Swingin’ Canterbury – Viaggio nella provincia del rock progressivo britannico: 1967-1981
di Michele Coralli

Tuttle Edizioni, Camucia (Ar)
Pagine: 141
Prezzo: € 13

 

 

 

 





 

 

 

Swingin’ Canterbury – Viaggio nella provincia del rock progressivo britannico: 1967-1981 di Michele Coralli

 

Canterbury è la classica “isola che non c’è”. Un movimento musicale che ha attraversato dalla fine degli anni Sessanta il panorama rock e jazz inglese e che continua a sopravvivere grazie all’operosità degli antichi maestri e dei loro seguaci, più o meno degni, certo, ma che sfugge a classificazioni di genere. Anche l’etichetta “scuola di Canterbury” è una semplificazione giornalistica, come premette giustamente l’autore, ma necessaria per tenere insieme un albero di famiglia fitto di nomi e gruppi che hanno come comune denominatore estetico, oltre ovviamente a quelli biografici e comunitari, la fusione di stili diversi e l’abilità di condire con inusitata abilità complessità, lirismo, improvvisazione e una buona dose di ironia e humour. Senza contare l’uso della voce in modo eterodosso, il ricorso a tempi alternativi o inusitati per la musica rock e “accorgimenti” timbrici, quali l’applicazione del distorsore all’organo e al basso.

Nel libro si descrive la genesi del movimento, il seme lo getta il gruppo-embrione dei Wilde Flowers, attivi a Canterbury a metà degli anni Sessanta, e si tratteggia il profilo dei suoi figli prediletti, Soft Machine, Caravan, Hatfield and the North, Matching Mole e Robert Wyatt, National Health e Gong insieme ad epigoni, paracanterburiani e tricche ballacche… spingendosi fino ai primi Ottanta.

Si tratta di un buon esercizio di topografia canterburiana e certamente si pone a un livello ben superiore a quelli medi di certa pubblicistica rock italiana (come d’altronde altri titoli della collana).

Non mancano tuttavia alcuni buchi neri. Deboluccia la motivazione che porta ad escludere gli Henry Cow (perché allora ci sono Keith Tippett e Lol Coxhill?) e relativa genealogia. Misterioso anche lo scarso peso dato a tutto il movimento del jazz inglese della fine degli anni Sessanta. Si dedicano più righe ai “regressive” Camel che ai Delivery, laboratorio “proto Hatfield” dove incrociano alcuni dei più nobili esponenti della scena, come testimoniano alcuni nastri pubblicati di recente con la ristampa dei due lavori su Caroline del duo Lol Coxhill-Steve Miller (vedi Quaderni d’Altri Tempi n.9). Lo stesso discorso vale per alcuni materiali live di Soft Machine e Hatfield and the North ristampati da etichette canterburiane o dagli stessi musicisti (es. “Hatwise Choice” e “Hattitude” per gli Hatfield), che se non ignorati avrebbero permesso un’analisi più originale e approfondita della loro evoluzione artistica.

Ad esempio, non si prendono minimamente in considerazione le diverse (e importanti) registrazioni alla BBC dei Soft Machine, citando solo quelle incomplete apparse sulla raccolta “Triple Echo”. Questo scarso uso di fonti originali è forse la ragione di osservazioni stereotipate quali il solito riferimento a Miles Davis parlando di “Third” dei Soft Machine.

Non si può tacere, poi, sul numero eccessivo di refusi, sviste e confusioni varie. Giusto per capirci: “scapola” per “costola” (p. 75); Phillips (casa discografica, cioè la Philips) (p. 88); “lo scrittore underground parigino Dashiell” (e il cognome Hedayat?) (p. 88); “noto per i suoi decorsi negli This Heat” (che oltre tutto erano di là da venire) (p. 88); “autosfagellazione” (p. 91); “Bifore” (pp. 91-2);  “Oscure di Brian Eno”, cioè la Obscure (p. 100); “Pyp Pile”, ovvero Pip Pyle (p. 109).

Confusioni e imprecisioni. L’Ufo, ad esempio, non era una ex sala da ballo: continuava a esserlo e solamente una volta la settimana si chiamava Ufo con quel che ne conseguiva riguardo alla musica. E John Hopkins non era il “proprietario” ma l’organizzatore – assieme a Joe Boyd – delle serate. Quanto alle “lamentele del vicinato”, l'Ufo non si trasferì alla Roundhouse per questo motivo, ma perché il proprietario della sala da ballo fu messo alle strette dalla polizia (che minacciò un'irruzione e il possibile ritiro della licenza se l'Ufo avesse aperto quel fine settimana) dopo che un giornale aveva pubblicato in prima pagina una foto sgranata e sfocata di una ragazza a seno nudo, strillando che la ragazza aveva quindici anni e che la foto era stata scattata nel tempio di perdizione hippie noto come Ufo. (ancora sulle fonti, White Bicycles: Making Music in the 1960s di Boyd è una gran bella miniera di informazioni, ma qui è curiosamente ignorata).

Infine, il fatto di scegliere il 1981, anno di delimitazione del periodo d’oro di Canterbury, è senz’altro legittimo. È l’anno dell’uscita di It’s My Party, “raffinata pop-song dall’immancabile sapore eighties” confezionata dal duo Dave Stewart-Barbara Gaskin: una cover di un hit degli anni Sessanta (di Riener-Gold-Gluck junior) che scala le classifiche inglesi arrivando addirittura al primo posto. Un evento che ha dell’incredibile per dei canterburiani doc, gente da sempre refrattaria allo show business e forse la spia, fa intendere l’autore, di un cambiamento o della chiusura di un’epoca. Mah, forse. Oggi, però, possiamo dirlo: quel successo fu solo un incidente di percorso. Stewart, Gaskin, Miller, Wyatt, Hopper e compagni hanno nel frattempo tirato dritto per la loro strada. Con buona pace di chi cerca di archiviarli a tutti costi.

     Recensione di c.b.