Suoni ai margini della Galassia

 

di Gennaro Fucile

 

Jimi Hendrix risorge, ritorna come un feedback della tellurica Stratocaster, un’emanazione, una scossa al mondo. Impostore, doppio, proiezione, non importa. Girovaga per l’Inghilterra, portato a spasso da un roadie in odore di zombie, che finirà soffocato dopo un’overdose… come Jimi. Accade in un racconto di Michael Moorcock, A Dead Singer (Un cantante morto, Robot 24, Armenia 1978), ponte ideale tra mondi restii a incontri ravvicinati: fantascienza e musica, soprattutto pop. Prima poca musica e qualche compositore in una esigua pattuglia di storie: Strauss anch’egli resuscitato in A Work of Art (Un’opera d’arte, in Le grandi storie della fantascienza 18, Bompiani 1989) di James Blish, la musica marziana registrata da Isaac Asimov in The Secret Sense (Il senso segreto, in Tutti i racconti, vol.3, Mondadori, 1996), e il suono del silenzio che si respira nel racconto di James Ballard, The Sound Sweep (Lo spazzasuoni, in Incubo a quattro dimensioni, Mondadori, 1978).

Due i lavori di più largo respiro costruiti intorno alla musica: The Rose di Charles L. Harness (La rosa, in Odissea del superuomo, La Tribuna, 1970) e Space Opera (L’opera dello spazio, Mondadori 1983) di Jack Vance.

Nel primo la musica e l’arte in genere fronteggia la scienza alla ricerca di una sintesi culturale in grado di far germinare una nuova umanità. Uno scontro di classe sul piano del sapere, più o meno (scritto nel 1953 e si vede). Rutilante il secondo. La tournée sulla Terra di una troupe d’artisti provenienti dal pianeta Rlaru, suggerisce uno scambio con tanto di tour tra i pianeti, che presto si rivela un fiasco a tappe, fino all’insuccesso finale su Rlaru, dove conquista i nativi la Tough Luck Jug Band, il complessino formato da membri dell’equipaggio dell’astronave per ingannare il tempo.

Alto o basso, il gradimento delle note terrestri è irrilevante, in ogni caso il futuro è poco musicale, perché la science fiction classica non necessita di una relazione privilegiata con la musica. L’immaginario sottostante il genere sia nell’età dell’oro che negli incubi della stagione sociologica, è intriso di macchine/gadget nel segno ora del comfort ora del disagio, tecnologie che servono l’uomo e/o lo riducono in schiavitù, tecnologie legate al movimento e al consumo. In questo serbatoio del desiderio, la musica è solo una variante episodica che, talvolta, si presta senza incidere più di tanto all’esecuzione di alcuni temi cari al genere, come i paradossi legati ai viaggi nel tempo o agli universi paralleli. È nel gioco tra i tempi possibili, nei paradossi temporali, che la musica stacca qualche gettone di presenza, esistendo per propria natura solo nel tempo. Motivi chiave come il corpo artificiale e l’identità disintegrata sono eseguiti a meraviglia, in questa dimensione, da figure come il freak/mutante/cyborg, il diverso dunque anche l’artista, il musicista.

Anticipa tutti Philip K. Dick, ma c’è dell’altro: la creatura descritta da Samuel Delany in The  Einstein Intersection (Einstein perduto, La Tribuna, 1979), una storia adornata con citazione  beatlesiane e mito d’Orfeo; soprani e cyborg come in The Ship Who Sang (La nave che cantava, La Tribuna, 1973) di Anne McCaffrey.

Mutazione, anzi castrazione a fini musicali si esegue in Songmaster (Il canto della vita, Fanucci, 1997), di Orson Scott Card, che replica in Unaccompanied Sonata (Sonata senza accompagnamento, in Storie del pianeta azzurro, Nord, 1987) il tema dell’amputazione, anche se qui sono le dita a cadere.

 


 

    (1)  [2]