Come in uno specchio opaco:
le penultime verità dickiane

Philip Kindred Dick
Chicago, 16 dicembre 1928
Santa Ana, 2 marzo 1982.

Philip Kindred Dick
Chicago, 16 dicembre 1928
Santa Ana, 2 marzo 1982.


In una lettera del febbraio 1975 all’architetto Henry Korman – conosciuto durante un’intervista concessa al New Yorker – Philip K. Dick racconta un sogno avuto la notte prima. I sogni avevano un ruolo determinante nella sua vita: era un attento studioso di Carl Gustav Jung e cercava di tener traccia, appena sveglio, di quello che aveva sognato, spesso senza riuscire a distinguere l’esperienza reale da quella onirica. Li raccontava ai suoi corrispondenti e alle diverse mogli che in periodi successivi convissero con lui. Nel sogno raccontato a Korman, Dick si trovava “in un altro universo” dove era un’autentica celebrità:

“Volavo da tutte le parti ed ero sempre famoso, e frequentavo gente importante. Era magnifico. Ero a Londra e Sidney e Roma. Tutto questo era così reale che quando mi sono svegliato, più o meno verso mezzanotte, mi sentivo inorridito per non avere di fatto esercitato tutte le mie opzioni. (…) Sono rimasto sdraiato e ho pensato, Gesù, se non fossi rimasto a casa il mese prossimo e via dicendo, sarei famoso come lo ero in quell’universo che Dio mi ha appena mostrato. Non farei che atterrare in una capitale straniera dopo l’altra da un bel DC-10 con la fusoliera larga”
(Dick, 2015).

Anche se nella lettera non vi fa cenno, in realtà quel sogno altro non era che un pezzo della trama di uno dei romanzi a cui era più legato: Scorrete lacrime, disse il poliziotto. Dick lo aveva scritto tra il marzo e l’agosto del 1970, in una delle fasi più difficili della sua vita: la quarta moglie, Nancy Hackett, lo aveva abbandonato insieme alla figlia Isa, ormai rassegnata alla crescente dipendenza del marito dagli allucinogeni. Il grosso fu scritto, sembra, dopo un trip a base di mescalina: nell’arco di due giorni riuscì a buttar giù quasi 150 pagine. Poi, però, non fu in grado di venderlo. Ad agosto si trovava in tali difficoltà economiche da essere costretto a fare domanda per accedere all’assistenza agli indigenti. La sua casa era diventata il ritrovo di consumatori di droghe di varia natura e di spacciatori di piccolo cabotaggio, mentre le sue preoccupazioni si concentravano sulla svolta reazionaria di Richard Nixon, che nelle prime bozze di Scorrete lacrime era in effetti il nome del presidente-dittatore degli Stati Uniti del futuro.

Nel 1971 si decise a farsi ricoverare in una clinica psichiatrica per alcune settimane. Il 17 novembre di quell’anno, rientrando a casa, la trovò completamente a soqquadro e il suo archivio blindato fatto saltare in aria. Tutto lasciava presumere che si trattasse di un’effrazione compiuta da qualcuno dei numerosissimi tossicodipendenti che Dick aveva ospitato a casa senza nemmeno conoscerne il nome, in cerca forse di qualche dollaro o di qualche dose. Così di certo concluse la polizia, che era ampiamente al corrente tanto delle abitudini di Dick quanto delle sue tendenze paranoiche. Difatti, lo scrittore non si accontentò di quella spiegazione e iniziò a elaborarne svariate, tutte concernenti una qualche cospirazione il cui obiettivo doveva essere quello di mettere le mani sul dattiloscritto di Scorrete lacrime che era invece affidato al suo avvocato. Cosa poteva esserci di tanto importante in quel romanzo? Dick iniziò a chiederselo.

