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Documentari del non-vero, la propaganda durante la Guerra Fredda
di Giorgio Signori

guerra fredda bombLa dimensione mediale del cinema deve ideologicamente e storicamente molto del suo successo al proprio statuto ontologico di impressione fotosensibile del reale. Il discorso sull’oggettività, sulla produzione di verità e sulla realtà delle immagini fotografiche prima, in movimento poi, è estremamente delicato. Nel caso della propaganda americana degli anni Cinquanta, come avvicinarsi a prodotti dei quali, a distanza di oltre cinquanta anni, è possibile riconoscere un punto di vista tutt’altro che onesto, sia scientificamente che socialmente? È possibile superare questo pregiudizio nascente dal giudizio di valore che ci porta a considerare semplicemente falso quanto presente nei filmati di propaganda? O in essi sono cristallizzate, ma da scoprire, virtù e ideologie della società americana postbellica? Per dare una risposta a queste domande, bisogna verificare che tutte le fonti cinefotografiche, e non solo quelle di propaganda, possono essere sottoposte a questo lavoro di verifica, ma che tale validazione può anche essere irrilevante, perché il discorso storico non coincide necessariamente con quello narrativo presente nei film, ma è tuttavia desumibile attraverso un sottile gioco di ricorrenze tra testi e pellicole. 

André Bazin1 osserva come la nascita della fotografia prima, e delle immagini in movimento poi, abbiano immediatamente ammaliato gli storici per la capacità intrinseca di restituire il reale partendo da uno statuto ontologico essenzialmente oggettivo. Egli sottolinea come la fotografia, portando a compimento un percorso che vede la massima espressione nel barocco, abbia liberato le arti plastiche dall’ossessione della ricerca della rassomiglianza, lasciandosi scivolare da dosso la ricerca del realismo come fine ultimo dell’arte: per quanto abile sia il pittore, la sua opera sarà sempre ipotecata dalla soggettività autoriale. L’immagine tradisce la difficoltà dell’avvicinarsi alla realtà in virtù della presenza soggettivante dell’uomo, del quid che separa la realtà dall’immagine, uno strato di influenza mediatrice tra realtà e rappresentazione. La fotografia in questo senso è un fondamentale momento di apparente liberazione: soddisfa l’umana ansia per la riproduzione attraverso l’immagine, fornisce uno strumento privilegiato per il “complesso della mummia” che è alla base della sete di illusione, e che nei secoli ha alimentato, in maniera conscia o inconscia, la ricerca del realismo e della rappresentazione nell’arte. Tutto questo mediante una riproduzione meccanica da cui l’uomo è, almeno sotto un profilo prettamente tecnico, escluso: nella fotografia, a differenza di tutte le altre arti, si celebra l’assenza della mano dell’uomo, si beneficia di un transfert di realtà dall’oggetto alla sua riproduzione, che non è più una tecnica inferiore che punta alla rassomiglianza, ma è il frutto genetico, plastico, della natura estetica del modello. 

La fotografia appare dunque come l’avvenimento più importante della storia delle arti plastiche, un’importante liberazione psicologica dalla mano dell’uomo. E poco importa se, attraverso la selezione dell’inquadratura, i procedimenti della messa in scena, le espressioni del linguaggio, con la scelta individuale di cosa entrerà a far parte dell’immagine, essa sia in verità uno strumento creativo capace di tradire al pari delle altre arti l’impronta digitale dell’autore: la materia di cui è composta ha sempre un’origine innegabilmente legata ad una indiscutibile fisicità, un “calco” (o, appunto, un negativo) perfetto dell’oggetto. È necessario sottolineare però come il concetto di riproducibilità meccanica evidenziato da Bazin sia alla base della scelta dell’audiovisivo come strumento privilegiato della propaganda durante, ma non solo, la Guerra Fredda. Il motivo di questa scelta è facilmente intuibile: l’immagine restituisce l’illusione della realtà, è più facile affidare un discorso propagandistico, che ha quindi pretesa di esser vero, alla fotografia piuttosto che alle pagine scritte. L’impatto emotivo e psicologico è infatti senza dubbio più forte: la rappresentazione può sembrare maggiormente veritiera, soprattutto a una società meno educata all’immagine e all’audiovisivo. La pellicola è il regno della falsificazione: ciò che mostra può sempre essere messo in discussione.

