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In viaggio con Céline negli abissi dell’io*
di
Adriano Cataldo

celineViaggio al termine della notte (1932)1 di Louis Ferdinand Céline è la prima tappa di una straordinaria invenzione letteraria, resa possibile da un progressivo rimodellamento/disfacimento della parola e della sua ri-costruzione. Dopo Céline, insomma, la letteratura non sarà più la stessa. Un’avventura creativa sempre più intrecciata drammaticamente con le vicende personali dell’autore. Qui, però, non prenderemo in esame quel febbrile lavorio sull’argot, gli andamenti sincopati che nelle opere successive ricorderanno sempre più il ritmo del jazz, e non guarderemo neanche alle discutibili bagatelle antisemite. Analizzeremo nello specifico i tre concetti portanti del romanzo: il viaggio, la metropoli/fabbrica, la guerra, partendo dal presupposto che il Voyage ruota intorno al riconoscimento del disastro dell’Io nel suo rapporto con gli altri, conservando come sfondo la cultura dell’Occidente e le sue conseguenze. Si è detto che la vita di Céline è rintracciabile in tutta la sua opera e, infatti, le vicende di questo suo primo romanzo sono principalmente ispirate a viaggi dell’autore. Iniziamo dunque dal viaggio, tema delineato sin dalla prima pagina del testo. Céline lo descrive come la facoltà di utilizzo dell’immaginario, come l’atto stesso del romanzare. Un’opera che “va dalla vita alla morte” mentre il resto è relegato, tra la “delusione” e la “fatica”, all’annichilimento consapevole, alla notte: condizione esistenziale che conduce gran parte dell’umanità, attraverso la paura, alla necessità di autoconservazione e alla fuga, che è un’ulteriore forma di viaggio. Il bisogno di mantenimento dell’integrità del corpo è del resto un altro dei temi portanti di Céline, influenzato dalla sua formazione di medico2. I viaggi dovrebbero condurre gli uomini alla conoscenza del nuovo. Chi parte, è noto, sa da cosa fugge, ma, aggiungerebbe Céline: “… sa anche cosa trova”: altra umanità, che persiste costantemente nella propria essenza, che significa essere “immondi, atroci e assurdi”. Questa particolare visione dell’uomo ha portato alcuni a descrivere l’opera come nichilista, perché descrive un agire individuale orientato al semplice soddisfacimento di istinti fisiologici bestiali. Il determinismo dell’autore è, però, più simile a quello di un entomologo, che analizza relazioni basate sul parassitismo, che in natura è funzionale alla prosecuzione delle specie e all’equilibrio degli ecosistemi, mentre nella società porta al mantenimento di strutture clientelari e alla sopraffazione dell’individuo sul suo simile e, talvolta, alla distruzione di habitat. Sistemi caratterizzati dalla sopraffazione portano di conseguenza al sospetto, alla necessità di mantenersi intatti e alla paura.
Gli avvenimenti storici durante i quali è ambientato il romanzo vedono la Francia, grazie ai suoi domini e protettorati in Africa, come una delle portatrici del cosiddetto “fardello dell’uomo bianco”, teorizzato da Rudyard Kipling, che l’antropologia dell’autore sovverte completamente. Céline dirà, infatti, che l’unica, grande differenza tra gli europei e gli africani è nel clima delle loro terre: il caldo corrode più facilmente i corpi, il freddo conserva dalla decomposizione, fisica e morale. Giunto in Africa, Ferdinand osserva le dinamiche di un tribunale coloniale, dove i funzionari esercitano il loro ruolo senza avere un preciso titolo di studio o altra competenza, con l’unica mansione di infliggere pene fisiche agli indigeni. Il periodo storico in cui il libro fu scritto era del resto caratterizzato, come ogni epoca, dai suoi grandi temi, dai suoi canoni. Assieme al colonialismo, c’è la guerra. Il romanzo inizia infatti con un giovane Ferdinand, “vergine di atrocità”, che si arruola rocambolescamente per partecipare alla I Guerra mondiale, forse in preda all’euforia che allora aleggiava attorno al conflitto in fieri, e, vivendolo, dirà che “la guerra era tutto quello che non si capiva”, espressione che evidenzia un doppio significato. Da un lato è un risvolto dell’incoscienza del protagonista, che si troverà ad obbedire agli ordini di individui esaltati, patrioti della morte, eseguendo sempre compiti di rifornimento, senza mai vivere in pieno l’angoscia immobile della trincea. Dall’altro, dichiara che la guerra è infinita espressione dell’Io umano e dei suoi incubi, uccisione reciproca senza motivazioni. 
Il terzo grande tema è la fabbrica, luogo di produzione di ricchezze nazionali, ma anche di macchinizzazione delle capacità umane, che Ferdinand sperimenta quando si trasferisce negli Stati Uniti. A prima vista, il Nuovo Mondo aveva suscitato nel protagonista grande ammirazione, per la dinamicità degli abitanti e la grandiosità delle forme urbane, completamente protese verso l’alto, città verticali, totalmente diverse da quelle d’Europa, adagiate, stanche e apatiche. Un tema caro alla sociologia, che negli anni Trenta, scopriva la città come laboratorio di analisi grazie alla “Scuola di Chicago”. Ma la vita veloce che Ferdinand osserva nella metropoli assume una nuova forma quando lui viene impiegato in una fabbrica Ford, a Detroit. Gli viene affidata una mansione che lo tiene lontano dai compiti ripetitivi della catena di montaggio, ma ugualmente Céline vede ridotto il suo stato a quello di un primate, e fugge, ritornando in Francia. In lui, i grandi temi sono  delle cornici minime nello spazio dell’opera, che sono però enormi nel discorso delle loro conseguenze sugli atti umani. Attraverso un percorso ciclico l’immondo della forma umana diventa poi radice dei grandi canoni e canone costante.

