Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie Giuseppe Ungaretti L’influsso potente di Philip K. Dick sull’immaginario contemporaneo
si estende ben oltre i soggetti forniti per la realizzazione dei
numerosi film tratti dalle sue opere. Le ipotetiche visioni, “as if” views,
o lucide profezie dickiane, riversandosi dalla finzione narrativa ai
processi reali, hanno nutrito una produzione cinematografica stagliata
sugli orizzonti del connubio simbiotico tra l’uomo e la tecnologia,
dell’inserimento del corpo umano nel panorama mediatico, della
dissolvenza del naturale nell’artificiale e della dissoluzione del
reale consuetamente esperito nelle illusorie immagini offerte dai mezzi
di comunicazione. Nel bisogno di penetrare nei meandri della
coscienza, non rimanendone tuttavia prigioniera, nell’ansia irrisolta
di fissare i tratti della Storia, nonostante la sua perenne
instabilità, e nell’assiduo e pensoso scrutare l’uomo e il suo crearsi,
la narrativa dickiana non soltanto rispecchia in maniera critica la
realtà sociale, in particolare rivolgendo un’attenzione morbosamente
dubbiosa al progresso, ma raccoglie il flusso informe del magma vitale,
traducendosi in una teoria dell’esistenza che posa lo sguardo sulle
tensioni dell’agire, sulla permanente corruttibilità della materia e
sul katastrophikòn in cui si contrae il tempo ingordo e predatore. L’indagine dickiana sonda le profondità, spesso sconosciute, dell’inner space
(Fattori, 1995, p. 52), scosso da radicate paure e nebulosi desideri,
istintuali pulsioni di un’umanità che, attrezzandosi con la tecnologia,
progredisce per sconfiggere la propria debolezza, ricolonizza
il vissuto per affermare la propria forza, si trasforma molecolarmente
e sussume quantitativi sempre più massicci di informazione nel sé
concreto della carne, per imprimere un ritmo prolungato al ciclo
biologico, per comprenderne e controllarne le scansioni. I
protagonisti dickiani, sradicati dalla dimensione spazio-temporale che
segna la realtà ordinariamente percepita, appaiono come tirati da fili
che tendono a spezzarsi quanto più sembra di aver colto la vita in un
punto preciso, di averne carpito il fine, sia pure caduco, il senso,
sia pure effimero, la destinazione, sia pure transitoria. La marionetta
di Dick non è più solo destinata a svolgere la funzione di last man in Europe, come accade nell’opera orwelliana (Panella, p. 55), ma trascende al drammatico ruolo di cosmic puppet.
Non è data infatti alla conoscenza umana la possibilità di afferrare lo
sfuggente reale, mentre lo scenario rimane invariabilmente quello del tempo fuori luogo degli infiniti multiversi, dell’oscuro scrutare che illude e tradisce, del labirinto di morte che intrappola e soffoca e dell’artista di scarti, che, in questa dimora terrena, non può far altro che
conservare e attendere: “la realtà, per me, non si percepisce, si crea.