Prima ancora di Bazin però, ad affrontare sotto il profilo prettamente ontologico ed “estetico” la natura dell’immagine, e riferendosi in particolare alla finalità necessaria del cinema come strumento di riproduzione del reale, è Dziga Vertov, che nella prima metà degli anni Venti matura in Russia la teoria del Kinoglaz (Cine-occhio) e della Kinopravda (Cine-verita). Vertov assegna al cinema un compito rigorosamente antinarrativo e antifinzionale, elaborando la visione di un cinema non recitato (neigrovaja kinematografija) che va letta non come la liberazione dai procedimenti cinematografici (anche sperimentali) del linguaggio, ma come il rifiuto di ogni forma servile di dipendenza del cinema nei confronti di modelli drammaturgici importati dalla letteratura e dal teatro2. La teoria del Cine-occhio, cristallizzata in Kinoglaz (1924) e ne L’uomo con la macchina da presa (Čelovek s kinoapparatom, 1929), punta a portare sullo schermo l’azione dei fatti, e non della recitazione, a sostituire le forme surrogate della rappresentazione della vita con la vita stessa. Vertov elimina sceneggiatura, attori, messa in scena, per inserire la macchina da presa, il Cine-occhio, nella realtà stessa. 

Pur se con finalità differenti, è interessante come sia Bazin sia Vertov pongano l’accento sulla meccanicità del processo di restituzione in immagine del reale. Come la fotografia descritta da Bazin, il Kinoglaz è un’entità meccanicamente ricettiva: registra tutto, anche le tracce più piccole; è una memoria sintetica e democratica la cui emulsione fotosensibile si lascia impressionare da ogni cosa, anche la più apparentemente inessenziale; è sintesi ultima di una presunta oggettività. La funzione del cinema non recitato però, secondo Vertov, non è la medesima del cosiddetto documentarismo: non si tratta di documentare fatti che ontologicamente si presentano come tali: il cinema piuttosto svela la segreta figura dell’esistente. Il cinema non recitato deve esibire non la propria natura di documento, ma la “scrittura” della vita, un cinema che rivela la presenza del Cineocchio nello spazio che riprende, un palesare l’atto stesso del vedere. L’apporto di Vertov è fondamentale perché inserisce un importante tassello sulla teoria genetica del cinema non recitato, un cinema che è in grado di cogliere la vita per ciò che è, e di restituirne forme e profili nella maniera teoricamente meno corrotta possibile. Tuttavia questa posizione appare a tratti utopistica: in quali condizioni è possibile davvero verificare l’assenza, volontaria o involontaria, di finzione? Bazin chiarisce questo punto, in particolare in riferimento a quelli che definisce “documentari ideologici di montaggio”, embrioni di propaganda filmata. Egli esclude una possibilità di verifica che non sia limitata al linguaggio. Per Bazin è il linguaggio stesso, ad esempio attraverso il montaggio, a tradire l’onestà dell’autore, e non l’immagine, che viceversa è sempre falsificabile.

L’approccio è ancora circoscritto al contesto-cinema, ma il dibattito non tarda ad addentrarsi nelle possibili dimostrazioni della dignità documentaria dell’audiovisivo, grazie all’attenzione che il cinema immediatamente catalizza come mezzo indiziale e come strumento di riproduzione del reale. 
Il medesimo dubbio sul reale fotografico si propone anche sui documentari: esiste il vero documentario? Gli esercizi esegetici di critica all’immagine oggi appaiono schematici e riduttivi, e soprattutto non si confrontano adeguatamente con le incredibili capacità di manipolazione delle fonti offerte dalle tecnologie moderne. La tradizionale distinzione tra vero e falso, così cara al positivismo scientifico, appare ormai rischiosa e limitante: il falso può rappresentare un documento storico di grande importanza, così come il vero può essere accettabile anche in condizione di non completa aderenza ai parametri del vero assoluto: è il regno del verosimile, del probabile, che rappresenta l’oggetto delle scienze sociali.
I filmati della Guerra Fredda, se pur rappresentano con il linguaggio del documentario il non-vero, costituiscono lo stesso una fonte di significato di grande rilevanza, purché non si perda di vista la loro natura, e le funzioni che svolgono nel contesto della propaganda e soprattutto della fortissima contrapposizione delle ideologie tra le superpotenze che si combattono anche con gli strumenti dell’autoaffermazione e dell’enfatizzazione del “nemico rosso”.

