Le catastrofi gemelle di Adolfo Fattori

 


Proprio in apertura, predisponendo la sua critica nostalgica al trionfo degli stati nazionali che sostituiscono l’idea imperiale, e rappresentano il trionfo demoniaco della razionalità sul sacro e sull’irrazionalismo, Werfel scrive che

Questo mondo è scomparso per sempre. La sua morte, dopo il lungo crepuscolo della vecchiaia, non fu lieve, ma travagliata da una dolorosa agonia. Moltissimi dei suoi figli però vivono ancora e parecchi di loro sono figli consapevoli. Essi appartengono a due mondi, a quello morto non ancora estinto in loro, e al mondo nuovo degli eredi, che li ha rilevati come si rileva una merce in liquidazione. Appartenere a due mondi, abbracciare con un’anima sola due età, è una condizione veramente paradossale, che si ripete di rado nella storia, ed è imposta solo a poche generazioni umane.[17]

In queste parole è evidente tutto il senso di spaesamento vissuto da molti a ridosso della sconfitta e della fine dell’Austria-Ungheria, la nostalgia per un sistema sociale scomparso, in fondo, seppure in controluce, il mito dell’eterno ritorno.

Il senso di morte aleggia ovunque, nella percezione di coloro – e fra questi Werfel – che si sentono dei sopravvissuti. L’omologo di coloro che, nella narrativa contemporanea, popolano i mondi atomici descritti nei romanzi fantascientifici del dopobomba.

Una interpretazione molto più sarcastica e feroce dello stesso dramma storico la dà invece un concittadino di Werfel, Jaroslav Hašek, in Il buon soldato Sc’vèik.[18]

Hašek presenta così, nella prefazione al romanzo, il suo eroe eponimo:

Una grande epoca esige grandi uomini. Vi sono degli eroi ignorati ed oscuri, privi della fama e della gloria d’un Napoleone…Oggigiorno si può incontrare per le vie di Praga un uomo trasandato, che non sa affatto quanta importanza abbia avuto la propria opera nella storia di un’epoca grande e nuova come questa… Se gli domandate come si chiama, vi risponderebbe con l’aria più semplice e più naturale del mondo: “Io sono quello Sc’vèik…”

“Idiota notorio” con tanto di patente dell’imperial-regia amministrazione austro-ungarica (il Kaiserlich und Königlich che servì a Musil per coniare il termine Kakania), Sc’vèik si ritrova trascinato in una guerra di cui sa poco, e di cui poco gli importa. Galleggiando attraverso gli avvenimenti, schivando inconsapevole (ma quanto?) la stupidità dell’apparato e della burocrazia militari, riesce a sopravvivere al disastro, senza però averne troppa consapevolezza.

È per certi versi l’altro polo degli uomini – che immaginiamo consapevoli e spaventati – di cui scrive Werfel al guado fra le due epoche. Ma ne è anche lui un rappresentante. Un individuo di quella massa che molti degli intellettuali dell’Impero temevano – lo stesso Werfel, Broch, Canetti. Un progenitore dell’uomo massa della Modernità.

Che ritroviamo rappresentato in Forrest Gump, protagonista del film omonimo.[19] Un individuo dimentico di tutto, infantile e deresponsabilizzato, su cui scivolano, senza toccarlo, eventi e mutamenti.

E tutta la sua vita (di Forrest) sarà caratterizzata da questa specie di fraintendimento; una vita letteralmente invasa dagli avvenimenti, da cui, impossibilitato a contenerli, sembra che si difenda filtrandoli, deformandoli, allontanandoli.[20]

Forrest semplifica le cose, è in grado di trarne il succo, lasciando da parte ciò che è superfluo. E in questo sceglie, fra ciò che è giusto ricordare e ciò che è meglio dimenticare. Scivola fra gli eventi, è privo di memoria storica, quindi non percepisce lo scorrere del tempo storico, del tempo sociale. Segue un tempo degli affetti che gli permette di estrarsi dalle vicende umane, e dialogare con il passato e con i morti, ma in una sorta di sospensione temporale.

È in questo che assomiglia a Sc’veik: il buon soldato, anche lui, è impermeabile alla storia, fedele in fondo alla sua Kakania, ormai svanita, dissolta. Uomini fuori della storia.

Con una differenza, naturalmente. Sc’veik ha lo sguardo ancora rivolto al passato, come i suoi contemporanei abitanti dell’Impero. Forrest lo ha in un presente che si estende lungo tutto il tempo. Vive fuori della Storia: è il perfetto esempio dell’uomo della contemporaneità.

Ma tutti e due non sono toccati, veramente, dalle catastrofi del loro tempo.

Altri se ne sono occupati.

Karl Kraus, Canetti, Broch[21] hanno descritto l’Apocalisse del loro tempo, forse con una oscura premonizione della forza del fuoco come strumento della distruzione.

Il cinema, spesso, le nostre, e quelle che ci aspettano.

Certo, non possiamo aspettarci sul piano narrativo romanzi fiume come quelli della prima metà del Novecento, il periodo in cui questa forma del discorso narrativo raggiunse la sua maturità.

Ma abbiamo appunto il cinema, e quella narrativa rivolta al futuro che però non è più, semplicemente, fantascienza.

La disfatta in Vietnam, per rimanere al periodo storico coperto da Forrest Gump, ha prodotto, per esempio, veri capolavori della cinematografia america, da Il cacciatore a Apocalypse Now.[22]

Ma non solo il cinema ci dà segnali della profondità del disagio e della percezione della dimensione di crisi in cui ci troviamo a vivere.

E si pensi al protagonista di Le particelle elementari, un altro nomade della vita e della storia, disincantato ed egoista, circondato da personaggi nevroticamente autocentranti e impotenti come lui. O ai personaggi dei romanzi di Ballard, da Crash in poi.

O all’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, La strada, in cui in un mondo postcatastrofe, trasformato in un deserto di cenere e freddo, un uomo e il suo figlioletto vagano alla ricerca di una meta di fatto irreale, ipostatizzata.

A volte il bambino gli faceva domande sul mondo, che per lui non era nemmeno un ricordo. L’uomo rifletteva a lungo prima di rispondere. Non c’è nessun passato…

… Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui.[23]

Ancora una ricerca dell’eterno ritorno, che forse riconduce al bisogno di una dimensione sacrale da cui la modernizzazione ci aveva separato[24], che i mitteleuropei percepivano e rivendicavano, ma che può darsi sia ancora desiderata, inconsapevolmente, magari attraverso il virtuale e gli orizzonti che offre.[25]

 


[17] Ibidem, pag.11, tondo nostro.

[18] J. Hašek, Il buon soldato Sc’vèik, Feltrinelli, Milano, 1992, pag. 7.

[19] R. Zemeckis, Forrest Gump, USA, 1994.

[20] A. Cavicchia Scalamonti G. Pecchinenda, La memoria consumata, Ipermedium, Napoli, 1996, pag. 33.

[21] Bastino come esempi H. Broch, Sortilegio, Rusconi, Milano, 1982; E. Canetti, Autodafè, Garzanti, Milano, 12967; K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, Adelphi, Milano, 1980.

[22] M. Cimino, Il cacciatore, USA 1978; F. F. Coppola, Apocalypse Now, USA, 1979.

[23] C. McCarthy, La strada, Einaudi, Torino, 2007, pag. 42.

[24] Cfr.L. Ferry M. Gauchet, Il religioso dopo la religione, Ipermedium, Napoli, 2005.

[25] M. Davis, Techgnosis, Ipermedium, Napoli, 2001; G. Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione, Laterza, Roma-Bari, 2003.

 

    [1] [2] (3)