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conversazioni
 

La sociologia non-ovvia di
Randall Collins
di Antonietta De Feo e Luca Bifulco

stockhausen

Randall Collins è uno dei più importanti sociologi contemporanei. Insegna Sociologia nell’Università della Pennsylvania. Come è proprio delle opere complesse e di elevata portata, quella di Collins è difficile da sintetizzare in poche righe introduttive. 
Il suo approccio tende a coniugare due concezioni: l’idea che la società sia organizzata intorno a conflitti tra i diversi gruppi sociali, in termini di dominio, scontro o negoziazione; l’idea durkheimiana della solidarietà morale come fondamento della coesione all’interno dei singoli gruppi, in virtù del rituale sociale che consente la partecipazione ad ideali e sentimenti comuni. 
Anche ogni interazione individuale assume, per Collins, la forma di un rituale, in cui giocano un ruolo fondamentale le emozioni. Ogni individuo porta con sé il suo capitale culturale (condiviso con il proprio gruppo sociale) e si confronta con quello dell’interlocutore e del suo gruppo. La società è come un’infinita catena di rituali di interazione, attraverso cui si trasmettono le idee, i simboli dei vari capitali culturali, secondo un meccanismo che in genere tende a rinforzare il dominio delle classi superiori, sebbene non siano esclusi ribaltamenti. La stratificazione sociale ha per Collins una struttura multidimensionale, per cui la disuguaglianza sociale è frutto tanto delle differenze di potere quanto delle diverse reti culturali e sociali a cui si appartiene.
In Italia sono stati, tra gli altri, pubblicati: Sociologia (Conflict Sociology. Toward an Explanatory Science, 1975), Teorie sociologiche (Theoretical Sociology, 1988), Quattro tradizioni sociologiche (Four Sociological Traditions, 1985), e di recente L’intelligenza sociologica (Sociological Insight. An Introduction to Non-Obvious Sociology, 1992).