C’è fine all’immondo? Forse no; ma qualcuno non ne è pervaso pienamente. In Africa Ferdinand conosce Alcide, un funzionario francese, con una nipotina rimasta orfana che vive in patria, che lui mantiene a distanza. “L’amore per la vita degli altri fa grande un uomo, di più della sua povera vita”: il protagonista concepisce l’esistenza e la fattibilità della solidarietà umana, si commuove per il coraggio del collega. Non è nemmeno indifferente alle potenzialità di esistenza dell’amore, come dimostra il congedo da Molly, una prostituta conosciuta a Detroit, che rivela come la concezione di amore del protagonista coincida con l’atto di aver cura dell’altro, mantenendone intatto il corpo.
Spesso il dono agli altri è involontario. Nel manicomio parigino dove lavora, Céline dà delle lezioni di inglese all’apatico e taccagno dottor Baryton, che comincia così a scoprire il bello del viaggio, della fuga costruttiva verso la conoscenza, ma anche quella negativa, lontano dalle responsabilità che lo legavano alla figlia affetta da un grave ritardo psico-fisico.
Il resto dei sentimenti provati da Ferdinand non sarà che “appena abitabile”, ed egli vedrà, nelle dinamiche umane vissute, soprattutto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dalle colonie alle fabbriche Ford, fin nella squallida periferia di Rancy.
La sezione del romanzo dedicata ai sobborghi operai parigini, la più lunga dell’opera, presenta un’umanità affollata di esseri gretti, meschini. I coniugi Henrouille, che vogliono far rinchiudere in ospizio la vecchia madre del marito per poterne gestire la ricca pensione, il sudicio Don Protiste, parroco del quartiere, che organizza il finto incidente domestico in cui uccidere la vecchia Henrouille, che, accortasi dei traffici attorno alla sua persona, ha ripreso vigore ed inveisce contro il mondo.
Ferdinand mantiene un atteggiamento di sdegnoso distacco, assume ippocraticamente il ruolo di medico, anche se in un modo molto comico, infatti non accetta onorario durante le prime visite, perché ha vergogna di chiederlo. In seguito, ogni paziente lo congeda garbatamente dopo ogni visita medica. Anche il mondo accademico che vede è abitato da individui grami. Qui conosce Parapine, scienziato velatamente voyeur, desideroso di fare una scoperta scientifica sensazionale, qualsiasi essa sia, per poter finalmente lasciare l’istituto di ricerca dove lavora e il suo odiato capo, rinomato barone universitario. 
L’uomo sociale è inserito in un sistema di aspettative, le sue azioni portano a conseguenze, per se stesso e per gli altri, che sono l’inferno, ma fanno anche da specchio delle azioni individuali e da mezzo per significarne l’identità: si dice “Io” solo di fronte all’altro. La dichiarazione di identità è un rapporto speculare, che porta a definire differenze ed analogie, a confrontarsi con il proprio doppio. Nell’opera il doppio di Ferdinand è probabilmente Robinson, il personaggio che vive le sue stesse avventure, la guerra, l’Africa, Detroit, Rancy, è sempre presente, come un retaggio, una zavorra, un promemoria di ciò che Ferdinand potrebbe essere. Ma soprattutto rappresenta il tramite che lo accompagna ad una consapevolezza, quella che chiude il libro e ne significa il titolo.
È notte, e Robinson è agonizzante, ferito da un colpo di pistola. Ferdinand, stringendogli le mani, lo vede come un povero disgraziato, che per tutta la vita ha fatto il furbo, come, del resto, tutti gli altri. Un uomo, quindi. Le sue parole non sono pietose, ne avrebbe di più, dice, per un cane. Robinson è più stupido di Ferdinand, meno istruito, ma è riuscito a morire con una ragione, un motivo valido. Se la vita umana è un “luogo scomodo” senza scopi, per morire bisogna trovarne uno che non sia la semplice fuga. La morte è un viaggio che illumina gli ultimi istanti di vita, per goderne. 