“La strana e inquietante sensazione che i miei romanzi stiano diventando veri”
Ci vollero ancora tre anni, tuttavia, prima che il romanzo vedesse la luce. Nel mezzo ci fu un lungo interludio in Canada, dove Dick visse a scrocco di diverse sue ammiratrici e ammiratori che lo avevano invitato a tenere un discorso a una convention a Vancouver, e dove tentò il suicidio il 23 marzo 1972 ingerendo settecento milligrammi di bromuro di potassio. Non morì, ma finì per un mese in un centro di disintossicazione, prendendo appunti che gli sarebbero tornati utili quando avrebbe scritto Un oscuro scrutare (1977). Fu solo quando, diverso tempo dopo il rientro negli Stati Uniti, conobbe a Los Angeles la giovanissima Tessa e la mise incinta, che si decise a rimetter mano al romanzo per racimolare un po’ di soldi con la sua pubblicazione.
Stava ancora rimuginando sull’effrazione del 1971 e su cosa potesse esserci di così importante in quel romanzo su cui – ne era certo – la CIA, i sovietici o qualche setta demoniaca avevano cercato di mettere le mani, quando, nel febbraio 1974, sofferente per i postumi di un’operazione dentaria, rimase colpito dal ciondolo a forma di pesce indossato da una ragazza venuta dalla farmacia per portargli l’antidolorifico che aveva ordinato. Era – gli spiegò la ragazza – l’antico simbolo dei primi cristiani, che rappresentava la parola ICHTYS, il termine greco per “pesce” ma anche l’acronimo di Gesù Cristo figlio di Dio Salvatore. Da quel ciondolo Dick vide una specie di raggio colpirlo e ne rimane sconvolto: forse per gli effetti postumi dell’anestesia iniziò ad avere una serie di visioni che avrebbe provato a interpretare attraverso una sterminata mole di ipotesi fino a realizzare un tentativo di esegesi della sua stessa produzione letteraria.

Come nel sogno raccontato a Henry Korman, infatti, anche quell’episodio sembrava tratto da un suo romanzo: nel suo capolavoro La svastica sul sole (1962) uno dei protagonisti, il giapponese Tagomi, viene colpito dal baluginio di uno strano ciondolo che ha acquistato dall’antiquario Robert Childan, apparentemente senza alcun motivo, ritrovandosi per alcuni, terribili istanti in una San Francisco parallela dove i giapponesi non hanno vinto la Seconda guerra mondiale e gli autoctoni, anziché mostrare deferenza al suo passaggio, non capiscono la sua insistenza perché gli cedano il posto al bar. Dick si convinse, analogamente, che l’esperienza da lui vissuta dopo l’incontro con la ragazza della farmacia gli avesse mostrato l’esistenza di un’altra realtà diversa da quella in cui viveva: la vera realtà, esattamente come la San Francisco in cui Tagomi per un attimo si ritrova è quella vera in cui l’Asse ha perso la guerra.

“Questo mi fa venire in mente la strana e inquietante sensazione che i miei romanzi stiano gradualmente diventando veri. All’inizio ridevo di questo, come se si trattasse di una cosa da poco, ma col passare degli anni – mio dio, sono ventitré anni che vendo storie – mi sembra sempre più che a piccoli ma solidi passi il mondo sia giunto ad assomigliare a un romanzo di Philip K. Dick”
(Dick, 2015).

Anche questa, in realtà, è un’idea tratta dai suoi romanzi. I protagonisti di L’occhio nel cielo (1957), a causa di un’incidente durante una visita al bevatrone di Belmont, finiscono in mondi diversi, ciascuno frutto delle paranoie dei diversi personaggi e dei quali sono gli assoluti signori. In Ubik (1969), l’altro grande capolavoro di Dick, il mondo sottoposto a degradazione temporale in cui si muove Joe Chip e la sua squadra di inerziali è in realtà una proiezione distorta della mente del semivivo Jory, sorta di incarnazione di Jaldabaoth, il malvagio demiurgo gnostico: il capo di Joe Chip, Glen Runciter, dovrà dar fondo a tutte le sue capacità per riuscire a rompere l’incantesimo di Jory. In Labirinto di morte (1970) la squadra di terrestri in missione su Delmak-O scoprirà a un certo punto che quel mondo non è altro che un’illusione creata dal computer di bordo dell’astronave Persus-9 per evitare che l’equipaggio impazzisca in conseguenza dell’avaria che ha reso impossibile abbandonare l’orbita di una nana bianca.

