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Se una notte dell’inverno 1968 un viaggiatore
di Gennaro Fucile

millenovecentosessantotto Sul finire dell’estate 1968 una fanciulla gallese, neanche diciottenne e che sembra uscita da un villaggio di fatine, folletti e altri magici personaggi in erba, conquista le classifiche di mezzo mondo con la versione riarrangiata di un traditional russo, Dorogo’ dlinnoyu. Il brano viene reintitolato Those Were The Days e lei, Mary Hopkin, è una scoperta di Paul McCartney che la ingaggia per l’etichetta nuova di zecca creata dai Fab Four, The Apple. La melodia è struggente di suo, ma anche il testo non scherza, un singolare rimpianto per il passato nel pieno dell’anno che è un inno al nuovo, al futuro: 

Those were the days, my friend!
We thought they'd never end.
We'd sing and dance forever and a day.
We'd live the life we'd choose.
We'd fight and never lose.
Those were the days, oh yes those were the days!

Diamine, ma che accidenti rimpiange questa canzone uscita il 30 agosto del 1968? I bei tempi del folk, o è un omaggio al patron, quel McCartney che due anni prima con analogo mood nostalgico dichiarava “Oh, I believe in Yesterday”, oppure sotto c’è dell’altro? Bisognerebbe tornare indietro, viaggiare nel tempo, spostarsi per indagare, ma di time machine in giro non se ne vedono, l’ultima decente è finita dallo sfasciacarrozze…
Potrebbe però accadere il contrario, così, volendo iniziare a ragionare sull’anno in cui era vietato vietare, nulla vieta di ipotizzare che sul finire del 1968 qualcuno sia venuto in possesso di una macchina del tempo e impaziente di veder completato il trionfo di quel grande sommovimento mondiale, si sia tuffato un po’ avanti nel tempo. Immaginiamo questo apparecchio in stile con l’epoca. Potrebbe essere la meravigliosa macchina apparsa al cinema proprio quell’anno, il Sottomarino Giallo (rieccoli di nuovo!) del quartetto di Liverpool, dal momento che è già collaudata per viaggi in altre dimensioni. 
Ebbene, l’immaginario navigatore temporale sale a bordo e delinea la rotta, qualche passo avanti negli anni, ma non tanto. In fondo alla velocità degli avvenimenti contemporanei un’epoca dura poco, non è necessario spostarsi di secoli, bastano, diciamo, quattro decenni. Eccolo, allora, l’anonimo temponauta approdare ai nostri giorni e, superata la sorpresa di aver viaggiato su un velivolo così preciso, ritrovarsi testimone di una serie di fenomeni ancor più sorprendenti. L’avventuroso esploratore infatti osserverebbe subito una serie di fenomeni inimmaginabili ai suoi tempi (gli anni Sessanta), dinamiche inconcepibili, logiche che gli risulterebbero ancora più estranee di quelle che a suo tempo contestava. D’altronde il temponauta che immaginiamo in visita ai nostri giorni, allora era (è, dal suo punto di vista temporale) studente, universitario, solidale con tutto quanto faceva opposizione al sistema, dalla classe operaia ai vietcong. 
Vedrebbe, quindi, un vero, autentico mondo alieno, o si sentirebbe un alieno lui stesso, straniero in terra straniera… Eppure…
Sì, qualcosa di familiare tutto questo nuovo mondo l’emana e, superato lo sgomento iniziale, il nostro eroe inizierebbe a documentarsi, sviluppando via via una lettura critica e pacata dei fatti. Colmato il gap relativo agli avvenimenti storici, eccolo dunque trarre le prime conclusioni, non lo soddisfano appieno, ma ce n’est qu’un debut

