A futura memoria di Adolfo Fattori

 


Ora, la consapevolezza della propria finitudine ha come conseguenza diretta la paura dell’oblio, dell’essere dimenticati, e quindi di scomparire non solo fisicamente, dalla sfera d’azione dei sensi (vista, udito, tatto…), ma anche affettivamente, dalla memoria e dai ricordi degli altri uomini.

E la produzione di oggetti estetici è un modo – alla fin fine – per sperare di sfuggire al rischio dell’oblio.

Problema esplicitato, all’inizio della fase matura della modernità, la “Grande Guerra”, da un filosofo, Rosenzweig, che, come ricorda Cavicchia Scalamonti,[7] proprio sulla base dell’esperienza di soldato in trincea, trae la consapevolezza che i sistemi esplicativi omnicomprensivi e “razionali” prodotti dalla modernità durante il suo percorso falliscono di fronte ad una evidenza: quella dell’esplodere, grazie a fenomeni catastrofici e definitivi come le guerre, di una emozione primigenia, precedente a tutto, una angoscia di morte che le varie formazioni sociali hanno cercato di disinnescare e occultare in varie maniere, ma che finisce per riemergere prepotente.[8]

Questo riguarda i singoli, ma riguarda anche, credo, il genere umano nella sua totalità.
E questo spiega il senso profondo delle placche metalliche sulle sonde Pioneer e Voyager – e del racconto di Clarke, non a caso uno scienziato. Disseminare nello spazio la traccia della propria esistenza per l’eternità.
Ma prima di queste piastre c’è altro, se non cronologicamente, topograficamente, per evitare di correre il rischio di essere scambiati per personaggi dei fumetti.
Noi siamo abituati, quando pensiamo ai musei, a riferirci a quelli di Storia dell’arte – o a quelli di Storia naturale, al massimo. Luoghi dove vengono esposti i capolavori della creatività estetica umana, o i repertori di prodotti di madre natura.

Ma ne esistono altri, quelli dedicati a oggetti non meno significativi: i musei della cultura e della civiltà materiale – e quindi anche i musei della scienza.
Ce ne sono, degli uni e degli altri, di bellissimi. Tutte creature e testimonianze del trionfo della Modernità. In termini, volta per volta, di memoria del passato: i musei della cultura o della civiltà contadina; di celebrazione del presente, e di proiezione al futuro: i musei della scienza e della tecnica.

Trionfo del moderno, perché l’epoca appena conclusa è stata quella che più di tutte ha condotto una percezione del tempo dinamica, tale da distinguere fra tempo della tradizione, dell’attuale, e del progetto. E ha conservato la storia e proposto l’avvenire attraverso i musei, luoghi dove bisogna recarsi, con curiosità, attenzione, concentrazione, a osservare e conoscere il mondo umano e quello naturale.

Perché tutto lo sviluppo della modernità è stato segnato dalla classificazione, dalla produzione, dalla ricerca.
E i musei sono i luoghi dove noi uomini mostriamo a noi stessi come è fatto il mondo e cosa abbiamo fatto noi, attraverso la raccolta delle pietre miliari del nostro percorso.

A futura memoria, ma per noi stessi.

Ma ora siamo nella postmodernità, in quel “terzo millennio”, in quel “2000” delle meraviglie, identificato dalla fantascienza e dalla futurologia come sinonimo di futuro realizzato. E inaugurato, non a caso, simbolicamente ma anche tecnologicamente, dallo sbarco sulla Luna, e lastricato lungo i sentieri stellari dalle sonde Pioneer e Voyager, e dalle loro targhe.
E dove esiste solo il presente, il tempo dell’istante. Possiamo gelosamente blindare il passato, e le sue conquiste, insieme a quelle che – in quello stesso passato – venivano indicate come conquiste del futuro prossimo, ma non abbiamo più nulla di nuovo da conservare, se non gli oggetti virtuali che permangono in rete, come i relitti e le scorie dell’esplorazione spaziale vagano nell’universo, nella stessa condizione di nomadismo esistenziale dell’uomo postmoderno.[9]

Insomma, la Storia è finita. Non c’è più prospettiva. … siamo in presenza di un tempo che sembra essere senza più tempo, di fronte a un tempo che trascura il passato e si disinteressa del futuro… Un tempo che non significa più eterno ritorno come era il tempo arcaico, né un accresciemnto continuo sfociato nell’idea di progresso così come è stato concepito agli albori e lungo tutto il periodo storico caratteristico della modernità… il solo scopo che sembra guidare gli uomini è quello di velocizzare il proprio tempo fino ad annullarlo… (e) questo tipo di temporalità elimina ogni fine…ogni possibile direzione… ogni senso.[10]

Ma se il lavoro di assegnazione del senso alle cose è lo scopo della produzione di cultura, e lo scopo di questa è fare i conti con la morte e con il suo significato, dove finiscono percezione della mortalità e ricerca, almeno simbolica, dell’immortalità?

È vero, come scrive ancora Bauman,[11] che questa finisce, profana e triviale, nei quiz televisivi. Ma all’umanità non basta.
Nei musei del quotidiano – arcaico o moderno – esponiamo e celebriamo le nostre protesi, quelle che ci hanno permesso di trasformare il mondo in un mondo-uomo, sempre meno ribelle e terrorizzante all’inizio, sempre meno sconosciuto in seguito.
Dall’aratro al telescopio, tutti gli strumenti che hanno potenziato i nostri organi e le nostre capacità. E che possono servire, in modo complementare, a raffigurarci. 
E quindi il senso dei musei della civiltà materiale diventa questo: il rivolgersi alle razze che verranno dopo di noi, che studieranno i nostri manufatti passati, da cui potranno ricostruire le nostre fattezze, e i progetti per le nostre tecnologie future, da cui forse potranno immaginare i nostri sogni.

E gli incubi che ci avranno cancellato.

Come in quel piccolo capolavoro del cinema di fantascienza che è Il pianeta proibito,[12] in cui gli uomini sbarcati su un lontano pianeta disabitato entrano in contatto con la straordinaria tecnologia che gli abitanti di un tempo, ormai scomparsi, hanno lasciato. Che però è anche quella che li ha distrutti, dando forma e sostanza ai peggiori mostri del loro inconscio.

Una bomba sempre innescata che per poco gli astronauti non rischiano di scatenare di nuovo.

Forse Topolino è meno pericoloso. 


[7] A. Cavicchia Scalamonti, La camera verde, Ipermedium, Napoli, 2003.

[8] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano, 2005.

[9] Z. Bauman, cit., pagg. 215 e segg.

[10] A. Cavicchia Scalamonti, La morte, Ipermedium, Napoli, 2007, pag. 149.

[11] Z. Bauman, cit., pagg. 227.

[12] F. McLeod Wilcox, Il pianeta proibito, USA, 1956. cfr. http://quadernisf.altervista.org/numero5/indexviaggio.htm

 

 

    [1] (2)