Il giudizio dei mostri. Il fantastico italiano e i suoi lettori (prima parte) di Vittorio Frigerio


Questo ricambio generazionale non deve essere sottovalutato. Per quanto le istituzioni siano per loro natura restie a qualsiasi scarto da un canone composto con inenarrabile lentezza e considerato ultimamente alla stregua di qualcosa di naturale – e non un costrutto umano frutto di condizioni sociali e di posizioni ideologiche quanto di principi estetici – vi sono necessariamente momenti dove il cambiamento graduale appare più rapido e più visibile. Non siamo forse ancora vicini a una modifica globale dei parametri di giudizio al seguito di qualche rivoluzione culturale sul modello delle rivoluzione scientifiche mappate da Kuhn, ma un movimento generalizzato è percepibile a più livelli, e ciò fin tra gli augusti ranghi degli “Immortali” dell’Académie Française, che facendo fatica a trovare degni successori ai loro membri discutono seriamente di accettare tra le loro fila registi di cinema – l’arte di massa per eccellenza.

Ma ritorniamo al lavoro di Foni. Per quanto vasto e ben documentato, esso non aspira a rivoluzionare da capo a piedi lo studio della letteratura. Si limita a quel campo particolare, che si tendeva a ritenere alquanto esiguo, della letteratura detta fantastica. E all’interno di quel campo, riesce tuttavia a mostrare come l’idea generalmente accettata del fantastico italiano come raro passatempo di autori sofisticati, non corrisponde alla realtà delle abitudini di lettura di una popolazione che divorava storie orrorifiche con enorme gusto e in quantità notevoli. L’analisi delle forme e dei contenuti di queste storie porta il critico a concludere che “Siamo ben lungi [...] da quel gioco consapevolmente intellettuale che la critica ha invece comunemente ritenuto il processo generativo delle opere fantastiche del primo Novecento italiano” (pag. 28).

Attraverso la presentazione  e la lettura di racconti offerti da un  gran numero di pubblicazioni, tra le quali il Giornale Illustrato dei Viaggi, la celeberrima Domenica del Corriere, La Lettura, Il Romanzo Mensile, Il Secolo XX, l’indimenticabile Per Terra e per Mare di salgariana memoria, e molte altre ancora,  Foni propone una ricostruzione dell’“immaginario collettivo dell’Italia d’allora” (pag. 28). Tra sogni, intrighi, amori e violenze, macabri incontri, orrore e inquietudine dei viaggi in un mondo ancora vasto, sconosciuto e terribile, con l’aiuto di “un gotico di seconda o terza mano” (pag. 61), il lettore italiano scopre e riscopre emozioni non molto dissimili da quelle proposte dai pulp magazines americani. Temi e autori circolano tra le riviste nostrane e quelle d’oltreoceano. Ignoti precursori fanno nell’Italia umbertina commercio d’ambientazioni e di brividi come ne elargiranno poi magistralmente Lovecraft e i suoi epigoni. Spiritismo, metempsicosi, teosofia, scienze dell’occulto sincere o contraffatte forniscono spunti e trame per audaci puntate in mondi sconosciuti, narrate da schiere di autori il cui nome è andato perduto nel vortice della letteratura industriale, che risparmia solo ben pochi. Dalle giungle dei paesi tropicali abitate da inquietanti selvaggi, al circo che trasporta l’esotico nelle periferie delle città e fin nelle campagne, dallo spettacolo orribile e attraente delle esecuzioni capitali alla sua messa in scena nelle baracche delle fiere, dai musei delle cere – novelli cimiteri all’aperto – ai sideshow dimora di storpi, sciancati e mostriciattoli di vario genere, e fino al cinema, grande ricettacolo di tutto ciò che è venuto prima e matrice di ciò verrà  poi, il fantastico regna indisturbato.

Se non si dovesse dunque riconoscere altro merito all’accurata ricerca di Foni, sarebbe senza dubbio quello di mostrare – esaurientemente e con prove tangibilissime – come l’idea generalmente accetta del fantastico italiano sia in realtà limitativa, costruita sulla base di una scrematura tale della produzione letteraria dell’epoca da far passare una serie minuscola di opere destinate a circoli ristretti, come unici esempi importanti del genere, allorché appunto dal genere stesso si distanziano, per lo più ironicamente.

Vorrei prendere spunto da queste osservazioni, per proporre alcune riflessioni sulla natura del fantastico, e soprattutto sui suoi usi e i suoi consumi, partendo dalla premessa che la critica, per essere utile, deve essere “rispondenza, antifona [...], prosecuzione [dell’opera], pertanto crescita del testo originario.”  Per far ciò, sperando che mi si perdoni l’anacronismo apparente, mi baserò su alcuni giudizi di uno degli oppositori più intransigenti della cultura di massa, Elémire Zolla, autore della citazione precedente[2]. Difficile infatti non riconoscere nei termini scelti da Zolla per definire alcune tra le pecche più visibili dell’industria culturale i caratteri stessi di buona parte dei racconti fantastici di grande consumo identificati da Foni. “L’industria culturale [...] anchilosata e spettrale” (Zolla, pag. 13), dove “tutte le malattie hanno il loro banco di smercio” (Zolla, pag. 11) è in effetti ben vicina a quelle narrazioni la cui “palese finalità [...]è soprattutto quella di suscitare meraviglia, paura, sconcerto” (Foni, pag. 28), e che in ciò giocano deliberatamente sull’attrazione del malsano, sul fascino del morboso, sulle pulsioni inammissibili che circolano appena sotto la pelle e si manifestano con l’ipocrita copertura della curiosità per l’esotico, del desiderio di conoscenza “scientifica”, dell’esame clinico, obiettivo e distante, come quello promesso dai baracconi delle fiere così sovente usati come ambientazione del fantastico di massa ritrovato da Foni nel suo lungo vagabondare tra le pagine dei giornali dei nostri nonni e bisnonni. Mistero, certo, ma imbellettato, artificioso, del genere che richiede una dose non indifferente di suspension of disbelief perchè il lettore si lasci irretire. Un’analogia offerta da Foni illustra meglio di qualunque altra il lato al contempo unico e stereotipato delle emozioni violente che si susseguono con candenza irresistibile sulle pagine della riviste di una volta.

Il patibolo è un palco che ogni volta offre una rappresentazione unica e irripetibile: le esecuzioni si susseguono, ma i soggetti, per forza di cose, sono diversi. Né più né meno che al Grand Guignol: numerose esecuzioni per soggetti che variano – a volte nemmeno troppo, proprio come i tipi umani. E questa forma di iterazione è straordinariamente affine a quel desiderio di serialità che alimenta i prodotti dell’industria culturale. (Foni, pag. 250)
 


[2] Elémire Zolla, Volgarità e dolore, Bompiani, Milano, 1962. p. 141. Zolla è anche l’autore di un altro importante libro di critica dell’industria culturale, L’eclissi dell’intellettuale (Bompiani, Milano, 1965). Ispirato in queste opere dalle tesi della scuola di Francoforte, Zolla è stato un avversario irriducibile di Umberto Eco, da lui considerato uno studioso superficiale. Quest’ultimo l’ha parodiato nel suo Diario Minimo e certe prese di posizione di Zolla possono essere riconosciute nelle teorie degli “apocalittici” di Apocalittici e integrati (Milano: Bompiani, 1976).
 

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