Fuck Yours Dreams, This Is Heaven
Politicamente il 1968 è stato un flop totale, l’assalto al cielo è fallito miseramente. Nessun potere sovvertito in Occidente, rispetto ad allora di significativo annota la sola penisola iberica liberata da due dittature ormai archeologiche. Forze più o meno conservatrici o riformiste gestiscono il potere con elegante o sgraziato turn over, secondo lo stile dei contendenti in lizza. Pochi appunti, come si vede, poi insiste nella ricerca delle cause e individua un vizio d’origine: questa débâcle maturò dall’interno. Il Movimento in tutta Europa e prima ancora il Movement made in Usa con tutta la cultura underground che lo sorreggeva, si fondava su un’errata equazione, un abbaglio visto con lucidità quasi in tempo reale da Mario Maffi:

Giovani=classe=rivoluzione. … La concezione dello scontro come scontro generazionale è stata e continua a essere una gravissima debolezza: priva l’underground di una vera efficace base di classe e l’obbliga a una strategia fatta in realtà di tattiche provvisorie e momentanee…1

Il Movement, insomma, era destinato a fallire in partenza, o meglio, lo era ciò che nel fronte d’opposizione, di contestazione, si poneva in modo realmente antagonista al sistema. Componenti minoritarie. Di debolezze e contraddizioni ce ne erano altre, secondo Maffi:

L’ambiguità di fondo che riduce l’underground a un fermento ‘anarcoide’ solo relativamente pericoloso per il sistema che si limita a svuotare o a colpire qua e là con violenza, senza però schiacciarlo come cercherebbe di fare con un movimento davvero rivoluzionario, si può riassumere in pratica in quattro punti2.

Del primo, l’equazione giovani=classe=rivoluzione, si è detto, ed ecco gli altri tre punti:
Rivoluzione culturale-rivoluzione attraverso la cultura. L’assunto dell’underground, in speciale modo verso la metà degli anni sessanta, è stato quello di provocare un mutamento a livello sovrastrutturale…
Cultura/società alternativa. Dato il ribaltamento della prospettiva rivoluzionaria, era inevitabile l’approdo a una concezione che vede la rivoluzione come creazione di strutture sociali  e culturali alternative ma coesistenti a quelle del sistema…
Il mistico pragmatico. Dove Blake si allea a Che Guevara. Lo zen si fonde con Fanon3.
A ben vedere, le affinità tra Usa e Europa si sono dimostrate notevolmente superiori alle differenze. Sarà stato perché gli americani ci hanno colonizzato il cervello, come disse Wim Wenders, ma le cose stanno così. Un qualsiasi focus, su un qualsiasi aspetto del quotidiano condotto per conto di qualche istituto di ricerca, sia mirato sul consumo di analcolici, sia sui generi di fiction preferiti, è in grado di corroborare la constatazione del regista tedesco. Anzi, senza il caso italiano che si trascina/prolunga fino alla fine dei Settanta, tutto appare molto omogeneo nel resto d’Occidente già nel lasso di tempo che va dal festival di Woodstock a quello di Wight. In realtà, i movimenti europei differirono da quello Usa per la presenza di un fronte operaio ancora non ridimensionato come quello statunitense e quindi con una tradizione di lotta e di forme mutuate anche dai partiti comunisti, da cui come da ogni sana tradizione comunque si doveva partire, fosse anche solo per negarla nella più generale rivolta anti-edipica. Questo portò alcune frange ad essere autentici movimenti politici, ma minoritari nell’ampio fronte della contestazione studentesca e dunque giovanile, quella vincente, di cui l’attento temponauta ha ormai preso atto. Negli Usa, parimenti, le frazioni più seriamente anti-sistema erano Black, come il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico ben riassunsero.