L’analisi diventa dunque una continua negoziazione del senso tra ciò che si vede e ciò che vi si può leggere. In realtà “non ci può essere la lettura storica di un film senza riferimenti ad alcune categorie interpretative mutuate da altre discipline come la semiologia e l’antropologia e, soprattutto, prescindendo dalla mediazione concettuale offerta da una nozione come quella di ‘cultura cinematografica’ come chiave per decifrarne l’ambiguità e la complessità dei segni e dei significati”3. Soffermarsi sul problema della falsificazione che ogni filmato, qualunque sia la propria origine, porta in sé, è riduttivo, in quanto l’oggettività è in realtà un falso problema. Chi cerca di ricostruire la storia deve invece tentare di comprendere la realtà rappresentata e collocata all’interno dell’impalcatura narrativa del film. I filmati di propaganda della Guerra Fredda giocano molto su questa ambiguità: utilizzano forme del linguaggio cinematografico che aiutano a veicolare un’immagine di verità, ma contemporaneamente, a volte ne palesano la finzione.
Nell’analisi del vero e del funzionale nel film non ci si riferisce quindi esclusivamente ai film cosiddetti di fiction: i confini fra il documentario e la finzione sono sfumati, spesso intrecciati. Se il film è fiction, ciò non significa che sia completamente avulso dall’attualità, anche perché non tutto quel che viene mostrato o sottinteso in un film deve essere immaginario.
Attraverso il tema, il soggetto, la caratterizzazione e altri mezzi, un film di finzione può presentare, in maniera più o meno diretta, delle idee sul mondo reale4.
Tenendo presente questo vasto range di sfumature, è possibile avvicinarsi al “documentario” della Guerra Fredda con meno circospezione: ci si trova di fronte a un prodotto che ha forma di documentario, ma finalità propagandistiche. Ma, essendo l’oggettività un falso problema, questa caratterizzazione non è fondante per l’analisi: è possibile analizzare gli elementi di questi documentari privi del pregiudizio sul reale, perché non è la finalità autoriale o la destinazione propagandista a nascondere le tracce lasciate sulla pellicola.