Nel suo ultimo libro, Violence. A Micro-sociological Theory del 2008 – non ancora tradotto in italiano –, lei esamina in profondità l’ampia gamma di situazioni di violenza fisica che possono caratterizzare le nostre vite, dal semplice litigio alla violenza domestica, dai combattimenti militari alla violenza che ha luogo nelle manifestazioni sportive, dal terrorismo al teppismo. Il suo lavoro cerca di andare oltre l’idea consolidata che le condizioni sociali, culturali, ideologiche e razziali o le patologie individuali siano la base principale della violenza. Lei sostiene che gli esseri umani difficilmente agiscono in maniera violenta e che essi riescono ad usare la violenza solo in virtù di specifiche condizioni che aiutano a superare quelle barriere emotive che inibiscono naturalmente i comportamenti violenti. Ci spiega meglio i punti salienti di questa sua interessante “teoria compatta” della violenza, ed il legame eventuale con l’idea che anche l’interazione quotidiana assume toni sostanzialmente ritualistici?
Quasi tutte le teorie sulla violenza sostengono che per essere violenti basta avere un motivo. Esistono molti tipi di violenza, se si considera che la gente può agire con violenza a causa della povertà, per onore, per opporre resistenza, a causa di esperienze infantili, punti di vista culturali, in virtù della mascolinità, ecc. Ma, di fatto, quando studiamo da vicino le situazioni di violenza, di ogni tipo, il modello generale che incontriamo ci indica invece che la violenza non ha luogo. La maggior parte dei soldati non spara; la maggior parte dei rivoltosi si tiene a distanza dal conflitto; la maggior parte dei litigi non va oltre le grida. Inoltre, nei pochi casi in cui si arriva alla violenza, la gente di solito non è molto efficace e competente durante lo scontro. La maggior parte delle pallottole sparate non raggiunge il bersaglio, oppure colpisce dei bersagli sbagliati – questo è vero non solo per i soldati, ma anche per la polizia o i criminali. La mia conclusione è che gli esseri umani, quando si trovano a compiere atti di violenza contro un’altra persona, si scontrano con una barriera creata dal confronto fisico, fatta non solo di tensione ma anche di paura. Questa barriera emotiva impedisce che ci sia effettiva violenza, oppure porta a un atto violento davvero inefficace. Ciò è dimostrato dal fatto che gli stessi poliziotti o soldati colpiscono molto bene i bersagli durante l'addestramento, ma poi mancano i bersagli, sparano più del necessario e dimostrano altri segni di grande tensione emotiva quando affrontano una vera situazione di violenza. Qual è l'origine di questa barriera emotiva? Non si può dire che essa faccia parte della cultura moderna, la quale inibirebbe la violenza. Nei documentari antropologici è possibile vedere che le persone si comportano allo stesso modo in un combattimento tribale: alcuni uomini si staccano dalla moltitudine di membri armati di una tribù e si lanciano verso il nemico, scagliano una lancia – di solito senza colpire il bersaglio – e si allontanano velocemente mentre gli altri non fanno altro che gridare. Tuttavia, queste sono le stesse persone che esprimono grande soddisfazione, supportata culturalmente, quando uno dei nemici viene ucciso. La mia conclusione è che la barriera di tensione creata dal confronto sia più profonda, ed essa è il risultato di caratteristiche di base dell’interazione reciproca tra gli esseri umani. Nel mio libro precedente, Interaction Ritual Chains (2004), dimostro attraverso dettagliate prove micro-sociologiche che quando le persone sono fisicamente vicine e focalizzano la loro attenzione sullo stesso oggetto, di solito tendono ad armonizzare ritmicamente i propri gesti. Il ritmo del discorso e dei movimenti corporali assumerà lo stesso andamento, la loro vicinanza emotiva assumerà toni più forti. Saranno coinvolti in ritmi emotivi e corporali condivisi vicendevolmente. Io lo definisco come un modello di sincronizzazione centrato su un focus ed emozioni condivise. È questa l’evoluzione di una teoria – ora supportata da recenti prove micro-empiriche – che fu formulata in origine da sociologi classici come Émile Durkheim, con la sua teoria delle cerimonie religiose, e Erving Goffman, con la sua teoria dei rituali della vita quotidiana. I rituali dell’interazione che hanno successo producono solidarietà sociale, e sono molto allettanti per gli individui perché danno loro energie emotive – fiducia, entusiasmo, sentimenti di forza.
Possiamo dunque vedere come le due forme di interazione – i rituali dell’interazione che producono solidarietà e gli scontri violenti – siano antitetici. Naturalmente, le persone possono avere molti motivi per scontrarsi con altra gente, e possono arrabbiarsi sul serio e voler usare violenza. Ma, quando si confrontano da vicino con la controparte, seguono la tendenza umana a sincronizzarsi con l'altra persona. Per questo esse provano emozioni contraddittorie, e tendenze letteralmente contraddittorie all’interno dei loro corpi. È appunto questo auto-conflitto corporale che porta alla tensione. Siccome le persone che si trovano a scontrarsi provano entrambe più o meno lo stesso carico di tensione, quasi sempre esse evitano di lottare e cercano di porre fine al conflitto molto presto. Se guardiamo i video di simili risse – che ormai si trovano in Internet – possiamo osservare come esse siano molto brevi, e le persone dopo poco tempo trovano subito una scusa per porvi fine. Quando si tratta di uno scontro armato, nella maggior parte dei casi gli spari non colpiscono il bersaglio, anche quando si è molto vicini. È la forte tensione che porta a questo risultato. Affinché la violenza possa avere successo, c’è bisogno che la situazione sia in grado di offrire la possibilità di aggirare la barriera della tensione creata dal confronto. Nel mio libro fornisco molteplici esempi di scappatoie. La più importante tra queste sta nel trovare una vittima debole – ovvero, nella specifica situazione immediata, una vittima che sia emotivamente debole.