We Want The World And We Want It Now
La grande rivoluzione culturale del capitale occidentale, invece, si è dispiegata con una progressione impressionante, accompagnando, preannunciando e completando la terza rivoluzione industriale. Non solo, ha anche dimostrato nei fatti e non con gli slogan che cosa vuol dire rivoluzione permanente. Lo ha dimostrato nel profondo della vita quotidiana, materiale, trasversalmente, non escludendo nessuno, occupati, semi occupati, occupati precari, disoccupati cronici, l’intero esercito della forza lavoro, che pure conserva carattere antagonista nella (pseudo) dialettica Capitale/Lavoro, ma che è nella sua totalità immerso in un più vasto fronte sociale, il fenomeno dagli inediti caratteri, tipico della società post-industriale, l’universo del consumatori.
I presupposti teorici del Sessantotto, maturati lungo tutto il decennio, sono interamente confluiti in questo orizzonte, che giunge inatteso al viaggiatore nel tempo: la critica dei sistemi autoritari e dell’autorità familiare (pubblico/privato), la ricerca del benessere incondizionato anche oltre le porte della consueta percezione, la liberazione del segno a partire dalla moda, la capillare, onnipresente doxa, trasversale ai talk show, alla tivù verità, ai dibattiti generici, ai salottini, e a tutto quanto concerne la parola/flusso, l’abolizione delle differenze tra le merci estetiche, tra l’arte di massa e quella colta, l’abolizione delle barriere temporali, preludio di transizioni micro e macro, dallo zapping all’istantaneità dei passaggi dei capitali finanziari, la frantumazione delle frontiere tra tempo libero e tempo di lavoro. Ci furono opere d’arte che incarnarono, registrarono, subirono questo movimento di liberazione dai punti cardinali, emancipando il sopra e il sotto, l’alto e il basso. Anche il futuro si ribaltò nel genere che aveva il compito di raccontarlo. Oltre a 2001, Odissea nello spazio, anche la letteratura avvertì scosse sismiche violente. Un titolo per tutti, il joyciano Tutti a Zanzibar (Stand on Zanzibar) di John Brunner4.
Ne è scaturita una nuova società dove al potere è l’immaginario dei consumatori. In cambio della servitù volontaria. Vero, strutturale compromesso storico di un sistema fondato sui consumatori, dove la disoccupazione non preoccupa, l’esistenza prolungata, questa sì a tempo indeterminato, dell’esercito industriale di riserva non ha generato alcun cataclisma sociale. Il rischio spettrale che si aggira per l’occidente è il venir meno dei consumatori. Nel loro insieme i consumatori occidentali sono l’equivalente attuale di quella che nella società industriale si definiva aristocrazia operaia, una fetta d’umanità privilegiata rispetto a buona parte della popolazione totale del pianeta, che vede da un lato degli autentici miserabili, vite di scarto e anche meno, dall’altro dei benestanti, comunque. 
Così si presentano agli occhi del viaggiatore proveniente dal ’68 le terre occidentali, dove si consumano beni/servizi e se ne produce il relativo know how. La manodopera (de)qualificata a vari bassi livelli e le materie prime sono invece fornite dalle colonie, dove il sistema di potere è militare, mentre è mediatico in Occidente. Ecco i punti cardinali della terza rivoluzione industriale, che qui semina seppur tra mille contrasti la domanda dell’immediato futuro, una domanda molto più flessibile a cui offrire una nuova immensa raccolta di merci, di spettacoli, di informazioni, oggetti, cibi, servizi, svaghi, intrattenimenti, sesso, droghe, dati, software tascabili, tutto assemblato insieme in serie permutabili. 

Le rivoluzioni non hanno mai fatto altro che ruotare su loro stesse negandosi alla velocità di rotazione. La rivoluzione del ’68 non sfugge alla regola. Traendo più profitto dal consumo generalizzato che dalla produzione, il sistema mercantile accelera il passaggio dall’autoritarismo alla seduzione del mercato…5