Scorrete lacrime, disse il poliziotto, scritto dopo questi due ultimi romanzi, porta alle estreme conseguenze questa ossessione di Dick. Il mondo in cui vive Jason Taverner ruota tutto intorno a lui: star di un noto spettacolo televisivo che ogni sera fa trenta milioni di spettatori, è assediato dalle fan e dalle tante amanti. Cantante dotato, avvenente, immerso nel lusso, una sera dopo lo spettacolo è pronto a portare la sua amante di turno Heather Hart nella sua elegante casa di Zurigo, dall’altra parte dell’oceano, a bordo del suo fiammante aeromobile; ma una breve sosta per incontrare un’antica fiamma si rivela una trappola e la donna cerca di ucciderlo. Il giorno dopo Taverner si risveglia nella camera di un albergo di quart’ordine senza che nessuno abbia mai sentito parlare di lui. In quel mondo tutto è esattamente come quello che Taverner conosce: c’è il suo agente, ci sono le sue amanti, c’è lo stesso regime poliziesco impegnato a reprimere le rivolte studentesche nei campus universitari trasformati in lager, eppure il suo spettacolo non esiste e lui nemmeno. Non ha più i suoi documenti e le autorità non hanno un fascicolo su di lui: Jason Taverner non esiste. In un’America dove ogni persona è schedata e in cui essere privi di documenti significa finire in un campo di concentramento si tratta di un bel problema, che ben presto attira l’attenzione del potente generale della polizia Felix Buckman. L’intuito spinge Buckman a rendersi conto che qui non si tratta di un semplice caso di fascicoli fuori posto e di documenti rubati, ma di qualcosa di molto più sinistro: una “perturbazione nel campo della realtà”, come Dick chiamerà le sue esperienze del 1974. Il mondo di Taverner e quello di Buckman sono adiacenti, ma cosa succede se finiscono per sovrapporsi?

È questa la domanda che Philip Dick inizia a porsi ossessivamente quando gli eventi intercorsi tra la fine della prima stesura del romanzo e la sua pubblicazione lo spingono a mettere mano alla sua personale esegesi. Scorrete lacrime, disse il poliziotto non è un semplice romanzo, decide: come La svastica sul sole era stato scritto ricorrendo agli oracoli dell’I Ching, così Scorrete lacrime, disse il poliziotto sarebbe in realtà il frutto di una volontà superiore, un’opera che si scrive da sola e che usa Dick come semplice tramite. Ma a quale fine?

“La nostra realtà è un’astuta contraffazione”
“L’apoteosi della paranoia non è quando tutti sono contro di te, ma quando tutto è contro di te. Non Il mio capo sta complottando ai miei danni, ma Il telefono del mio capo sta complottando ai miei danni” (Dick, 2021). Ogni romanzo e racconto di Dick ruota intorno a un complotto, in un modo o nell’altro. La prima ipotesi di Jason Taverner quando scopre di essersi risvegliato in un mondo in cui nessuno lo conosce è che sia tutta una messinscena. Tempo fuor di sesto (1959) e La penultima verità (1964) sono i romanzi in cui l’ossessione paranoica dell’autore emerge in modo più esplicito. Il primo è quello più iconico, perché riflette la più intima preoccupazione di Dick. Tra le ipotesi che egli avanzerà intorno all’effrazione del 1971 c’è quella per cui il vero artefice non siano i poteri forti, ma lui stesso. Così Ragle Gumm, in Tempo fuor di sesto, nella sua ricerca della verità scopre che sì, la città dove vive è una ricostruzione, nel mondo al di fuori non è il 1959 ma il 1998 e c’è una devastante guerra tra la Terra e la Luna, e tuttavia l’artefice del complotto è egli stesso, che per riuscire a compiere il delicato incarico di preconizzare le traiettorie dei missili balistici si è fatto volontariamente rinchiudere in una copia della cittadina in cui ha vissuto la sua giovinezza e si è fatto cancellare la memoria.