A volte la nostra reazione a un film di finzione è plasmata sulle nostre illazioni su come esso è stato realizzato. Tuttavia le modalità con cui le immagini e i suoni sono prodotti non sono sufficienti a distinguere nettamente film di finzione e documentari. Ciò che veramente distingue queste macrocategorie filmiche, come ricorda Roger Odin5, è solo l’atteggiamento spettatoriale, l’insieme delle modalità percettive, l’effetto prodotto in chi guarda. Avendo in mente queste caratteristiche è facile arrivare al ritenere film di finzione e documentari come egualmente degni di essere considerati fonti storiche. 
Parte del discorso analitico della produzione cinematografica originata al di fuori dei grandi circuiti internazionali è concentrato su film che possono fregiarsi di appartenere alla macrocategoria dei “documentari”. Definire questo genere è un’operazione ardua che ha alimentato, sin dagli albori del cinema, un dibattito ancora oggi particolarmente acceso e tuttora aperto. L’inserimento dei filmati della Guerra Fredda in questa categorizzazione ha contorni sfumati, orientati tra l’uso di un linguaggio tipico del documentario, e contenuti sapientemente montati e selezionati a fini propagandistici. Come posizionarli all’interno di una macrocategoria dai tratti spesso ambigui e incerti? Per dare una risposta e necessario ripercorrerne le caratteristiche fondanti. 
Una delle prime definizioni di documentario parte da John Grierson, produttore scozzese e padre della scuola documentaristica inglese, che nel 1932 formalizza le sue tesi in un manifesto teorico dei documentari, intesi come un vasto repertorio di testi filmici sulla base di una loro presunta aderenza alla materia realistica6. La problematica però e ancora abbondantemente in fieri: la principale osservazione riguarda la tipica tendenza del ricondurre alla denominazione di documentario una pluralità di differenti realtà cinematografiche non omogenee fra di loro. Ne consegue una grande difficoltà nell’individuare il documentario come genere a sé stante, visto semplicemente come un insieme di prodotti accomunati in base ad un generico trattamento della realtà. 
Avendo bisogno di una categorizzazione, impossibile non partire dall’opera del semiologo Christian Metz, che osserva come i film non narrativi si distinguano dai film di finzione più per intenzionalità sociale e per il contenuto che non per gli effettivi procedimenti di linguaggio. L’approccio tipicamente semiotico si sofferma sulla modalita percettiva dello spettatore, che è il vero elemento in cui si chiude il cerchio della rappresentazione documentaria. Non esiste, secondo Metz, una grande differenza al livello del linguaggio cinematografico, tra film di finzione e documentario: le grandi figure fondamentali della semiologia del cinema (montaggio, movimenti di macchina, scala dei piani, sequenze, raccordi tra le inquadrature ecc.) conservano la loro identità anche nel cinema non di finzione.
È quindi l’atteggiamento spettatoriale nei confronti del prodotto a sancire, sotto forma di percezione, l’appartenenza al genere documentario. Al livello del linguaggio dei segni la dicotomia fiction/non fiction è basata su elementi non determinanti, e i criteri di differenziazione (presenza del racconto, discriminante dell’attore, ecc.) non sono risolutivi: il racconto è una dimensione rintracciabile anche nel documentario, così come esiste un livello diegetico. Piuttosto che nell’opposizione fiction/non fiction, le marche differenzianti del documentario andranno ricercate sul terreno del rapporto con la realtà e nei relativi modi di codificazione linguistica7

Nel caso dei filmati della Guerra Fredda, è interessante porsi la domanda su quale possa essere l’atteggiamento spettatoriale di chi li guarda, ma soprattutto, per capire i linguaggi della propaganda, quale poteva essere tale atteggiamento cinquanta anni fa. Oggi infatti, con la forza di una cultura scientifica ben più diffusa e di più facile portata, si tende a trovare risibili le tesi e le posizioni mostrate nel film, ad immaginare grottesche determinate affermazioni (soprattutto, sulla minimizzazione dei rischi atomici). La chiave di lettura per immedesimarsi nello spettatore dei primi anni Cinquanta è la paura: occorre calarsi nello stato psicologico innestato da una situazione instabile e ansiogena come la Guerra Fredda. Con tutta probabilità l’atteggiamento spettatoriale doveva essere del tutto analogo a quanto oggi si può provare nel rapportarsi a prodotti audiovisivi, più sottili e liminali ma inequivocabilmente eredi della medesima propaganda, che affrontano le paure del terrorismo internazionale. La paura innescata da immagini spettacolari e terribili della bomba atomica ha il medesimo DNA mediatico delle esplosioni dell’11 Settembre: l’incertezza, la novità, il timore, l’incredulità, sono gli ingredienti necessari a recepire e capire l’atteggiamento di chi era spettatore nel pieno della Guerra Fredda. Analogamente, si ripropone oggi la contrapposizione tra due visioni ideologiche totalizzanti, e l’enfatizzazione di un nemico che, reale e non costruito, rappresenta una minaccia presentata come subdola e incontrollabile.
A livello linguistico si indaga sul rapporto fra cinema e realtà. Questo rapporto obbliga a addentrarsi nel delicato dibattito filosofico fra Reale/Immaginario, Realtà/Rappresentazione, Vero/Falso. Queste problematiche tendono erroneamente a interrogarsi sulla posizione autoriale e su quanto sia possibile, con la macchina del cinema, far coincidere il reale con la visione del reale che è il prodotto risultante dall’operazione di costruzione. È un dato di fatto che queste due realtà non sono sovrapponibili, ma ci si può domandare come l’autore ci restituisca la propria, personalissima visione di reale. È proprio nel documentario che si riscontra la tendenza più accentuata verso la coincidenza fra Realtà e sua Rappresentazione, almeno nelle intenzioni di chi fa il documentario e che qui, parafrasando l’istanza narrativa di Metz, può essere definita istanza rappresentativa. Tale istanza non è assoluta, e giammai scissa dal proprio creatore. 
Roger Odin proseguendo sulla strada della percezione da parte dello spettatore, individua due modalità di lettura: una documentarizzante, una finzionalizzante. Nella prima il lettore non deve far coincidere l’enunciatore del film con il suo autore, bensì con l’entità costruita presupponendo la realtà di questo enunciatore. Si tratta di una lettura critica, in grado di esplicare la prospettiva sull’enunciato, che opera in sinergia con un’insita attività epistemica di indicalità, e che può entrare in gioco rispetto a qualsiasi genere di film. Il fondamento della lettura documentarizzante, opposta a quella della fiction, non sarebbe allora la realtà del rappresentato, ma quella presupposta dell’enunciatore. Gli enunciatori reali del film possono essere molteplici: il regista, l’operatore, lo sceneggiatore. Tali elementi sono i medesimi tanto nel cinema documentario quanto in quello finzionale. Il tipo di lettura documentarizzante varierà al variare del tipo di enunciatore reale scelto. L’atto di lettura documentarizzante è quindi un’operazione che mette in moto un sistema interattivo a tre attanti: un film, un’istituzione, un lettore. 
Sinteticamente, l’istituzione regola la costituzione dell’immagine del documentarista operata dallo spettatore, che nel caso dei documentari, si vede negare l’accesso alle intenzioni illocutorie del locutore, in modi da confrontare con ciò che accade nel mondo dichiaratamente immaginario del film di finzione8.
Ma come funziona il procedimento di identificazione e atteggiamento spettatoriale nei riguardi del documentario? Il personaggio tende a diventare un oggetto dello spazio rappresentato, entrando nel film proprio nella misura del rapporto con esso. Ciò provoca generalmente reazioni di spiazzamento nello spettatore, il quale si trova nella condizione di dover trovare altre vie d’identificazione. Può venirci a questo proposito in soccorso la distinzione di Metz tra identificazione cinematografica primaria e secondaria9

