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Nomadismi e altre peregrinazioni 
di Maria D’Ambrosio

ziganaQuesto mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare

Sul confine, Cormac Mc Carthy

Con l’Iliade1 e l’Odissea2 e l’Eneide nasce la letteratura che è letteratura di genere, di genere epico, che muove ed è mossa dal tema del viaggio: l’eroe traccia e si lascia seguire in un percorso non già definito, di cui si conoscono solo punti di partenza e mete da raggiungere, e in cui l’imprevisto, ciascun accadimento, si fa elemento nodale per l’intreccio della storia che sfida qualsiasi aspettativa di linearità e coglie ed esalta le molteplici possibilità intercettate e attuate dall’eroe, impavido e alla ricerca delle sue continue prove dal valore iniziatico. Riconosciamo dunque a queste opere anche lo statuto di romanzi di formazione ante litteram, in quanto nutrono il “conosci te stesso” socratico, tipicamente inteso come invito all’esplorazione riflessiva delle proprie profondità, declinandolo anche con l’uscita da se stessi, con l’urgenza o la necessità di riconoscersi in un Altrove che spinge fuori, lontano, a confrontarsi con l’ignoto e lo straniero. Il tema classico del viaggio – in cui si esplicitano e rintracciano veri e propri miti fondativi - acquista dunque un valore che è sociale oltre che personale: la ricerca del sé e delle proprie origini diviene paradigmatica e portatrice di certe verità da condividere nella comunità di appartenenza. Fiabe di diverse epoche e tradizioni culturali ne portano il segno e ne sono una importante traduzione insieme al romanzo d’avventura che è genere popolare e attraversa le epoche e gli stili letterari più vari. La tipologia dell’eroe si costruisce attorno a questi temi che rappresentano ancora oggi “questioni” costitutive per riconoscere e riproporre in altre forme narrative la figura del protagonista e quindi il suo rapporto con gli altri e con il mondo. Jonathan Swift con I viaggi di Gulliver3 del 1726 e Daniel Defoe con Robinson Crusoe4 del 1719 hanno offerto all’immaginario degli ultimi tre secoli personaggi che, dopo Achille ed Enea, interpretano quella che Maffessoli (1997) individua come “pulsione d’erranza” ovvero come richiamo alla “impermanenza di tutte le cose”, così da animare produzioni cinematografiche colossali5 e di grande successo che poi il piccolo schermo ha tradotto in altrettanti prodotti di successo (da Lost ai format della tv-verità come L’isola dei famosi). Ci interroghiamo sui motivi più sotterranei di questi ‘fenomeni’ e quindi con Michel Maffesoli6 torniamo a chiederci: “Non sarà forse che il dramma contemporaneo deriva dal fatto che il desiderio d’erranza tende a prendere il posto o a contrastare l’obbligo di residenza prevalso durante tutto l’arco della modernità?7” Il nomade dunque, che è pellegrino, esule o esploratore, come lo sono Gesù e Siddartha, Marco Polo e Cristoforo Colombo, incarna i valori della libertà, dell’ozio e dell’eccesso contrapposti a quelli del controllo, dell’ordine e del profitto. Con la modernità si rafforzano le ragioni dell’erranza e del nomadismo: è la contraddizione generata nel corpo sociale stesso che nella deriva positiva, funzionale, razionale, ha operato pure un ritorno al dionisiaco e al nomadico come “antidoti” al potere delle macchine ideologiche prodotte dalla modernità e dalla sua industria. Struttura e sovrastruttura che pure coltivano, come in una riserva, le proprie contro-culture ovvero dei “movimenti” che esprimono la vitalità delle culture stesse e riconsegnano loro la necessità-possibilità di rinnovarsi e trasformarsi. Maffessoli sostiene che “l’erranza, come un filo rosso più o meno visibile, può essere considerata una costante antropologica che ogni volta di nuovo, non smette di tormentare i singoli individui e il corpo sociale nel suo insieme8”. L’essere in cammino viene cantato e pure temuto. Molteplici e contraddittori i sentimenti che esprime o che evoca. Come oggi i gitani, gli zingari, i rom. Sarà per questo che il Canto del pastore errante dell’Asia di Leopardi (1830) è notturno: collocato cioè in quello spazio-tempo che è la notte, contrapposta alla luce del giorno, in cui ci si apre al mistero, all’indefinito e all’infinito. Altro tema ricorrente nello scenario prodotto dal poeta è la steppa che, oltre che ritornare ne Il lupo della steppa di Herman Hesse (1927), è luogo elettivo per collocare storie di spiriti  inquieti e selvaggi il cui coraggio e la cui solitudine sono “cifre” esistenziali che ritrovano proprio nell’aridità della steppa, interrotta solo a tratti, così come nella durezza del paesaggio di montagna e nel deserto, il luogo di cui si ha necessità perché possano ritrovare il senso del fare, tutto riposto in un avventuroso andare, e cavalcare e sconfinare, così che quell’andare, al vento, possa, come il vento, scalfire la pietra, darle forma, come dare forma al proprio essere.