La si crea più di quanto lei crei noi. L’uomo è la realtà che Dio ha
creato dalla polvere; Dio è la realtà che l’uomo ricrea continuamente
per mezzo delle proprie passioni e della propria determinazione. Il
‘Bene’, per esempio, non è una qualità o addirittura una forza che stia
dentro o sopra il mondo, bensì ciò che si riesce a fare con le schegge
e i frammenti insensati, inquietanti, deludenti, crudeli e persino
letali che ci circondano e ci appaiono come pezzi dimenticati,
scartati, di un mondo completamente diverso che, forse, aveva un senso”
(L’androide e l’umano, in Mutazioni, p. 246). Uno dei romanzi americani più significativi del Ventesimo secolo, Confessions of a Crap Artist (Williams,
p. 14), fu scritto da Dick nel ’59 e pubblicato nel ’75. Nel 1992 fu
presentata a Cannes una sua trasposizione cinematografica abbastanza
fedele col titolo Confessions d’un Barjo, diretto da Jérôme
Boivin, e sceneggiato da Jacques Audiard e dallo stesso regista, film
sperimentale che ottenne un discreto successo di critica, ma non
suscitò l’interesse delle distribuzioni ufficiali. Caratterizzata da
un’atmosfera sospesa tra il divertimento surreale e il dramma
esistenziale, la pellicola intreccia la tensione metafisica della
produzione dickiana alla trama del microcosmo domestico, trasportando
la storia dalla società americana della fine degli anni Cinquanta a
quella francese dell’inizio dei Novanta. Questa ricontestualizzazione
testimonia, ancora una volta, l’ineludibile potenzialità degli scritti
di Dick di rivelarsi puntualmente in ogni traduzione comunque attuali e
di offrirsi generosamente a duttili ridefinizioni, grazie all’urgenza
interpretativa che li anima, alla consapevolezza ultima
dell’impossibilità di accedere a una verità conclusiva e alla
profondità burrascosa di riflessioni relative alle assurdità fondamentali
della vita: “La mia opera di scrittore, in toto, rappresenta il mio
tentativo di prendere la mia vita, e tutto quanto ho visto e fatto,
riplasmarla in modo da conferirle un senso. Non sono certo della mia
riuscita. In primo luogo, non posso falsificare quello che ho visto.
Vedo disordine e sofferenza, e non posso non scriverne; ma ho visto
anche coraggio e ironia, e quindi ci metto anche questo” (Introduzione a The Golden Man, in Mutazioni, pp. 127-128). Le
ipotesi che riguardano i “massimi sistemi, il destino del mondo, […] le
scelte abissali che i personaggi sono chiamati di volta in volta a
compiere” (Di Costanzo) investono il romanzo e il film, orientandone il
contenuto, permeato dell’umorismo insinuante del tono narrativo, spesso
di vibrato riepilogo, che rende lieve il canto della solitudine, ma non meno incisivo il racconto della pena di vivere, percorso da una carica emotiva scoperta e costante. Sia
Dick sia Boivin non sembrano voler commentare le vicende, ma nello
stesso tempo non si pongono al di là della storia, aderiscono
completamente ai personaggi anche se al contempo se ne distaccano, come
si può evincere dai discorsi mentali che si dipanano liberamente, per
poi intrecciarsi indissolubilmente nei tradizionali soliloqui, che
trascorrono senza soluzione di continuità nello stream of consciousness,
e nei monologhi riprodotti dal narratore. Le vicissitudini
acquisiscono, per ognuno dei protagonisti, un senso differente
attraverso gli spiazzamenti, i ribaltamenti di prospettiva, i
capovolgimenti di valore, e la storia raccontata da Dick, pur
dispiegandosi con assoluta leggerezza, risucchia gli individui nel
gorgo di umani, troppo umani accadimenti d’amore e morte. Fay, tanto
sensuale quanto aggressiva e insensibile, è tormentata dalle tipiche
nevrosi delle donne borghesi, il marito Charley, pragmatico e incolto,
prototipo dell’American self-made man, è torturato da un
malessere interiore che diventa insostenibile, Nathan, giovane e
spaesato intellettuale, si allontana da una moglie innamorata per
lasciarsi stregare dalle lusinghe erotiche dell’affascinante Fay, e il
fratello di quest’ultima, Jack, l’artista del titolo, ricrea le forme
di vecchi pneumatici, colleziona originali cianfrusaglie e crede in