Al termine della notte, pertanto, c´è il viaggio che Ferdinand non farà, che il suo doppio sbilenco è riuscito ad intraprendere, subendo la morte come ha subito la vita. 
Quella notte muore una parte di Ferdinand. Di lui resta il suo involucro, “la carcassa”, che su un molo osserva una chiatta allontanarsi lungo il corpo del fiume, verso un luogo che il protagonista non vivrà, perché è giunta la fine dei viaggi.
La fine dei viaggi coincide plausibilmente con la fine delle paure, con il sopraggiungere dell’apatia. È così delineata la concezione céliniana del viaggiare, che è infatti il semplice atto, la volontà unica del cambiamento di luogo, come un’esaltazione del tragitto, che non prevede un altro fine ad esso collegato. Per cui si avvicinerebbe ad una certa tradizione, anche picaresca, del romanzo di formazione e di avventura. Si aggiunge però la condizione dell’umanità e la concezione immonda e melmosa – più che massificata – che ne ha Céline, che vanificano il risultato ultimo del viaggio e del ritorno, che è quello di trovare il nuovo.
Il testo perciò è lontano dalle occidentali virtù di principio e risultato, lontano dall’esaltazione del calcolabile di matrice weberiana, motore del rinnovamento portato dall’etica cattolico-protestante. Rientra, come unica forma di certezza, quella del semplice assurdo umano, immondo e terreno. 
Un immondo che si cela spesso dietro la stessa organizzazione sociale, assicurando un livello di violenza tollerato e sostenibile, operato al livello della vita privata o professionale, che non accetta intrusioni. Céline riduce ai minimi termini i fattori di calcolabilità delle azioni umane, che, in quanto istintuali, sono aperte e non prevedibili, senza però aprire possibilità ad un facile esistenzialismo da liceale. Il mondo descritto dall’autore si articola attorno ad eventi storici e sociali essenzialmente violenti, tra i quali la I Guerra mondiale rappresenta un culmine per l’immensa portata di morte e lacerazione che lascerà. In termini complessivi, quello di Céline è un mondo che deve parte del suo sviluppo e del suo funzionamento allo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche e alle violenze del colonialismo, viaggi di conquista e di modernizzazione spesso imposta in modalità tiranniche. Una serie di crudeltà che sarebbero difficili da concepire per un uomo che fa dell’immobilità il suo stato tipico, che fugge i viaggi, capaci di narrargli una versione delle verità della Storia.
Verità, quella che si cela dietro ai viaggi, che è rivelazione, come scrisse Claude Levi-Strauss nei Tristi Tropici, della “nostra sozzura gettata sul mondo3.


 

* Questo scritto trae ispirazione dai lavori del Seminario “Il canone europeo della letteratura” 
tenutosi nell’anno accademico 2007/2008 presso la Facoltà di Sociologia dell’Università Federico II di Napoli

:: note ::


1. 
Louis Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 2005.

2. È da ricordare come la sua tesi di laurea sia dedicata al Dr. Filippo Semmelweis, colui che sconfisse la febbre puerperale, imponendo ai suoi colleghi medici di lavarsi le mani prima di visitare le puerpere.
Louis Ferdinand Céline, Il dottor Semmelweis, Adelphi, Milano, 1975.

3. Claude Levy-Strauss, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano, 2004.