L’ipotesi che Dick esplora a partire dal 1974 è che la realtà in cui vive sia un’illusione: non si trova negli Stati Uniti degli anni Settanta, ma nell’Impero romano del 70 d.C. Gli ultimi millenovecento anni sono stati un’enorme menzogna per nascondere il fatto che Roma non è mai caduta e che il mondo è caduto schiavo del suo imperio fondato sulla forza: un’immensa Prigione di Ferro Nera di cui Dick ha molteplici visioni. Scorrete lacrime, disse il poliziotto ne sarebbe una rappresentazione: la sua ambientazione in un futuro retto da uno stato di polizia mostrerebbe la vera realtà. La forza sovversiva del romanzo consisterebbe nella capacità di rivelare ai lettori questo stato di cose e farli prendere coscienza di vivere in un’illusione.

“Perciò sono costretto a concludere che la nostra realtà è un’astuta contraffazione, reciprocamente condivisa, e che la mente saggia sta cercando di segnalarcelo… per fare cosa? Per liberarsi nell’anamnesi: per liberarci dai ricordi a lungo termine del DNA. Ricordare e svegliarsi sono assolutamente intercambiabili
(Dick, 2015).

Sono idee che diventeranno mainstream in seguito al successo mondiale di un film altamente dickiano come Matrix (1999), la cui assoluta attualità ne ha giustificato il nuovo capitolo cinematografico uscito negli scorsi mesi. Ma non si tratta dell’unico debito che l’immaginario contemporaneo ha nei confronti di Dick, tutt’altro. Il 20 marzo 1974 lo scrittore ricevette quella che chiamò la “lettera Xerox”: due recensioni di libri fotocopiate su cui erano state aggiunte sottolineature a inchiostro rosso e blu. Probabilmente qualche volantino della propaganda comunista americana, che Dick interpretò inizialmente come un avvertimento minaccioso e poi come un modo per riattivargli la coscienza addormentata. Chiamò l’FBI convinto di essere un androide che avrebbe ricevuto le istruzioni per compiere una missione inscritta nella sua programmazione. Il tentativo di decifrare il significato di quella lettera entrò a far parte dell’esegesi che stava compiendo in quei mesi. L’accumularsi di ipotesi e interpretazioni che si spinge fino alla teorizzazione del più vasto e impensabile dei complotti, quello secondo cui il nostro mondo non sarebbe reale ma una contraffazione, richiama al lettore contemporaneo lo scavo esegetico che migliaia di utenti paranoici hanno compiuto negli scorsi anni intorno al misterioso fenomeno QAnon: un utente anonimo che sul web fornisce informazioni apparentemente segrete sull’esistenza di un complotto che vede gli Stati Uniti e l’Occidente intero sottoposti al controllo di una cabala di satanisti, i cui indizi sarebbero sparsi dappertutto.