Atlantide, nelle percezioni extrasensoriali e nell’imminente fine del
mondo. Il crap artist Jack Isidore di Seville, California,
fa rivivere, nel nome e nelle eccentriche aspirazioni, Isidoro di
Siviglia, autore medievale spagnolo di un’enciclopedia di trentacinque
pagine, forse la più piccola mai composta, considerata un capolavoro di
compilazione erudita per un periodo di tempo, come ritiene lo stesso
Dick, “dannatamente lungo” (Williams, p. 12). Jack, come Barjo, è
attratto da un’informazione-spazzatura ridotta a brandelli, a frammenti
di notizie senza fondamento, a cascami di sapere e a detriti di
pensiero, riverbero culturale della vorace corruttela, dell’onnivoro
disordine che scompone l’universo dickiano rosicchiandolo, accumulando
polvere radioattiva, fanghiglia dilagante, avanzi putrescenti e liquame
stagnante. Nel nome del crap artist risuona anche la presenza
di un altro Isidore, John, lo “speciale” dall’inetto apparato sensorio
e dalla psiche minata, prodotto della contaminazione nucleare di Do Androids Dream of Electric Sheep?,
unico personaggio di questo romanzo a non essere sicuramente un
androide, un umano contraffatto, che, nella propria disperata
solitudine, cela l’ultima difesa dell’autenticità umana. Eroe clownesco dall’anima immacolata, smarrito in un idios kosmos
assolutamente scevro di preconcetti e totalmente immerso nella
frammistione di autentico e immaginario, Jack, così come viene
descritto in una lettera di Dick del 19 gennaio del ’75, appare
“incapace di distinguere il dato concreto dalla fantasia: vede il mondo
attraverso i propri occhi come un’esperienza bizzarra e
indimenticabile. Non è un personaggio nella tradizione dei famosi
‘idioti’ di Faulkner e Dostoevskij; la sua idiozia è abbastanza vicina
alla nostra normalità da spaventarci” (ivi, p. 9). Come la prospettiva principale nel libro è quella di Jack, così nel film il commento off
è affidato a Barjo, avvezzo a interrompere i dialoghi con i suoi
pensieri e con la lettura dei suoi appunti, annotati compulsivamente,
frutto di meditazioni riguardanti l’umano comportamento, flusso
coscienziale inesauribile, che aiuta a costruire gli avvenimenti,
slargandone i confini temporali. L’attore Hyppolyte Girardot interpreta
lo stravagante personaggio del titolo, che, dopo aver accidentalmente
incendiato la propria casa durante un esperimento, è costretto ad
andare a vivere con la sorella gemella, Fanfan, e suo marito Charles,
proprietario di una fabbrica di alluminio. Nella nuova abitazione,
Barjo, proprio come Jack, mantiene le proprie confusionarie abitudini,
come catalogare vecchie riviste, sperimentare bizzarre invenzioni,
aspettare gli extraterrestri e riflettere riguardo alla prossima
distruzione della Terra. Le cronache di questo personaggio naïf, che
osserva attentamene gli individui che orbitano intorno alla propria
sfera, raccontano dei frequenti scontri tra Fanfan e Charles, e vengono
utilizzate dal regista, sulla falsariga di Dick, come singolare punto
di vista per rappresentare, da un’ottica ingenua e inusuale,
l’insormontabile difficoltà dei rapporti tra uomo e donna. La
disarmante visuale di Barjo-Jack, tingendosi di amara comicità, offre
una “caleidoscopica galleria degli orrori” (Caramiello, p. 163)
attraversata da ipocrisie e tradimenti, da una sessualità
impietosamente votata all’annullamento dell’altro, anche quando è
vincolata alla conciliante istanza riproduttiva, e dalle ottenebranti
menzogne, a tratti rischiarate da flebili barlumi di verità mai
definitivamente tali, rivelate dall’acida descrizione dickiana di cui
Boivin non esita ad appropriarsi.
Disadattato e incompreso, incapace di entrare nel gioco che la vita
spietatamente gli offre, di sperimentarne le passioni, incapsulato nel
bozzolo della propria costituzionale inettitudine, Barjo-Jack
simboleggia dunque un’esemplarità di modesta portata, non manifestata
dal gesto straordinario, ma dall’esaltazione del quotidiano, che si
riconosce nella confessione continua dello stato d’animo, nel racconto
della coscienza in fieri e del sentimento del tempo umano.