Dall’ultimo stadio della società moderna all’attuale post è dunque maturata e si è poi compiuta la grande rivoluzione culturale d’Occidente, che muove con le avanguardie storiche (ancora fortemente elitarie, ma quanto deve il sessantotto al surrealisti e, strano ma vero, ai futuristi italiani!) dell’inizio Novecento e approda con irruenza e diffusione di massa nei mitologici anni Sessanta, il decennio brevissimo del secolo breve e che tocca l’apice simbolico nell’anno istantaneo del decennio, il 1968. Così con curiosa simmetria, chi proclamò la Rivoluzione culturale (la Cina delle guardie rosse) la compie nei fatti oggi – con tutte le ambiguità che sempre comporta una rivoluzione – mentre in Occidente se ne realizzò una epocale, concretamente, a partire da allora. Venne cioè a dispiegarsi una progressiva affermazione delle avanguardie di massa, la base materiale e civile su cui si fonda l’odierna società estetizzata. Estetizzazione del mondo che trova simbolicamente forza nello slogan l’immaginazione al potere, il claim del Sessantotto che instaura l’equivalenza creativo= nuovo=bello. 

Attraverso la liberazione delle forme, delle linee, dei colori e delle concezioni estetiche, attraverso il mescolarsi di tutte le culture e di tutti gli stili, la nostra società ha prodotto una estetizzazione generale, una promozione di tutte le forme di cultura, senza dimenticare le forme di anticultura, un’assunzione di tutti i modelli di rappresentazione e di anti-rappresentazione…

…Tutto è politico. Tutto è estetico. Simultaneamente. Tutto ha preso un senso politico, soprattutto dopo il 1968: la vita quotidiana, ma anche la follia, il linguaggio, i media, anche il desiderio diventano politici nella misura in cui entrano nella sfera della liberazione e dei processi collettivi di massa (…). Nello stesso tempo tutto si estetizza: la politica si estetizza nello spettacolo6.

Proprio ciò che si proponeva quella sorta di teoria della prassi here and now di Jerry Rubin che in Fallo! (Do It!, esortazione, poi ripresa dalla Nike Corporation), scriveva “bisogna fare della rivoluzione un mito spettacolare…7. Rubin, lui, il leader del Movement e fondatore dello Youth lnternational Party.
Intanto le merci diventano tendenzialmente prodotti estetici con un autore, la marca, la firma, la griffe, l’insegna, il logo. Il pubblico che deve fruirne deve essere necessariamente giovane, la gioventù non è un dato anagrafico ma uno stato mentale e una condizione del gusto. Ecco forse che cosa rimpiangeva Mary Hopkin, l’era della creazione, l’alba della nuova società, quella dei giovani come categoria. 

Something In The Air
Un’epoca irripetibile, che in tempo reale già accendeva la nostalgia. Il Sessantotto, in particolare di quel decennio fu l’anno/bivio, nessuno lo sapeva, ma doveva essere nell’aria, allora spesso si trasmettevano messaggi forti, all’epoca in the wind, medium ormai di vecchia generazione, ma che funzionò con la dolce fanciulla del Galles.
Si era al bivio, perché da un lato le lotte, i movimenti di massa i laboratori e le sperimentazioni avrebbero raggiunto nel lustro successivo forme di radicalizzazione sia creativa sia autodistruttiva, dall’altro si iniziava la complessa mutazione che faceva dei giovani un target e di tutti i target dei giovani, una pseudo dialettica complessa in pieno essere tutt’oggi, che vede ognuno di noi essere sempre giovane per qualcosa e qualcuno sempre giovane per tutto. Mutazione rivoluzionaria.

Ogni progresso della merce genera delle libertà formali e una coscienza che ha nei confronti di queste ultime l’inestimabile privilegio di incarnarsi negli individui, di identificarsi con il movimento dei desideri8.