Lei afferma, anche in un suo articolo su “Foreign Policy”, che gli attentatori suicidi, appartenenti al terrorismo islamico, provengono dalla classe media che socializza i suoi membri a condotte e disposizioni (come il self-control, l’insospettabile morfologia fisica, ecc) più idonee ad eseguire atti di violenza suicida. Ci può spiegare meglio il rapporto tra questa forma di violenza e la cultura della classe media? Le motivazioni di un attentatore suicida sono sganciate dagli interessi di classe? Se sì, fino a che punto?
Uno dei modi più insoliti per aggirare la barriera della tensione creata dal confronto è quello di far finta che non ci sia il conflitto, fino all'istante in cui la violenza si scatena. La maggior parte della violenza inizia con gesti, minacce, voci di rabbia, oppure altri modi per segnalare il pericolo. Di fatto, queste segnalazioni rappresentano principalmente un tentativo per intimorire il nemico, per far sì che egli eviti il conflitto. I kamikaze islamici seguono un altro metodo. Fingono di essere cittadini normali in una situazione abituale. Questo metodo è insolitamente efficace per arrivare allo scopo finale, cioè quello della violenza, dal momento che un kamikaze islamico arriva fino al bersaglio e non sbaglia – contrariamente a quello che succede per altri tipi di violenza. Perciò un kamikaze islamico è simile a un killer professionista – un killer a pagamento, che usa la stessa tecnica per non dare nell'occhio mantenendo uno stile di clandestina normalità, fino a quando non riesce a puntare la pistola alla testa della vittima posta a pochi centimetri di distanza.
In tal senso, l'approccio clandestino non è tanto una parte intrinseca della cultura della classe media quanto una tecnica sofisticata che fu inventata e si è diffusa attraverso le reti sociali. Possiamo notare che il killer professionista usa una tecnica simile, sebbene non appartenga alla classe media; ma lui fa molto meglio il suo lavoro, a differenza del solito guappo della classe operaia, il quale si distingue per il suo atteggiamento che è minaccioso ma non molto efficace, dal momento che riesce solo ad impaurire gli altri. Una volta che i gruppi politici hanno compreso una simile tecnica, essi hanno capito che le persone della classe media sono le migliori per portare a termine tali atti di violenza, e più sono persone rispettate meglio è. Ecco perché le donne sono apprezzate come kamikaze. Qui non si tratta di interessi di classe, ma solo di stili di interazione di classe. La maggior parte delle persone della classe media non è ideologicamente favorevole ai kamikaze, così come non lo è per gli altri tipi di violenza (eccezion fatta forse per i film che allestiscono una rappresentazione fantasiosa della violenza). I movimenti ideologici non sono strettamente collegati agli interessi di classe, e i movimenti più efficaci – per esempio i militanti islamici – riescono facilmente a reclutare persone in ogni classe sociale.

James G. Ballard, lo scrittore di science fiction, spesso nei suoi romanzi (High-rise, Millennium People, Cocaine Nights) ha costruito scenari in cui all’interno di contesti protetti o garantiti, tipici delle classi medio-alte, si producono situazioni che portano allo scatenarsi della violenza – come sfogo per le tensioni che si producono in gruppi chiusi, routinari, compressi. Ritiene che i suoi lavori abbiano una dimensione sociologica che va oltre le necessità della narrativa?
Non ho mai letto James Ballard. Ma sembra un modo altamente irreale di raffigurare la violenza. Questo non è un approccio insolito. Quando si ricorre a questi metodi irreali per rappresentare la violenza – e soprattutto la violenza che vediamo nei film o in TV – il risultato è poco credibile. Non riesco più a seguire i film violenti – mi sembrano ridicoli.

La teoria del rituale dell’interazione ci consente di esaminare i meccanismi attraverso cui si produce solidarietà tra i membri di un gruppo. Questo modello teorico come caratterizza, in termini di esperienza rituale, i gruppi terroristici legati all’Islam?
Come ho spiegato prima, i rituali dell’interazione hanno luogo in ogni aspetto della vita quotidiana. Ma questi rituali variano molto per intensità. Alcuni di essi – e Goffman li ha studiati molto approfonditamente – sono molto brevi, solo occasioni minori di sincronizzazione. Alcuni rituali dell’interazione non hanno successo, e producono un rifiuto da parte dei partecipanti. Alcune interazioni si fanno perché si devono fare, e la gente partecipa all’attività condivisa ma, dal punto di vista della partecipazione emotiva, non si armonizza o si sente costretta e a disagio. Invece, altri rituali sono prolungati, e raggiungono alti livelli di armonia emotiva. Questi rituali producono sentimenti molto forti di solidarietà. In più, sono questi tipi di rituali che creano e riproducono forti credenze culturali. Se un gruppo può isolarsi e portare avanti rituali che si ripetono e che producono emozioni forti, i partecipanti si sentiranno pieni di energia, e si sentiranno anche moralmente molto corretti. I gruppi ideologici di maggior successo sono quei gruppi che praticano questi tipi di tecniche rituali.