È su questo aspetto che gioca maggiormente la retorica della propaganda: l’assenza di connotati del linguaggio interpretabili dallo spettatore come appartenenti alla realtà finzionale narrativo-romanzesca permette di conquistare la fiducia dello spettatore, che non riconoscendo meccanismi narrativi di finzionalizzazione, può tendere a lasciarsi vincolare da un rapporto di fiducia con l’autore. È uno spettatore che si riconosce in ciò che vede, come in uno specchio. Lo specchio è infatti secondo Metz il luogo dell’identificazione primaria10. È importante tener presente questo elemento, perché, come si vedrà più avanti, l’idea di specchio si rivelerà fondamentale nel definire il rapporto che si crea tra i prodotti audiovisivi di propaganda e la società. Metz elegge a corpus privilegiato della sua ricerca i film narrativi in quanto sostiene che l’incontro fra cinema e narratività ha condizionato in maniera determinante l’evoluzione semiologica del film e ridotto il documentario e gli altri insiemi non narrativi ad aree periferiche. Ma di fatto propone una visione che omologa tutti i generi del cinema in una forma di non realtà alla cui base sembra risiedere una comune natura di messa in narrazione della storia. E anche le storie “vere”, quelle raccontate ad esempio dai cinegiornali, subiscono l’influenza di questa forma di irrealtà dettata dalla messa in film. Nel caso dei documentari della Guerra Fredda, è impossibile non riconoscere, seppur a un livello meno palese rispetto a prodotti più narrativizzati, la linea del racconto, che a livello semiotico appare analoga ai più comuni prodotti del cinema di fiction: è frutto di una sceneggiatura e di messa in scena con attori e scenografie. È la messa in forma che ne cambia tuttavia la percezione, attraverso gli artifici del linguaggio cinematografico.
Secondo la distinzione effettuata da Metz, esistono due tipi di codici cinematografici, generali e particolari. Con i primi si indicano quelle istanze sistematiche proprie del linguaggio narrativo, comuni a tutti i prodotti audiovisivi. I codici cinematografici secondari appartengono invece solo  a certe classi di film. Questi ultimi contribuiscono a costituire i film di genere, dai quali ereditano un sistema di convenzioni, come nel caso dei western o dei musical, ma si riferiscono anche a gruppi di film identificabili per stile, come quelli componenti l’opera di un singolo cineasta o di una stessa scuola, sotto forma di stilemi ricorrenti che permettono la riconoscibilità dell’autore o della corrente. 
Nei filmati della Guerra Fredda la presenza di stilemi è più che abbondante, e sufficiente a identificarli come una classe indipendente di film che può essere analizzata come tale, e dotata di forme e figure ricorrenti, stili, regolarità. 

