una colpa, quella per cui poi verrà effettivamente condannato. Qui la realtà viene costruita dagli eventi, sono gli eventi a venire incontro al commissario, e non è lui stesso a costruirli abilmente per emettere il suo personale giudizio.
Nel secondo dei due romanzi, Il sospetto, la storia per quanto assiale rispetto alla prima è identica, ma rovesciata. Non si conosce alcunché del delitto, inizialmente, né del carnefice, si ha solo un sospetto, appunto. Ed è il sospetto stesso che si va concretizzando nelle pagine del romanzo, come la più lineare delle evidenze, nonostante la bizzarria dell’intreccio. Qui Bärlach riesce a formalizzare la colpa di (ancora) un medico, un certo Nehle, che operava senza praticare anestesia nei campi di concentramento tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nehle, dato per morto, sarebbe invece vivo, ed opererebbe sotto falso nome in una clinica in cui utilizza gli stessi metodi di cui si faceva forte durante la guerra. Ed è un sospetto (nato da una fotografia in copertina della rivista Life) un vacillante elemento dello spettro delle possibilità a convincere Bärlach a sostenere un’indagine che apparirebbe insensata quanto cervellotica.
Ecco il palindromo: nel primo caso una realtà si fa costruire da Bärlach, nel secondo caso Bärlach costruisce una realtà. Ma in entrambi i casi la trama già esiste nella mente del commissario, preesiste come oggetto al delitto particolare in quanto si proietta sul dato concettuale che vi sottende, sulla colpa. Qui Dürrenmatt gioca di strutturalismo, dimenticandosi del soggetto, utilizzandone le doti certo, ma in favore della trama. Tutto per distrarsi dalla canonica esperienza del romanzo giallo, per sostenere a gran voce che la realtà, se vuole, può farsi costruire come nessun assassino potrebbe immaginare, o come qualunque commissario riuscirebbe a fare, se solo fosse un mezzo della realtà stessa.
Ecco perché in Dürrenmatt il soggetto sembra smarrirsi, perché non c’è soltanto il colpevole, ma c’è la colpa. Sia che le connessioni tra la colpa e il giudizio esistano chiaramente (Il sospetto) sia che queste connessioni particolari non esistano (Il giudice e il suo boia) la colpa si lascia intravedere dalla realtà delle cose, per quanto parziale e fasulla essa sia.
Dürrenmatt segue una sottile linea gialla perché non scrive romanzi canonici, evade dal genere. La questione fondamentale, in Dürrenmatt, riguarda la realtà nel suo complesso. Quella metamorfica impressione che accompagna i suoi personaggi, che facilita un caso più che un altro, che trova soluzione a delitti mai commessi ma tanto reali, che concretizza cose esistite ma non più esistenti.
Di certo l’atmosfera post-conflitto è uno degli scenari su cui i tratti di uno scrittore cadono facilmente; di certo la devastazione morale e politica di un’epoca che si guarda offuscano l’orizzonte delle cose, rendendole impalpabili elementi di una trama da ricostruire, da giustificare nella sua disarmante apparenza di realtà. Alla crudeltà dell’uomo fa dunque da sfondo una crudeltà che appartiene alla dimensione famelica di un realismo satollo di se stesso. Un realismo che sembra oltrepassarsi nel rimbalzo delle immagini trasmesse e riportate di un evento scandaloso, di una grande guerra. La foto del dottor Nehle che opera nello strazio del suo paziente non ha nulla di orale, nulla di riproducibile se non con l’immagine tanto terribile quanto reale. Ed è quest’immagine a dare il la alle indagini del commissario ne Il sospetto. Una fotografia. Un elemento riproducibile nella sua evidenza terribile. Iperrealismo di Dürrenmatt. Iperrealismo che va contro la realtà stessa, che la oltrepassa.
La stessa guerra della fotografia si concretizza nella maniacale perversione del dottor Nehle, nell’abnegazione della sua amante, una ex dissidente sfuggita all’olocausto solo per tramite del suo corpo, solo per aver ceduto alle insistenze sessuali del carnefice. E nelle parole della donna c’è tutto lo sgomento trasformatosi in consapevolezza: “il bene e il male si sono abbracciati troppo stretti in quella maledetta notte nuziale tra il cielo e l’inferno da cui e nata questa umanità” (Dürrenmatt F. 1953, p. 90). Ed è sorprendente come questa frase faccia da eco a quella che il medico Gastmann pronuncia allo stesso commissario in occasione del duello finale ne Il giudice e il suo boia: “mi sono divertito a fare del bene quando ne avevo voglia e tornavo a fare il male quando mi saltava in testa. […] Una sola notte ci ha congiunti per sempre” (Dürrenmatt F. 1952, p. 64).
Bene e male sono oramai diventati due manifestazioni coniugabili a piacere, non tanto distanti l’una dall’altra. È la difficoltà del riconoscimento ad essere mutata, e nel titolo del primo dei due nostri romanzi c’è tutta questa tensione.
Alla sequenza canonica giallesca proposta sopra (fatto criminoso, sgomento, dubbio, certezza, soluzione) Dürrenmatt sostituisce ed inverte. Nulla è più lineare nel giallo dürrenmattiano, il dubbio non si presenta come elemento propedeutico alla scoperta, la certezza nemmeno, e il fatto criminoso è solo lo sfondo. Tutto resta sospeso nella costruzione narrativa di una trama terribilmente amorfa, inafferrabile, in cui bene e male non sono più due termini oppositivi, quanto sono diventati termini vicendevolmente osmotici, nella consapevolezza di una realtà che oramai oltrepassa se stessa e che riproduce costantemente le sue disgrazie.

 


 

:: letture ::

Dürrenmatt F., Der Richter und sein Henker, 1952, trad. it. Il giudice e il suo boia, Feltrinelli, Milano, 2002.

Dürrenmatt F., Der Verdacht, 1953, trad. it. Il sospetto, Feltrinelli, Milano, 2007.