La produzione narrativa e letteraria di tutti i tempi, che da orale si è fatta scritta, fornisce gli elementi figurativi e narrativi per elevare il cavaliere errante a categoria e a paradigma che fonda e legittima la mobilità e il cambiamento, che sono nella natura delle cose, individuali e sociali. Paradigma che individua nelle montagne, nel deserto e nella steppa appunto lo scenario che meglio rompe con la folla e con l’edificio moderno, urbano e post-industriale. 
La città, verso cui si converge tutti, esprime ed esibisce la sua “stanzialità”, la sua fiera idea di convergenza, di accumulazione, di estensione. È un’architettura fatta di torri, alte come montagne, ma che non lascia allo sguardo la possibilità di immaginare altro. Sembra già tutto scritto così che l’unico gesto che pare poter essere accolto è il sottrarsi, la fuga. Così come molti personaggi di Cormac Mc Carthy si allontanano dalle certezze domestiche e familiari per affrontare una strada che non è quella di casa, dove il pericolo è accolto come compagno e la distanza da coprire è metafora di un vuoto da colmare, del proprio divenire, tragico, che si prova ad afferrare e a sentire grazie alle tracce lasciate lungo il percorso.
Dalla sociologia dell’erranza alla pedagogia della strada il passo è breve. Il viaggio, la strada, il movimento, sono “luoghi” che ritornano nell’immaginario post-metropolitano e tornano a parlare di una condizione di cui c’è traccia, preponderante, nella storia dell’Umanità. Il confine (nazionale, geografico, politico, religioso, ..) torna a significare il limite da raggiungere e da superare, a costo di essere fuorilegge, di perdersi, di rompere con il già noto.
In particolare, sembra che il genere western (e qui scorrono titoli e colonne sonore che la buona o cattiva  televisione ha contribuito a rendere parte di un immaginario cittadino e poi metropolitano) – quindi anche quello di Mc Carthy - abbia ereditato la tradizione picaresca e l’abbia mescolata ai miti fondativi americani che fanno della “conquista del (far) west” un tema attorno al quale si rinnova il pathos del lettore-spettatore. Il cowboy, traduzione della figura archetipica del cavaliere errante, è icona di un nomadismo vissuto come forma di resistenza alla progressiva urbanizzazione e ai valori che questa impone e afferma come vincenti. Le storie western dunque possono essere intese come “presidio” della cultura nomade nella quale gli eroi “giocano” alla fuga e il duello fa da “luogo comune” per raccontare di vite vissute e sfide continue in cui la strada è maestra, e il cavallo (“Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo19”), un compagno fedele. 
È con questa sensibilità nomade – sensibilità che assume il nomadismo come “metafora performativa10” e mescola epoche e storie in un tourbillon di estetiche e linguaggi -  che si può ritornare agli spazi urbani e metropolitani  per cogliere le “diversità in movimento” e dunque aprire spazi dove, oltre che praticare l’insediamento o lo spostamento fisico, sia possibile realizzare una trasformazione continua, un divenire creativo che implica il ribaltamento delle convenzioni. Il ritorno al genere epico suona dunque come ritorno alla natura nomade e transitoria del soggetto (e pure dei luoghi che abita), ed è questa transitorietà che fa del soggetto nomade un’entità trasgressiva, capace di valicare le barriere delle convenzioni e di operare interconnessioni inedite. È categoria vitale del contemporaneo. Di cui cioè ha bisogno ogni contemporaneità per rintracciare le mappe spesso invisibili che danno forma ai corpi mutanti, alle identità in movimento, alle logiche meticcie di cui ogni epoca e ogni cultura si fa interprete.

 



:: note ::

 
1.
Opere attribuite ad Omero e classici della letteratura greca.

2. Opera di Virgilio e classico della letteratura latina.

3. J. Swift, I viaggi di Gulliver, De Agostini, Novara, 1990; cfr. anche M. Aime, Gli specchi di Gulliver. In difesa del relativismo, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

4. D. Defoe, Robinson Crusoe, Giunti, Firenze, 2003.

5. Basta citare la trasposizione più recente del Robinson Crusoe realizzata da Robert Zemeckis nel 2000 (una produzione USA) con il film Cast Away.

6. M. Maffesoli, 1997, Del nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, tr. it., Milano, Franco Angeli, 2000. Cfr. anche Rosi Braidotti, Soggetto nomade, Donzelli, Roma, 1995.

7. Maffessoli, 1997, op. cit., p. 39.

8. Maffessoli, 1997, op. cit., p. 48.

9. È una battuta famosa del Riccardo III di William Shakespeare (Einaudi, Torino, 1998).

10. Braidotti, 1995, op. cit.