C’è una similitudine (in termini di simboli, intensità, densità, ecc.), all’interno di un ipotetico conflitto tra Oriente e Occidente, tra i rituali di solidarietà dei gruppi che parteciperebbero a tale conflitto e che in virtù di esso si cementano? Gli stessi concetti, forse artificiosi, di “Oriente” e “Occidente” possono essere considerati veri e propri simboli intorno ai quali si crea un sentimento emozionale comune tra i membri dei gruppi, orientandone una eventuale mobilitazione?
Sì, possiamo dire che qualsiasi gruppo fortemente mobilitato è simile, per quanto riguarda il livello di base delle tecniche sociali che usa. È importante ricordare che i contenuti delle credenze di un gruppo sono supportati dall'intensità emotiva dei suoi rituali. I contenuti delle credenze diventano ciò che Durkheim ha chiamato un "oggetto sacro", un simbolo collettivo che rappresenta l’appartenenza al gruppo. Ecco perché gruppi altamente mobilitati, anche se sono simili per quanto riguarda la struttura e le regole, sono comunque molto diversi tra di loro – hanno diversi simboli collettivi, considerano sacri oggetti diversi. Qualche volta gli oggetti sacri vengono costruiti per essere completamente antitetici tra di loro. Ognuno d’essi diventa un "oggetto sacro e negativo" per un altro d’essi, come Dio e il Diavolo. Per alcune persone, l’Est e l’Ovest diventano tipi simili di simboli opposti, di dicotomia conflittuale.

Lei sostiene che esista una sorta di necessità sociale del crimine, dal momento che “il crimine e le sue punizioni sono una parte fondamentale dei rituali che sostengono ogni struttura sociale”, che il crimine è utile per affermare le norme e le credenze sociali, vale a dire le norme e gli ideali che legittimano la gerarchia sociale ed il potere dei gruppi dominanti. Ci può spiegare il suo pensiero in maniera più dettagliata? E quale può essere, secondo lei, il ruolo svolto dai prodotti narrativi (film, romanzi, ecc.) in questa sorta di “processo ideologico”?
Veramente qui ci si riferisce alla teoria classica di Durkheim sul crimine. Egli sosteneva che la punizione dei criminali è un rituale. Di solito aiuta poco a controllare i delinquenti o a limitare i crimini, ma i cittadini normali si sentono molto soddisfatti quando sanno di queste punizioni, e si sentono moralmente scandalizzati quando un criminale non è punito. La ricerca criminologica sulle forme di punizione è vasta, e naturalmente sono venute alla luce diverse complessità. Ma, secondo me, si può dire che c'è un forte elemento ritualistico nelle punizioni. Inoltre, Durkheim parla della necessità sociale del crimine, nel senso che la società inventa sempre nuovi crimini, perché ha bisogno di compiere questi riti punitivi. La società vuole sempre qualcuno da punire. È possibile scorgere tutto ciò nei vari tipi di divieti criminali – prima l'alcool, ora la droga, e sempre di più il tabacco; e in qualche caso, anche scandali di sesso che coinvolgono politici e prostitute negli Usa. Naturalmente, i diversi paesi sono differenti in tal senso, perché hanno diverse storie di repressione o liberalizzazione. 
Che c'entra la finzione in tutto questo? Tale questione non è stata studiata molto. La mia idea è che la finzione non sia tanto un’esperienza vicaria quanto una cornice sociale che rappresenta una realtà a cui i fruitori partecipano pur sapendo che non fa parte della vita quotidiana. L'esistenza stessa del televisore, lo schermo al cinema e le pagine fisiche di un libro rappresentano una diversa cornice esperienziale, che distingue i suoi contenuti da quello che ci succede nella vita quotidiana. Così i crimini e la punizione (o la mancanza di punizione, il farla franca, ecc.) vengono rappresentati principalmente attraverso un’azione drammatica all'interno di una cornice irreale. Per rendere interessante la finzione, c’è bisogno di tensione narrativa, di azioni drammatizzate, e i conflitti rappresentano la forma d’azione più drammatica. Ad un basso livello culturale, si tratta solo di azione fisica e di violenza – come ho già detto, molto inaccurata se la paragoniamo alla violenza reale. D'altro canto la violenza vera non è divertente se la osserviamo per come essa è effettivamente. Ad un livello culturale più elevato, il dramma si sposta verso conflitti di tipo più emozionale. È importante notare come le differenze tra le classi sociali siano legate al livello di finezza o sofisticazione del tipo di tensione drammatica che esse vogliono consumare.

