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  • | prima parte |
    Il giudizio dei mostri. Il fantastico italiano e i suoi lettori
    | seconda parte | di Vittorio Frigerio
    salgari
    I l lavoro recentemente pubblicato da Fabrizio Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932, di cui abbiamo già scritto nel numero precedente di Quaderni d’Altri Tempi non può non occuparsi della dimensione del Grand Guignol e quindi di tutto l’armamentario truculento e feroce che lo caratterizzava e che spesso ruotava intorno al patibolo.
    È lo spettacolo del patibolo che, per Zolla
    1, fa che “il pubblico dei paesi fortemente industriali è giunto a misure assai violente come norma, e un dosaggio minore lo irrita invece di affascinarlo, produce noia e impazienza” (Zolla, 20). L’eccesso sistematico, la spinta perpetua ad andare oltre, a sorpassare quanto si offre come estremo e dunque finalmente insorpassabile, diventa la condizione sine qua non per la scrittura di testi marcati dal punto di vista generico, e che si sforzano di portare il lettore sempre un gradino più in alto, su di una scala di sensazioni ipoteticamente interminabile. O per dirla ancora con Foni, “la grande bolgia di divertimenti vuole divertimenti sempre più grandi, in senso letterale ed emozionale” (Foni, 278).

    Foni fa notare giustamente come temi, soggetti, personaggi, situazioni, emozioni, transitino irresistibilmente da un media all’altro a mano a mano che gli sviluppi tecnici offrono all’industria culturale, e al pubblico di massa che essa serve, nuovi sbocchi per mettere in scena diversamente situazioni simili.
    La cinematografia internazionale attingeva al Grand Guignol francese e viceversa faceva il Grand Guignol; i due media prendevano dalla narrativa popolare, e quest’ultima pescava da entrambi, con la conseguente creazione di una pressoché infinita serie di varianti e di stereotipi (Foni, 269). Rimane forse da determinare se la transizione da un genere nell’altro sia o meno “rapporto di degradazione, d’avvilimento” (Zolla, 29). Un numero sufficiente di studi pare aver mostrato negli ultimi decenni come tali mutamenti non possano arbitrariamente ridursi a degenerazioni, ma rappresentino invece sistemi complessi di passaggio di senso e d’immagine tra media dotati di qualità e di capacità particolari, non equivalenti, ma neppure riducibili a gerarchie rudimentali dettate da preconcetti tradizionali
    2.

    Fatto sta che non si dà in generale evoluzione al livello dei contenuti, se non in misura spesso minima o grazie all’apporto eccezionale di un autore particolarmente dotato e capace d’imporre una certa personalità attraverso schemi conosciuti, ma piuttosto reiterazione di dati essenziali.
    E il fantastico, in tutto ciò? Dove sarebbe andata a finire la famosa indecisione tanto cara a Todorov, in quel mondo adulterato dove i trucchi sono talmente volgari ed approssimativi da non  poter pretendere d’invischiare che il più scimunito e sprovveduto dei lettori? Foni tocca giustamente su questo punto citando un passaggio tratto da un romanzo di Gaston Leroux dove il gestore di un’attrazione, dopo aver rivelato i suoi trucchi a dei visitatori alquanto scettici, dichiara: “Voi non siete venuti in cerca di emozioni forti, e così vi ho fatto vedere le cose come sono in realtà. Ma ci sono persone che si arrabbierebbero con me se svelassi il trucco. C’è gente, sapete, che ama queste cose.” Al che il critico, al contempo smaliziato e ironico, aggiunge: “E questo, noi, lo sappiamo benissimo” (Foni, 235). 

    È forse a questo  punto che deve situarsi un esame della natura di codesto “fantastico”, così onnipresente, così universalmente letto, e così totalmente dimenticato. Chi è questa “gente”? Perchè dunque ama queste cose? Cosa può giustificare la distanziazione sorridente, il second degré presente perfino nell’opera di massa stessa, come qui in Leroux, peraltro maestro di questo tipo di discorso e capace d’infarcire i suoi romanzi di riflessioni esperte sulla sue stessa pratica3? Zolla, situandosi sulla scia di una tradizione critica già da lungo tempo consolidata al momento della pubblicazione dei suoi lavori sulla cultura di massa4, oppone al rapporto schietto che unisce il lettore all’opera di qualità, che porta a conoscenza di sè e del mondo, quella lettura succube che caratterizzerebbe il consumatore di finzioni massificate. La sua tesi si basa sul concetto di “fantasticheria”, riassumibile come immaginazione povera, che si concentra su alcuni elementi stereotipi impossibili da volgere in realtà articolata, in quanto privi di autenticità e di conseguenze. Proprio della fantasticheria sembra quel girovagare al contempo affascinato e superficiale del lettore di storie fantastiche, simile al pubblico delle fiere.
    Si desidera visitare un luogo? La fantasticheria s’appaga e indugia al passeggio per quel luogo ridotto a pochi elementi, quelli stereotipi, poichè il sognatore è un viaggiatore di fiaba che s’aggira per borghi dove le case hanno solo facciate senza interni (Zolla, 39).

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    1. Elémire Zolla, Volgarità
    e dolore
    , Bompiani, Milano, 1962, pag. 141.
    2. Si vedano a riguardo
    lavori di Marc Lits
    sul concetto di “cultura mediatica”, in particolare
    in La Culture médiatique
    au XIX et XX siècles
    ,
    Les dossiers de l'ORM COMU No 6, Novembre 1999 (disponibile a:
    http://etc.dal.ca/belphegor/
    vol7_no1/fr/bibbel_fr.html)
    3. Su questo autore si veda
    in particolare il numero 7 (autunno 1996) della rivista Tapis-franc, “Leroux,
    la modernité dans les ombres”, diretto da Charles Grivel.
    4. Cioè a partire
    dall’articolo di Sainte-Beuve
    “De la littérature industrielle”,
    pubblicato sulla Revue
    des Deux Mondes

    il primo settembre 1839.

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