La storia siamo noi?

 

di Gennaro Fucile

 

Gli aforismi non dicono mai la verità, sostiene un aforisma di Karl Kraus, o ne dicono mezza o una e mezza. Oggi i migliori aforismi ci arrivano dai claim pubblicitari, dai titoli delle trasmissioni televisive, dai payoff dei periodici. Una prova? Ci ha pre-detto di più del nuovo mondo che stava avanzando il fulminante “potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi siamo scienza non fantascienza”, che un bel po’ di fumose analisi sociologiche.

“La storia siamo noi” il programma-testata di Giovanni Minoli offre un poderoso contributo alla comprensione dell’oggi e da qui val la pena di partire per indagare sull’implosione del tempo.

La storia siamo noi è un corto circuito semantico: Noi, qui, oggi, in questo presente, siamo la storia? Come è possibile? Non si dà storia senza passato, eppure ognuno di noi sembra essersi trasformato in un contenitore di avvenimenti, in una banca dati di esperienze, in un museo portatile.

Facciamo un passo indietro e scopriamo l’ennesima massificazione di un’esperienza elitaria, derivante dal mondo dell’arte, delle avanguardie in particolare o delle celebrità e dei potenti in genere.

In questo caso, l’illustre precedente è il Vate, Gabriele D’Annunzio, che emblematicamente erige un museo a se stesso, il Vittoriale, nove ettari di memorie di un uomo in vita, costruito tra il 1921 e il 1938 (l’anno della morte di D’Annunzio, ovviamente). Nel Vittoriale D’Annunzio consacra l’individuo come opera d’arte, il vivente, non il defunto cui si confà il mausoleo. In quanto opera d’arte si costruisce un museo a misura del proprio ego, enorme. Quanta fatica, quale impegno nel tentativo di costruirsi un’immagine (allora non si usava esprimersi così), di erigere un’imperitura celebrazione del proprio io. Sarebbe bastato nascere nel dopoguerra e anche il poeta si sarebbe procurato quei quindici minuti di fama che non si negano a nessuno, come annunciò Andy Warhol (un altro che non scherzava quanto a costruzione d’immagine).

Anzi, oggi ci si accontenta di ancora meno, ad esempio di una manciata di secondi su YouTube. Ecco il passaggio dalle avanguardie artistiche alle arti di massa e infine all’arte della partecipazione di massa all’arte.

L’estetizzazione del mondo realizzata con la complicità del design ha progressivamente trasformato prima gli strumenti della vita quotidiana in oggetti in primo luogo di pertinenza dell’estetica, e successivamente la massa dei fruitori in manufatti artistici, plasmati e modellati dalla vita.

Senza dilungarci sull’egemonia del design, basterà ricordare come la Apple sia risorta a un passo dal tracollo grazie alla linea I-Mac, grosso modo identica nelle prestazioni ai concorrenti, niente affatto rivoluzionaria come concezione rispetto ai primi McIntosh, ma strepitosa per linee, colori e struttura. Questo per quanto concerne la capacità di incidere sulle scelte della gente comune, al punto che oggi tutto si discrimina in base alla quota di design incorporato.

Il design è ovunque tranne che nel design, forse, come la fantascienza.

Sarà per questo che Bruce Sterling annota: “Non è un caso che sia il design sia la fantascienza americani datino agli anni Venti… Nella loro gioventù, sia il design sia la fantascienza s’incentrarono senza alcuna remora sulla meraviglia, la velocità e la spettacolarità”,[1] e nella loro maturità si siano resi indistinguibili dal mondo delle cose dissolvendosi nei rapporti intrattenuti tra gli esseri umani e le cose stesse. Ma se ognuno di noi è un oggetto d’arte, è destinato per forza di cosa a finire anch’esso nel luogo deputato dell’arte: il museo.

Qualche differenza di classe però tuttora sopravvive e non tutti possono permettersi un Vittoriale, allora per musealizzarsi sarà necessario ricorrere a qualche trucco, meglio se a buon mercato, e l’elettronica di consumo sempre più alla portata di tutte le tasche svolge una funzione ideale. Il vissuto appena trascorso trasformato in database è però solo un aspetto della nostra condizione museale, che non solo è fatta di archiviazione perenne, ma anche di fruizioni sviluppate nel segno del passato vivente o del presente trascorso, comunque di un esperire trasversale non più collocabile nella comoda sequenza “ieri-oggi-domani”. Per meglio comprendere la base materiale che supporta questo passaggio, per la dirla con György Lukács, al presente come storia, consideriamo l’attività intorno alla quale ruota tutto il cosiddetto tempo libero: lo shopping e di conseguenza gli oggetti, i “rapporti sociali resi durevoli”, come afferma Daniel Miller[2]. Quando ci rechiamo nelle grandi e nelle piccole moderne strutture di vendita, con naturalezza facciamo dello zapping temporale. Aggirandoci tra i veri reparti, osservando gli scaffali, incontriamo dei veri e propri fossili.

Il prodotto sfuso, ad esempio, ritorna nel self service in nome dell’ambiente. Fare la spesa diventa un gesto vintage e il prodotto si denuda, niente packaging per comunicare, no logo, il messaggio è diretto: qualità come una volta, punto. Si iniziano così a vendere detersivi, pasta e vino anche in Italia. In parallelo, se confezione dev’esserci, allora niente possiede il potenziale comunicativo di cui possono disporre packaging come quello del doppio concentrato di pomodoro Mutti, le pastiglie Leone, il liquore Cherry stock o il fruttino Zuegg.

Un revival che non riguarda solo l’alimentare, Feltrinelli docet. Per i cinquant’anni d’attività ha ripubblicato nel 2006 alcuni classici del catalogo, come Il Dottor Zivago di Boris Pasternak in una nuovissima collana. Titolo: Vintage e i libri sono copie conformi delle edizioni originali pubblicate decenni fa. Non è tutto, se l’acquisto si pone al riparo dall’incuria dei tempi (post)moderni, anche la scena del commercio restaura il fascino delle botteghe e degli antichi mestieri. Teatri di vendita costruiti con trucco sapiente, ottenendo finzioni credibili. Si mostrano come fotografie d’epoca, luoghi che rimaterializzano il passato e i saperi professionali, artigianali di una volta. Spettacolare l’esempio della catena alimentare La Cure Gourmande in Francia, il negozio delle cose buone della nonna, cromaticamente a cavallo tra i due secoli, ma sono il XIX e il XX.

Non parliamo poi delle micro-simulazioni, gli allestimenti che ripropongono le esposizioni tipiche dei mercati all’aperto, banchetti con piatti d’olive e cartocci in bella mostra. Per non dire di panettieri, cuochi, cantine e cucine in bella mostra nelle superfici di vendita più grandi come gli ipermercati. 

Non è solo marketing, o meglio è il marketing che al tempo stesso fa leva su un bisogno di rassicurazione e quindi di passato, e al tempo stesso ne alimenta la restaurazione. Il vero cibo del futuro è quello cucinato come una volta (o immaginato come tale) e non ha nulla a che fare con i piatti pronti consumati nel film 2001 Odissea nello spazio, anzi, oggi nelle astronavi ci vola il vino in brick Tavernello.

 


[1] B. Sterling, La forma del futuro, Apogeo, Milano 2006, pag. 27.

[2] Citato in H. Molotch, Fenomenologia del tostapane, Raffaello Cortina, Milano, 2005, pag. 16.

    (1) [2]