Definito da Dick “uomo indulgente, capace di valutare senza pregiudizi
[…] il cuore e le azioni di uomini come lui, […] una specie di eroe
romantico” (Williams, p. 14), il barjo crap artist si
mostra forse più adatto a ricordare emblematicamente il progressivo
sfarinamento della soggettività romantica nel mito dell’uomo decadente,
avviluppato nel proprio solipsismo, ripiegato in una tenace
introspezione, stretto in un’instancabile analisi dello spazio
interiore esplorato a un livello di superficialità solo apparente, che
finisce per palesare i germi di un orrifico sfacelo. L’alieno,
fondamentale figura nell’opera di Dick, viene così a costituire in
questa storia, sia sulla pagina scritta sia sullo schermo, una sorta di
“congettura mitologica”, una forma di materializzazione, di proiezione
nel vuoto degli archetipi dell’inconscio collettivo (Jung, 1958, pp.
174-178), quelle immagini arcaiche, primordiali, appartenenti al
patrimonio comune dell’umanità, risultato di esperienze ricorrenti
nella vita, come la nascita, la fuga dal pericolo o la morte (Id.,
1934/1954, p. 17). Serie di ologrammi proiettati che agiscono come
trasformatori, trasduttori di creature universal-oniriche (Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, p. 266), contenuto subliminale divenuto visibile, insorgenza dell’“inconscio filogenetico” (Dall’Esegesi, ivi,
p. 361), epifania di inquietanti misteri nascosti nella psiche
collettiva umana, la presenza aliena si caratterizza come simbolo
dell’irruzione dell’incomprensibile nel territorio della realtà
ordinaria, e dallo spazio esterno affiora come alienazione nello spazio
interno. Nel formicaio delle esistenze, “ombre che fluttuano nell’aria, dirette verso il nulla” (Confessioni di un artista di merda, p. 60), si transita verso realtà parallele, mondi alternativi, universi altri, che nelle Confessions di
marca americana e francese sono dominati dai ritratti sovrapponibili di
Jack e Barjo, abitanti di una riserva non tanto protetta di cui sono al
contempo demiurghi e destinatari: entrambi, assorti nella reiterata
riflessione, non si scagliano contro la prossimità della fine,
attendendo invece con rassegnata trepidazione l’ineluttabile avvenire
di estinzione cui è condannata l’umanità, la pervicace opera di
fagocitosi che satanicamente corrode materia ed energia, per poi
rendersi conto di essersi sbagliati, che il mondo non sarà cancellato,
non subito almeno, e riuscire a sopravvivere a questa straordinaria
presa di coscienza. Nel conflitto tragico con la realtà brutale
della vita balenano patetici guizzi superomistici, che celebrano, con
inerme e donchisciottesca disperazione, la volontà di liberazione
suprema dall’inanità del vivere, se mai affrettando i tempi, contraendo
quella parabola della quale qualcun altro sembra possedere
l’intelligenza complessiva, agendo attraverso la sussunzione
titanicamente soggettiva dell’inesorabile dissipazione,
realizzata dal suicidio rivelatore di Charley: “Vi fu una luce, invece
di un suono. Lui vide, per la prima volta. Vide tutto. Vide come lei
[Fay] lo aveva manovrato, come lo aveva portato a quel punto. Vedo, si disse. Sì, vedo. Morendo comprese tutto” (ivi, p. 197). Le
velleità titaneggianti, che, a volte, sferrano un’accanita e inutile
lotta alle imperscrutabili forze che deteriorano, alla finitezza umana
e all’invalicabilità di quel limite, contrastano al contempo la
segreta voluttà di essere annichiliti, la pulsione di morte coltivata
gelosamente dall’individuo e dall’umanità intera: “attratto da tutto
ciò che [può] portarlo fuori da sé, in una dimensione in cui la sua
identità [perde] i contorni per riconoscersi nella molteplicità di un
nulla trascendente, [Dick finisce, così, attraverso tutta la sua opera]
per trasformare la fantascienza in una parabola sull’incubo terminale