Uno dei punti centrali della sua teoria è l’idea del rituale come fondamento della solidarietà e della compattezza dei differenti gruppi sociali. Lo schema formale del rituale prevede che un gruppo di persone condivida lo stesso luogo fisico (una chiesa, un convegno politico, ecc.), un focus d’attenzione, un’energia emotiva armonica e degli oggetti o dei simboli. Ogni individuo si carica dell’energia e dei simboli d’appartenenza che poi porta con sé nella sua quotidianità. Come si concilia la centralità del rituale sociale, che prevede nel suo modello formale l’importanza della riunione fisica, con il fatto che una buona parte delle nostre esperienze sia oggi mediata dai mezzi di comunicazione (TV, Internet, ecc.) che creano forme particolari di condivisione di esperienze e partecipazione collettiva anche se si è fisicamente distanti o disgiunti? L’impatto dei media, creando nuove situazioni sociali, può modificare la definizione dei gruppi o fornisce solo esperienze sussidiarie? E che ruolo può giocare, secondo lei, la diversa proprietà dei mezzi di produzione simbolica rispetto ai vari media, come la Tv o Internet, anche nella definizione del potere e della stratificazione?
Questo aspetto della mia teoria è stato ultimamente discusso molto da vari studiosi. Stiamo vivendo una rivoluzione tecnica che rende le esperienze mediali e riesce ad allontanarci dal contatto fisico diretto. Richard Ling ha appena pubblicato un libro intitolato Mediated Ritual Experience, dove espone la sua ricerca sui giovani e su come essi usano i telefonini. Ling sostiene che la solidarietà rituale è possibile attraverso questi mezzi di comunicazione, sebbene questi giovani vogliano incontrarsi anche faccia a faccia, e usino i telefonini soprattutto per fissare appuntamenti. Perciò, i mezzi di comunicazione e l'incontro faccia a faccia tendono a formare una catena, e si aiutano a vicenda nella sua realizzazione. Questa ricerca tende anche a dimostrare che questi rituali mediati sono meno intensi degli incontri faccia a faccia; è una questione di grado, non una differenza assoluta. In un altro libro che ho scritto, The Sociology of Philosophies (1998), ho dimostrato che importanti intellettuali, in tutte le epoche, sono stati legati molto intensamente tra di loro attraverso reti sociali. E queste reti sociali sono sempre uguali, dai tempi antichi quando tali intellettuali dibattevano tra di loro, fino allo sviluppo dei libri e della stampa. La mia conclusione è che, pur con l'avvento di Internet, gli intellettuali che hanno contatti tra loro solo attraverso Internet sono svantaggiati in confronto a quelli che hanno contatti faccia a faccia. L'interazione personale è un modo molto più forte per convogliare un’emozione, e ciò influisce sul modo di interiorizzare le idee, dal momento che le idee viaggiano con più forza quando sono accompagnate dalle emozioni. Insegnanti famosi continueranno ad avere allievi famosi che apprenderanno da loro ascoltandoli di persona, anche se molta altra gente può scovare le loro idee su Internet.