Particolarmente rilevante infine, a concludere il discorso sull’atteggiamento spettatoriale, è inoltre la posizione di Bill Nichols, che distingue un “modo osservativo” e un “modo partecipativo” del documentario, in base alla percezione dello spettatore. Nel caso del modo partecipativo/interattivo, si richiede allo spettatore di entrare direttamente a contatto diretto con la realtà che gli si propone di osservare. È un modo che attribuisce molta importanza alle scelte che sono richieste al pubblico, affinché valuti il grado di rappresentazione della verità; il modo partecipativo sottolinea la complessità della conoscenza del mondo enfatizzando i propri aspetti soggettivi e le dimensioni emotive. È il caso, secondo Nichols, dei documentari russi a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, in cui il materiale filmato viene selezionato da parte del regista che attraverso le sue scelte stabilisce una determinata prospettiva riguardo l’argomento del documentario e, di conseguenza, un punto di vista privilegiato. Sebbene il documentario ricerchi un alto grado di oggettività, ogni selezione di questo genere sottende ad una precisa scelta ideologica ed estetica compiuta dal regista. Il modo osservativo, pur nella consapevolezza dell’impossibilita di una trasparenza assoluta, cerca di mostrare la realtà per come essa appare, e viene ripresa dalla cinepresa, solo osservandola senza alcun tipo di intervento da parte del documentarista. Bill Nichols fa coincidere il modo osservativo con il cosiddetto Cinema Verité e il suo omologo anglosassone Direct Cinema. La fedeltà di questi documentari nasce dalla nozione che esista una relazione diretta tra l’immagine, e ciò che essa identifica, ovvero del legame indessicale, facendo un passo indietro e tornando allo statuto ontologico della fotografia di cui parla Bazin, che esiste tra immagini e realtà.
Il metodo osservativo offre cosi l’opportunità al pubblico di calarsi nelle esperienze di qualcun altro, di conoscere la sua quotidianità, realizzando il sogno spiccatamente voyeuristico del cinema di vedere “senza essere visto11”. Volendo recepire questa categorizzazione a posteriori, è possibile inquadrare i filmati della Guerra Fredda nella prima categoria, in virtù della grande forza empatica che determinate immagini riescono a evocare, e dell’importanza attribuita alla reazione emotiva e alla relazione con lo spettatore. In riferimento alla Guerra Fredda la questione è resa ancor più interessante dal momento che alcuni filmati di propaganda, frutto di un’accurata messa in scena, e non propriamente documentari nel senso stretto del termine, sono proposti al pubblico nella forma e nei linguaggi tipici del documentario, influenzandone la percezione. Il film può essere dunque “venduto” come reale al fine di alterare la percezione che il pubblico può avere del prodotto, o di se stesso. 