dell’universo – quello di riprodursi, espandersi, moltiplicarsi,
dissiparsi fino a un’estatica cancellazione dei propri confini”
(Brolli, pp. VI-VII). D’altro canto, la cultura dickiana
dell’apocalisse (Pagetti, p. 7), e la sua traduzione nel cinema, che
utilizzi o meno i canoni della science fiction e che preveda o
meno una palingenesi della nostra Terra, rimanda a quella fondamentale,
perversa capacità di sopravvivere adattandosi, il più forte potere
posseduto dall’uomo: e “non di sopravvivere come bestie, bensì come
autentici esseri umani che fanno cose autenticamente umane” (Introduzione a “Dr. Bloodmoney”, in Mutazioni,
p. 116), continuando a condurre l’esistenza in paesaggi infernali
attraversati da catastrofi variamente declinate. Le fiere delle
aberrazioni dickiane, oltre ad esibire masse aggrovigliate di organi e
carne mutanti, mostri umanoidi dotati di piume, scaglie e code,
creature dallo sguardo triste che sbirciano dal corpo di altri esseri,
infecondi “vicoli ciechi” (E Jones creò il mondo, pp. 32-33),
offrono alla vista oscene carrellate di morte, con animali domestici
accasciati, intenti fino a un attimo prima a brucare placidamente, per
poi essere inchiodati improvvisamente al suolo dalla pistola impazzita
di un uomo tradito, tra disperati nitriti, striduli belati e strazianti
mugolii (Confessioni di un artista di merda, pp. 190-194).
L’ironia dissacrante e demitizzante delle Confessions, in versione sia letteraria sia cinematografica, non diluisce dunque l’orrore di un quotidiano unheimlich,
non domestico né familiare, contro cui l’unico rimedio appare proprio
il totale annientamento, come sembra voler suggerire tristemente Dick,
quando nell’ellittica conclusione di Seth Morley, personaggio di A Maze of Death,
ribadisce il valore di quella che epistemologicamente e ontologicamente
si presenta come la sola realtà possibile: “Our only comfort. Death”. E
proprio quella levità umoristica, che non stempera però le tinte cupe
delle oppressive visioni dickiane, sembra proporsi, sia nel libro sia
nel film, come forma di sconsolata salvezza, vista la vanità
dell’azione umana, come espressione di una saggezza senza
conforto di fronte alle ragioni incontrastabili dell’esistenza, come
unico, esile ancoraggio rispetto al naufragio cosmico della vita, che,
nonostante i calcoli dell’umana intelligenza, descrive imprevedibili
percorsi, lasciando all’uomo la percezione della pericolosità
dell’errore e dello scompenso tra progetti e risultati, mentre il
terreno della pratica si sgretola sotto il piede che avanza per
calcarlo. Contro la vittoria dell’indecifrabilità dell’esistenza a
nulla valgono le mistificazioni, le illusioni, le evasioni, perché
sempre l’indomabile mistero denuda e pone crudamente dinanzi alla
sconfitta. E a nulla vale l’infinita ricerca di un senso, di un senso
ultimo, scandagliando i recessi della vita interiore di un uomo che,
svestito delle sue spoglie individuali, assurge a simbolo
rappresentativo di una condizione che impone un sofferto trapasso senza
riscatto. Durante l’attacco di cuore di Charley, foriero di
raccapriccianti sventure, assistiamo sgomenti ai tentativi di
immersione della vita, non ancora esaurita, nella terra: “Poi cadde in
avanti, e mentre cadeva allungò le mani verso il terreno, poi ve le
affondò dentro e le strinse. Strappò pezzi di terra, se ne riempì le
mani, li mangiò e li bevve, e ne respirò l’odore, ma perse il respiro,
tentando di mandarli giù, dentro i polmoni. E dopo non riuscì a fare
più nulla” (ivi, p. 91). Come in un gioco di dissolvenze, ci
sorprenderà, poi, il riaffiorare della vita esanime, il suo rinascere
dalla fossa, tra quei fiori rinsecchiti e quelle erbacce ammuffite del
cimitero di Forest Knolls, avvolto dalle entropiche ombre di Counter-Clock World.