Un mercato totale, globale, che del vecchio mondo conserva il carattere di esclusività (ai tempi del viaggiatore era in uso dire classista). Poiché nel mondo ideale/reale della società dei consumi si è espulsi o neppure si entra, grazie a opportune barriere d’ingresso, meccanismi che scattano in presenza di vecchi, individui resistenti al nuovo, o di quanti si ostinano a permanere nella condizione culturale extra occidentale. Tutto il resto del grande pubblico in tutte le sue possibili segmentazioni è sempre dotato dell’attributo “giovane” perché nuovo è uguale a giovane. Giovane mente in giovane corpo tendenzialmente sano. L’immaginario che ne è sorto ha liberato il corpo ma la contropartita da pagare sono le reiterate performance per adattarlo in tempo reale alle evoluzioni dei bisogni della mente. Forse per questo in tanto cinema il corpo insorge, mostruoso. Mostruosità di celluloide e non solo. Assorto nelle sue riflessioni, tormentato e sgomento, il viaggiatore si imbatte in un cartellone pubblicitario affisso per il lancio di un film, Shine A Light di Martin Scorsese. Dietro quelle maschere segnate dal tempo a fatica riconosce le pietre rotolanti e poi la locandina immortala un quartetto (non sa che nel 1969 Brian Jones morì sostituito prima da Mick Taylor poi da Ron Wood, e ignora che nel 1993 Bill Wyman ha lasciato la band e oggi al suo posto c’è il bassista di turno). Sì, sono i Rolling Stones, quelli che Jean Luc Godard filmò in studio durante le prove di  Sympathy For The Devil (poi entrato nella scaletta dell’album Beggar’s Banquet), a conferma che il diavolo e il denaro… il film One Plus One – Sympathy For The Devil, uscì nel 1968, il viaggiatore ha in mente l’ultima sconvolgente sequenza girata su una spiaggia semideserta, tra guerriglieri e rivoluzionari, gru e carrelli, e le pietre che innalzano il loro inno elettrico al diavolo. Riflette, convinto che anche Shine A Light sarà un film girato in modo magistrale, lui poi apprezza da sempre Scorsese, ma riflette, continua a ruminare pensieri.
L’ideologia della gioventù è al potere.
Poco importa la condanna al precariato dei veri giovani (giovani all’anagrafe) e più in generale la loro mancanza di orizzonti, prospettive, senso e attesa del futuro. Il terzo grande fronte degli esclusi dal tripudio dei consumi. 
Da un lato si celebra la gioventù e dall’altro la si mortifica in un processo di rivoluzione culturale permanente in cui tutti sono immersi, tutti i giovani che hanno un difetto d’origine che li rende ideali per il mercato, un difetto che li accompagna sin dalla nascita come target. In fondo il Movimento nel suo complesso (da qui la maiuscola) era composto di giovani studenti, prima giovani poi studenti, un sostanzioso attributo, qualcosa di più del semplice alfabetizzati, ragazzi dotati di sapere, abbastanza know how per poterlo mettere in discussione, consapevoli, critici, esigenti, alla ricerca di una sempre maggiore libertà di scelta, curiosi, liberi da preconcetti, pronti a misurarsi con altre culture, ovvero …
dei perfetti genotipi del consumatore moderno!!! 

Oggi il consumatore non si lega più ad alcuna grande narrazione. Semmai sceglie tra migliaia di piccole narrazioni, ciascuna rintracciata direttamente dentro i propri acquisti e all’interno del mondo possibile delle marche e dei prodotti di cui si circonda

Il consumo non ha omologato, ma semmai spezzettato, frantumato, diviso i comportamenti fin a far sì che ognuno (come in effetti si prefigge il marketing one to one) abbia le proprie modalità di consumo e i propri oggetti assolutamente customizzati, tagliati su misura per lui e soltanto per lui9.

Insomma, le analisi relative alle società di massa sono state un “colossale abbaglio” come sostiene il sociologeta dei consumi, Giampaolo Fabris.

Invece della massa informe e al tempo stesso omogenea («la folla solitaria» per riprendere il titolo di un libro di Riesman, la società di «uomini a una dimensione» della teoria critica di Marcuse) abbiamo una società sempre più segmentata e caratterizzata da spaccature (cleavages, per riprendere un termine caro ai politologi) che determinano una pluralità di gruppi e gruppuscoli caratterizzati da aspirazioni, desideri, valori e, in ultima analisi, identità profondamente diverse tra di loro10.