Allargando il campo, è possibile sottolineare come l’analisi dei prodotti al di fuori del circuito cinematografico mainstream, dal cinema di finzione tradizionale, può estendersi a tutti quei prodotti la cui origine va oltre la semplice definizione di “documentario”. Questo include, ad esempio, i cortometraggi, la pubblicità, e, appunto, la propaganda. Un lavoro di riferimento sul piano metodologico dell’analisi e sicuramente quello di Lino Miccichè, che analizza le tendenze del linguaggio del cinema italiano a partire proprio dal documentario, in un periodo che va dal 1945 al 1965.
Dall’analisi di Miccichè emerge la fisionomia di un genere che, sviluppatosi contemporaneamente al Neorealismo, rappresenta un punto di vista eccezionale per lo studio e la fotografia di una società vista da un occhio contemporaneo12. L’esempio italiano aiuta a definire l’evoluzione di un genere, quello documentario (anche se la definizione di documentario, a questo punto, risulta assai limitativa), che può vantare un corpus rilevantissimo sia in termini di quantità, sia in termini di rilevanza dei meccanismi del linguaggio, sia dal punto di vista dell’indizio “sociale”. Avvicinandosi ulteriormente all’oggetto di questa analisi, Augusto Sainati sottolinea che: “la nozione di cinema di non-fiction, o più specificatamente quella di cinema documentario, del cui vasto territorio le attualità cinematografiche fanno parte, sembra far pensare di primo acchito a una forma filmica di per sé priva di artificio, legata a una funzione perlopiù testimoniale, in un certo senso ritratta di fronte al proprio sguardo, che sarebbe portata e restituire oggettivamente”13. La percezione che si ha del documentario parte dunque dalle premesse formali e percettive del prodotto presentato come tale. L’oggettività delle immagini è dunque solo presunta, in funzione di tale punto di vista, sempre presente con la propria influenza anche in situazione di apparente neutralità. 
Non è importante, ai fini dell’analisi, validare le affermazioni contenute nei filmati della Guerra Fredda in termini di oggettività, verità o realtà, perché la positività di tale giudizio non è necessaria né vincolante, e la negatività non esclude la possibilità di trarre delle conclusioni storicamente significative. Giungere a tale consapevolezza apre una serie di possibilità d’analisi che possono essere con gran forza ritenute scientifiche a tutti gli effetti, sotto forma di un procedimento metodologico indiziario (nel senso ginzburghiano del termine) che sia in grado, in questo come altri casi, di recuperare la forma filmica come fonte d’indagine storica e sociologica.  



1. André  Bazin, “Ontologia dell’immagine fotografica”, in Che cos’e il cinema?, Milano, Garzanti, 1973.

2. Su Vertov un’ottima risorsa è il lavoro di Pietro Montani in cui l’autore ripercorre 
il percorso che ha portato Vertov a teorizzare il cine-occhio e la cine-verità: 
P. Montani, L’immaginazione narrativa, il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario
Milano, Guerini, 1999, in particolare il capitolo 2 “Il cinema non-recitato e la vita colta sul fatto”. 

3. G. De Luna, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, Firenze, La Nuova Italia, 2001.

4. D. Bordwell, K. Thompson, CINEMA come ARTE. Teoria e prassi del film, Milano, Il Castoro, 2003, pp. 170.

5. Roger Odin, Della finzione. Vita e Pensiero, Milano, 2004.

6. Su Grierson cfr. R. Nepoti,  Storia del documentario, Bologna, Patron, 1988. 
Si veda inoltre il saggio dello stesso Grierson, J. Grierson, Documentario e realtà, in “Bianco e Nero”, 1950.

7. Id., pp. 11.

8. Sul rapporto tra realta e finzione nel cinema Roger Odin, della scuola francese, è un autore chiave. 
Cfr. R. Odin, "L'entrée du spectateur dans la fiction", in J. Aumont, J.L. Leutrat, Théorie du film, Paris, 1980. 

9. A tal proposito si veda C. Metz, Cinema e psicanalisi, il significante immaginario, Venezia, Tascabili Marsilio, 1980.

10. L’approccio della semiologia al consumo del mezzo audiovisivo vede in Christian Metz un autore di grandissimo rilievo. Si veda in particolare C. Metz, Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972.

11 È dunque principalmente, in definitiva, il modo in cui lo spettatore percepisce il film, la modalita del consumo, a polarizzare l’inclusione di un prodotto in una macrocategoria come quella del documentario, come emerge in B. Nichols, Representing reality. 
Issues and concepts in documentary
, Indianapolis, Bloomington, 1991.

12. Si veda in particolare Lino Miccichè, Studi di dodici sguardi d’autore in cortometraggio, Torino, Lindau, 1955. 

13. Augusto Sainati, “Stile e formato dell’informazione ‘Incom’”, in A. Sainati, La settimana Incom, 
cinegiornali e informazione negli anni ’50
, Lindau, Torino, 2001.



bibliografia

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in Che cos’e il cinema?, 
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