E ci stupiremo, infine, quando la vita stessa si tramuterà nel suo
contrario, per risorgere potentemente, ancora una volta, dal suolo,
insieme all’azzurro e spettrale “fiore del futuro” (Un oscuro scrutare, p. 327), che dissemina degenerazione e disperde esistenza, la Substance Death di A Scanner Darkly. Tutta
la produzione dickiana, come Boivin sembra acutamente cogliere, è
attraversata dalla vibrante ripercussione del vuoto: “nulla di ciò che
potevano fare aveva importanza. Erano ormai polvere radioattiva, tutti
quanti. Solo manciate di polvere bruciata, nera e radioattiva” (Confessioni di un artista di merda,
p. 147). Jack-Barjo dunque è costretto a rinunciare a garanzie di
comodo, come quelle che si fondano sull’idea di potersi affidare a una
qualche forma di provvidenzialità, razionalità o necessità: non leggi,
né logiche conseguenze di principi sono alla base degli eventi, che si
verificano senza regolarità, e dei quali inutilmente si ricerca la
causa nei salti di una temporalità discontinua, scardinata, out of joint, o addirittura invertita, upside down,
che dunque non procede linearmente, ma per rotture e capovolgimenti. Le
forze cosmiche militano contro l’immutabilità della rutilante realtà,
e, con lo sgretolarsi delle costruzioni simbolico-culturali, fugaci e
deperibili, l’individuo dickiano si trova improvvisamente ad affrontare
il problema di trattare con il mondo al di là del suo Io, del suo
consueto sé sociale, e di patteggiare, quindi, con l’altro: il
soggetto, incarnato efficacemente da Jack-Barjo, destinato fatalmente
alla dissoluzione, diviso dall’ambiente, tende, con tutta probabilità,
a divenire sempre più diviso anche da se stesso, sempre più
disintegrato e sempre più alienato (Taylor, pp. 296-297). Come
tutti i romanzi animati da principi etici di affievolita risonanza
metafisica, ma radicati nei movimenti e nelle esperienze di vita, Confessions of a Crap Artist, proiettando i suoi potenti riverberi sulle immagini delle Confessions
cinematografiche, consuma interamente il proprio significato nel modo
stesso in cui inizia: “Io sono fatto di acqua. […] Anche i miei amici
sono fatti di acqua. Tutti quanti. Il nostro problema è che non solo
dobbiamo andarcene in giro senza essere assorbiti dal terreno, ma anche
che dobbiamo guadagnarci da vivere. In realtà c’è un problema ancor più
grosso. Dovunque andiamo non ci sentiamo a casa nostra. Perché?” (Confessioni di un artista di merda, p. 15). Dall’incipit, ricorso a una tragedia che continua incessantemente a compiersi, l’autore sortisce un epilogo epico,
non conciliante come quello del film, ma che, non ignorando lo
spaesamento prodotto da un’impotenza così ingiusta, induce a
interpretare il romanzo alla luce delle parole conclusive di Jack,
pronunciate dopo aver deciso di servirsi dell’aiuto di uno psicanalista
selezionato grazie a un calcolo delle probabilità di successo
terapeutico: “Sulla base delle mie scelte passate, mi sembra piuttosto
evidente che non posso fidarmi del tutto della mia capacità di
giudizio” (ivi, p. 248). Tutto riprende allora a giocarsi sul
proposito di un ricominciamento più responsabile della vita, sulla
coscienza dell’inesistenza di quella che potrebbe esser definita una
fondamentale sicurezza epistemologica, che non distrugge però la
motivazione all’azione, e sulla consapevolezza dell’assenza di certezze
ontologiche, legata nel brulichio del microcosmo allo scacco biologico
e nel ribollimento del macrocosmo alla propulsione entropica (Frasca,
1989, p. 81). Jack-Barjo, uomo assolutamente marginale, outsider
dall’anima contemplativa, che sembrerebbe soccombere alla morsa feroce
della quotidianità che lo attanaglia, antieroe, che ossessivamente
cerca di reperire un significato in qualsiasi accadimento, si adopera
come può nel processo di ricostruzione di un senso sempre penultimo
da attribuire all’insensata infinità dell’esistenza, non solo per
registrare la realtà, ma per contribuire a produrla, almeno
provvisoriamente, come struttura logica, attraverso l’osservazione
attenta delle storie possibili delle caduche individualità creatrici di valori, chiamate, di volta in volta, a ridisegnare direzioni, riconfigurando destinazioni. Nel
dolente e straziato tentativo di decifrare le irrisolte ambiguità e nel
pertinace e maniacale accumulo di scorie del vissuto, l’eccentrico crap artist, solitario barjo,
presente alla propria fragilità, ma non meramente appiattito sul
rischio dell’esistere, aspira a superare il movimento caotico
dell’accadere storico e ad affrontare la labilità della sorte umana. Si
ricapitola dunque dalle origini, e, pur incarnando un sogno
d’innocenza, aderisce fedelmente al reale, mantiene il contatto con i
contrasti del concreto, non se ne allontana con artifici mistificanti,
ma accetta uno stato di perenne precarietà, sentendo il tempo e
l’effimero in relazione con l’eterno, nell’ansia costante
dell’impossibilità di un definitivo ancoraggio conoscitivo e
dell’ineludibilità di un’essenziale, imperitura finitudine.