Ma come è il consumatore postmoderno?
Ecco alcune delle caratteristiche che possiede sempre secondo Giampaolo Fabris: fluidità, ambiguità, camaleontismo, pragmatismo, flessibilità, localismo, globalizzazione, fusività, multidimensionalità, olismo, pluridentità, complessità, turbolenza, eclettismo, sincretismo, apertura, desiderio, compossibilità, apparenza, indeterminatezza, paradosso, incertezza, mutevolezza. 
WOW! 
Neanche il più strafatto freak in qualche mega raduno tipo i citati Woodstock o Isle of Wight poteva ambire ad una liberazione così selvaggia!
Il guaio è che sembrano iperboli, ma ognuno si interroghi e ritroverà propri frammenti in ognuna di queste voci. 
Intanto, lui, lo stupefatto viaggiatore guarda un po’ di tivù, sperando in una clamorosa smentita, ma il suo sense of wonder è solleticato solo dalla meraviglia tecnologica costituita dal pacchetto telecomando + n canali. Non si impressiona più di tanto, ovvio, ha appena viaggiato nel tempo. Quanto ai programmi, lo sconvolgono ancora meno, non sono diversi da quelli, fondanti, andati in onda nel 1968, anno che si era aperto con autentica televisione (post)moderna. Fu merito dei Vietcong e dell’offensiva del Tet. Guerra mediatica ante litteram. Non solo, grosso modo in contemporanea arrivarono dall’Asia altri reportage e i media si diedero da fare: viaggio, amore, meditazione, pace e ritiro spirituale di benestanti occidentali: i Beatles in India (che ormai qui sono un leit-motiv). 
Allora, ormai stufo, come un qualsiasi nostro contemporaneo il temponauta girovaga, senza meta, guardandosi in giro. Un mondo colorato lo accoglie, a partire dalle vetrine dei negozi che ora, grazie alla lotta contro il vecchio e il grigio, si sono metamorfosizzate in visual merchandising e dai corpi stessi che sono a loro volta, ormai, delle vetrine. L’omogeneità del vestire borghese del tempo che fu si perde in un oceano di stili, mode e mezze mode, guazzabugli di epoche precedenti e successive al ‘68, nessuno scalpore, icone a spasso, magliette con il volto del Comandante Che Guevara, difficile capire quale messaggio si celi in questo universo di segni che se ne vanno a zonzo, e, infatti, non c’è nessun messaggio. È un altro successo della contestazione sessantottesca. Un tempo (al suo tempo, quello del viaggiatore) uno store come quello di Elio Fiorucci aperto nel 1967 a Milano era un trip di stoffe, abitini, gadgets, complementi d’arredo inutili e accessori d’abbigliamento altrettanto futili. Lui fu un pioniere, sempre con un gran fiuto, allora valeva stupire e infatti oggi il negozio non c’è più, avendo perso di senso la sua mission provocatoria. 