Nei suoi studi su genere e stratificazione sociale lei sembra sostenere l’idea secondo cui quanto più una donna riesce a rivendicare con successo la parità sessuale nel mercato del lavoro, tanto più otterrà una condizione di effettiva uguaglianza in famiglia. La eguale partecipazione di uomini e donne al sistema produttivo è l’unica variabile che incide sui rapporti di potere interni alla coppia? Il suo modello del rituale può essere utile per comprendere l’emergere di una coscienza femminista? E che ruolo possono aver avuto le tecnologie, ad esempio gli elettrodomestici che hanno affrancato la donna da parte del lavoro domestico o la televisione che ha consentito la partecipazione della donna a culture ed identità in genere esclusivamente maschili?
Sì, ci sono molteplici fattori all’opera in questo caso. L’effetto più importante del fatto che le donne trovano occupazioni ben retribuite all’interno della forza lavoro è che, in confronto alle condizioni del passato, molte donne oggi non dipendono economicamente da un uomo – marito o padre – e quindi sono libere dalle catene delle mura domestiche. Così si sono liberate anche dei rituali domestici, che tendevano ad avere un effetto ideologico sul modo di pensare delle donne – era tradizionalmente questa la principale identità ritualistica che legava le donne alle loro famiglie, al loro stato sociale e alla loro religione. La mobilitazione di giovani donne per compiere i propri rituali al di fuori della famiglia (spesso in ambienti educativi, oppure nei contesti degli incontri del loro movimento sociale) era al centro delle ondate di femminismo nel ventesimo secolo. Per quanto riguarda la tecnologia, le attrezzature domestiche hanno portato ad un risultato ambiguo, dal momento che grazie a queste attrezzature aumentarono gli standard del lavoro femminile utili a rendere socialmente rispettabili le condizioni della casa, e ciò significò in molti casi un aumento dei lavori domestici nella metà del secolo scorso – soprattutto negli anni Cinquanta. Gli effetti di una nuova tecnologia sono sempre subordinati alle interazioni sociali. Noto che oggigiorno i giovani più emancipati – almeno negli Usa – tendono a rifiutare l'idea di una casa graziosa; c'è la tecnologia per rendere la casa pulita e in ordine, ma l'ideale culturale va nella direzione opposta. È una specie di antinomia culturale contro l'aspetto tradizionale della casa.

In Italia, come verosimilmente negli Usa, è sempre molto attuale la polemica sull’aborto. Nel suo libro Sociological Insight, da poco uscito in Italia con il titolo L’intelligenza sociologica, lei fornisce una interessante analisi del movimento antiabortista, delle caratteristiche rituali e simboliche di questo gruppo, della sua esigenza di riconquistare potere in quanto élite in difficoltà, del suo antimodernismo, ecc. Ci può fornire un’illustrazione sintetica delle sue profonde intuizioni in merito?
Il movimento antiabortista sembra aver ormai abbandonato il suo picco massimo negli Usa. Ha avuto un forte impatto simbolico perché ha rappresentato la difesa della famiglia e della sua moralità tradizionale; dall'altro lato c'è stata la "scelta", che è diventata lo slogan del movimento femminile, il quale ha raggiunto il suo successo mobilitando le donne contro il tradizionale ambiente domestico. La scelta nell’ambito del comportamento sessuale non vuol dire solo la possibilità di decidere di abortire, ma anche, nel più ampio contesto simbolico e pratico, che la donna può scegliere come  gestire la propria vita sessuale. Ciò implica che le donne possono fare ciò che prima solo gli uomini potevano fare, cioè avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio e a prescindere dalla volontà di avere un figlio. Questa battaglia è già stata ampiamente vinta negli Usa, e il movimento antiabortista è una specie di retroguardia del tradizionalismo. Oggigiorno il fronte della battaglia si è spostato verso altre dispute simboliche, per esempio il matrimonio tra gay. 
Da una prospettiva durkheimiana, come ho detto prima, le controversie non finiscono qui. I conflitti rituali di natura simbolica continueranno a vivere, probabilmente fino alla fine dell'umanità.
 


Traduzione dall’inglese di John Crockett