:: letture ::
opere citate di Philip Dick
The World Jones Made, 1956, trad. it. di Fefè S., E Jones creò il mondo, Fanucci, Roma, 2001.
Counter-Clock World, 1967, trad. it. di Prezzavento P., In senso inverso, Fanucci, Roma, 2001.
Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968, trad. it. di Duranti R., Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Fanucci, Roma, 2000.
A Maze of Death, 1970, trad. it. di Curtoni V., Labirinto di morte, Fanucci, Roma, 1994.
Confessions of a Crap Artist, 1975, trad. it. di Nati M., Confessioni di un artista di merda, Fanucci, Roma, 1996.
A Scanner Darkly, 1977, trad. it. di Frasca G., Un Oscuro Scrutare, Fanucci, Roma, 1998.
The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, (edited by Lawrence Sutin), 1995, trad. it. di Pannofino G., Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano, 1997. altre letture
Brolli D. Istruzioni per l’uso, in Dick Ph. K., Vedere un altro orizzonte, Bompiani, Milano, 1995.
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De Feo L. Philip K. Dick. Dal corpo al cosmo, Cronopio, Napoli, 2001.
Di Costanzo G. 1994, Allarme Morte, in “Il Mattino”, 11 aprile 1994.
Fattori A. Di cose oscure e inquietanti, Ipermedium, Napoli, 1995. Memorie dal futuro, Ipermedium, Napoli, 2001.
Frasca G. Non vale far paura, 1989, in Viviani G.-Pagetti C. (a cura di), cit. La scimmia di Dio, Costa & Nolan, Genova, 1996.
Jung C. G. Die Archetypen und das kollektive Unbewusste, 1934-1954, trad. it. di Schanzer E., in Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino, 1977. Ein moderner Mythus. Von Dingen, die am Himmel gesehen werden, 1958, trad. it. di Daniele S., Un mito moderno: le cose che si vedono in cielo, in Dopo la catastrofe, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
Pagetti C. Il sogno dei simulacri, 1989, in Viviani G.-Pagetti C. (a cura di), cit.
Panella G. “Dreams within Dreams”. Considerazioni sulla realtà illusoria della realtà in Philip K. Dick, 1989, in Viviani G.-Pagetti C. (a cura di), cit.
L. Sutin (a cura di) The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, 1995, trad. it. di Pannofino G., Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano, 1997.
Taylor A. Philip K. Dick and the Umbrella of Light, 1975, trad. it. di Pergameno S., Philip K. Dick e l’ombrello della luce, in Dick Ph. K., Le voci di dopo, Fanucci, Roma, 1976.
Viviani G.-Pagetti C. (a cura di) Philip K. Dick. Il sogno dei simulacri, Editrice Nord, Milano, 1989.
Williams P. Introduzione, 1975, a Dick Ph. K., Confessioni di un artista di merda, Fanucci, Roma, 1996.
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