Yesterday… quando i Beatles provarono il retail e stonarono clamorosamente
La moda, ecco uno dei grandi vincitori. E dire che sul piano commerciale le nuove culture erano partite malissimo, gestendo con poca esperienza quel Moloch contemporaneo chiamato brand. La storia è gustosa, e anche se in breve val la pena ricordarla. È la storia del flop commerciale capitato nel 1968 ai quattro giovanotti di Liverpool “più famosi di Gesù Cristo”, come dichiarò uno di loro in una celebre quanto contestata conferenza stampa (prima o poi li abbandoneremo, ma è il pegno per aver preso in prestito il sottomarino). La storia del flop delle società della Apple Corps Ltd, azienda di proprietà di questi quattro musicisti di Liverpool, John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, in arte noti come The Beatles. 
La storia inizia proprio all’alba del 1968. I quattro lasciano la Parlophone (della Emi, che si occuperà “solo” di distribuire la nuova label), fondano una propria casa discografica, la Apple e lanciano altre attività collaterali, la Apple Elettronics, la Apple Tailoring e uno store Apple, aperto a Londra nel West End, a Baker Street. Un negozio di abbigliamento che propone in esclusiva abiti disegnati da un team olandese di hippies denominato The Fool. Abbigliamento in perfetto stile psichedelico secondo i canoni dell’epoca, sgargianti, flower power, si arriva a lambire il cattivo gusto. Sembrava tutto in regola per fare della Apple un impero, invece… la società fece fiasco, solo l’etichetta discografica accompagnò The Beatles fino allo scioglimento (e tra i successi c’è proprio Those Were The Days). Il resto chiuse dopo neanche otto mesi. In una mattina di fine luglio del 1968, i quattro passarono per Baker Street, presero qualcosa dallo store e poi decisero di regalare tutto. Una giornata di ordinaria follia a Londra, con una ressa gigantesca per arraffare tutto l’arraffabile. Non restò niente, come dopo il passaggio degli Unni. 
Come si arrivò a un simile fallimento? In termini di solo management, per due motivi: acquisti scriteriati e furti a ripetizione. Quello che però mancò fu una corretta politica di branding. Il negozio vendeva come Apple, mentre avrebbe dovuto far leva sulla marca The Beatles, che fino a quel momento aveva trasformato qualsiasi cosa in oro e che avrebbe continuato a farlo fino ad oggi. Insomma, Apple era una marca parvenue e non fece presa sul pubblico. Quando uscì poco dopo il doppio album bianco con la sola scritta The Beatles le cose ripresero ad andare per il verso giusto, anche se ormai la storia volgeva al termine.

Set The Controls For The Heart Of The Sun
Torniamo al temponauta in visita ai nostri tempi. Scoperta la volatilizzazione dello store Fiorucci, ritorna nel sottomarino e riaccende la televisione. Assiste a scontri di piazza, un senso di deja vu, opposte fazioni si scontrano, intervengono le forze dell’ordine, slogan, striscioni, bastoni, sassi, caschi, molotov, grande è il disordine sotto… lo stadio, o dentro, oppure intorno. Eppure i segni sono gli stessi… Altra conferma: non significano più nulla. L’attività manipolatoria è sempre la stessa, in azione nella moda, nel consumo, nella violenza e nei suoi doppi televisivi. Estetiche della pace e rituali della guerra. 
È sul punto di tornare indietro, bel dramma, si sa, è proibito interferire nel tempo, potrebbe condurre a paradossi catastrofici ma è anche vero che ritornare nel 1968 dopo aver visto il mondo quarant’anni dopo è condizione insostenibile. Che fare? (al viaggiatore viene automatico l’interrogativo di Nikolaj Černyševskij che Lenin fece suo). Forse riguardando meglio può esserci una via d’uscita al dramma esistenziale che lo ha stretto in una morsa inesorabile. Intanto arriva un interruzione pubblicitaria e qui tutti i peggiori incubi si trasformano in realtà. 
Visioni degne della tradizione surrealista, dell’optical e dei cartoon, del lisergico e del fantascientifico, luoghi incantati, astratti, concettuali, un’esplosione di colori, di metamorfosi, avvolte nell’intero catalogo delle figure retoriche, con tonnellate di pastiches e calembour linguistici. Metafore e metonimie a bizzeffe. Polisemia a tutto spiano. Scorge anche una pubblicità dell’auto Megane della Renault (sì quella Renault in cui nel Maggio batteva un cuore insurrezionale) raffigurante Che Guevara con il basco allacciato… gira solo in Sudafrica, ma lui ha una macchina del tempo, vedere in altri luoghi è un gioco da ragazzi, e poi la musica, All Along The Watchtower (Jimy Hendrix), Aquarius (dallo spettacolo Hair), Suzanne (Leonard Cohen), The Pusher (Steppenwolf), Happy Together (Turtles), l’elenco è lungo, è la colonna sonora di un’epoca. 
Il viaggiatore è incantato, non lo sa ma ascolta anche brani che usciranno di lì a poco (rispetto alla sua cronologia), come Here Comes The Sun (per l’ultima volta ancora i Beatles). Prossimo ormai al corto circuito mentale, all’improvviso intuisce la verità, capisce che il paradosso temporale è già avvenuto, la sua presenza ha interferito con il maestoso scorrere del tempo e lui non dovrà fare altro che rientrare nel suo tempo e vivere normalmente, dimenticando questa visione (incubo?). Ora è più sereno, è pronto a rimettersi in viaggio. Porterà con sé il grande segreto e forse la storia avrà un altro svolgimento. La rivoluzione non è un pranzo di gala, occorre sapersi sacrificare. Riparte in compagnia di illusioni e paradossi. Piuttosto stonato accenna una strofa:

Così facciamo tutti una vita comoda
Ognuno di noi ha quello che gli serve
Cielo blu e mare verde
Nel nostro sottomarino giallo
Viviamo tutti in un sottomarino giallo


   

:: letture ::

AA.VV. Le radici del sessantotto, Baldini & Castoldi, 2003

Baudrillard J. Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1972

Baudrillard J. La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna, 1976

Baudrillard J. Il sogno della merce (a cura di Vanni Codeluppi), Lupetti & Co, Milano 1987

Jean Baudrillard J. La trasparenza del male, SugarCo, Milano, 1991

Jean Baudrillard J. All’ombra delle maggioranze silenziose, Cappelli, Bologna, 1978

Baumann Z. Modernità liquida, Laterza, Bari, 2005

Baumann Z. Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città Aperta, Troina (En) 2004

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:: ascolti ::

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Al Kooper/Mike Bloonfield/Stephen Stills Supersession, Sony, 2003

Frank Zappa And The Mothers Of Invention Burnt Weeny Sandwich, Rykodisc, 1995

Iron Butterfly In-A-Gadda-Da-Vida, Elektra/Wea, 1990

Miles Davis The Complete In A Silent Way Sessions, Sony, 2001

Pink Floyd, A Saucerful Of Secrets, Emi, 1992

The Beatles, The Beatles (The White Album), Capitol/EMI, 1990

The Beatles 1, Capitol/EMI, 2000

The Beatles Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band, Capitol/EMI, 1990

The Cream Wheels Of Fire, Polygram, 1990

The Doors In Concert, Elektra/Wea, 1991

The Jimi Hendrix Experience, Electric Ladyland, Experience Hendrix, 1997

The Rolling Stones Singles Collection: The London Year, London 2001

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The Velvet Underground & Nico, The Velvet Underground & Nico, Polydor, 1996

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Hangman S. Fragole e sangue (The Strawberry Statement), Warner Bros, 2001

Hopper D. Easy Rider, Sony Pictures Home Entertainment

Scorsese M. No Direction Home. Bob Dylan, Paramount Home Entertainment, 2008

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:: note ::

1. Mario Maffi, La cultura underground. I. Dai Beats agli yippies, Laterza, Bari, 1980.

2. Ibidem.

3. Ibidem.

4. John Brunner, Tutti a Zanzibar, Nord, Milano, 1988. 

5. Raoul Vaneigem, Trattato del sapere vivere, Castelvecchi, Roma, 2006.

6. Jean Baudrillard, La trasparenza del male, SugarCo, Milano, 1991.

7. Jerry Rubin, Fallo!, Milano Libri, Milano, 1971.

8. R. Vaneigem, op. cit.

9. Mauro Ferraresi, La società del consumo, Carocci, Roma, 2005.

10. Giampaolo Fabris, Il nuovo consumatore verso il postmoderno, Franco Angeli, Milano, 2003.