Il Great Awakening, il “grande risveglio” auspicato dall’utente Q e dai suoi seguaci ha per obiettivo quello di prendere coscienza dell’inganno nel quale l’umanità si ritrova (cfr. Wu Ming 1, 2021). L’intera vicenda di QAnon, le cui ripercussioni sulla politica americana sono state notevoli e – nel caso dell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 – persino drammatiche, sembrerebbe ispirata a un tipico meccanismo dickiano: un ARG, un Alternate Reality Game, in cui cioè indizi sparsi nel mondo digitale e indizi lasciati nel mondo reale si intrecciano per consentire la ricostruzione della verità (cfr. Paura, 2021). Così, nelle opere di Dick i presunti indizi sparsi nei suoi romanzi si fonderebbero con quelli del mondo reale, come il ciondolo di Tagomi ne La svastica sul sole e quello della ragazza della farmacia nel febbraio 1974: entrambi rivelatori dell’esistenza di una realtà nascosta dalla contraffazione.
In Radio libera Albemuth, scritto nel 1976 ma pubblicato postumo nel 1985, prima versione del romanzo Valis (1981), è una misteriosa entità aliena che agisce attraverso un satellite in orbita intorno alla Terra a informare l’umanità del fatto di trovarsi prigioniera in una realtà contraffatta, mentre la verità sul presidente autoritario Ferris F. Freemont, sorta di calco dell’imperatore Nerone (colui che Giovanni indicava con il numero 666 nell’Apocalissi), viene diffusa attraverso messaggi subliminali incisi su un vinile: il presidente è in realtà una creatura dei sovietici! La teoria costruita dai sostenitori di QAnon richiama precisamente questa e altre storie di Dick: in un prossimo futuro qualcuno ha costruito uno strumento in grado di vedere le diverse diramazioni della realtà (il “Looking Glass”), utilizzandolo per prevenire le mosse del Deep State che detiene il controllo del mondo e inviando a ritroso nel tempo attraverso il web una serie di indizi che consentano ai seguaci di Q di realizzare il Piano. Se si riflette sul fatto che Q è anche il nome con cui gli storici delle origini del cristianesimo definiscono la perduta fonte originale dei vangeli sinottici e del vangelo di Tommaso scoperto a Nag Hammadi nel 1945, è ancora più sorprendente ricordare che Dick riteneva che ad averlo informato sulla Prigione di Ferro Nera fosse l’apostolo Tommaso:

“Il concetto che sono un viaggiatore del tempo del 70 d.C. spiega completamente Tommaso. La personalità di P.K.D. è una maschera senza memoria e Tommaso è l’autentica personalità del viaggiatore del tempo, e dunque Tommaso è davvero me stesso… il vero me che è stato spedito qui: come un figlio di ignoti. Io non sono P.K.D., io sono Tommaso… non c’è stata teolessia, solo anamnesi”
(Dick, 2015).

“Dio si muove attraverso il tempo in senso retrogrado rispetto a noi”
Una frase ritorna spesso in Valis e, conseguentemente, nell’Esegesi. È tratta dal Parsifal di Richard Wagner: “Qui il tempo diventa spazio”. Ubik s’ispira esattamente a questo tema: sotto l’effetto della degradazione temporale, la realtà torna alle sue forme platoniche precedenti e gli oggetti possono essere visti nella loro diversa evoluzione attraverso le epoche, come se il tempo stesso si spazializzasse. Così un ascensore moderno torna a essere mosso dall’ascensorista, un aereo moderno diventa un vecchio biplano, una bomboletta spray diventa la confezione di un unguento. È la rappresentazione del “tempo ortogonale”, idea che trae dall’Enciclopedia Britannica, sua principale fonte d’informazione, nella quale s’imbatte nella peculiare teoria del tempo di Kurt Gödel. Esistono – ipotizza Dick – due distinti assi temporali disposti tra loro ad angolo retto: un tempo orizzontale (“come le regressioni della forma si susseguono in Ubik”) e un tempo verticale, quello di cui siamo consapevoli:

“Da cui il tempo cubico, o tempo visto simultaneamente in entrambi gli assi, come lo spazio cubico in alternativa a quello bidimensionale; cioè, il tempo che si muove in due direzioni (dimensioni) alla volta. Gli eventi vengono organizzati in questo ‘spazio’ cubico, o piuttosto in questo tempo cubico, come gli oggetti lo sono dentro uno spazio cubico (…). È del tutto possibile che quest’altro asse temporale (il ‘tempo orizzontale’) sia retrogrado, una direzione cronologica opposta, che insieme al flusso normale crea il ‘tempo cubico’. Una dialettica empedoclea delle forze-tempo che realizza, attraverso la loro interazione, l’equilibrio”
(Dick, 2015).

Un tempo che scorre in senso inverso è alla base di uno dei suoi romanzi minori, In senso inverso (1967), dove un evento misterioso, la Fase di Hobart, ha invertito la direzione della freccia del tempo portando gli esseri umani a ringiovanire anziché invecchiare e i cadaveri a risorgere. Ma è una variante immatura del concetto più ispirato che, dopo Ubik, tornerà anche in Scorrete lacrime, disse il poliziotto, benché solo implicitamente. Qui, infatti, è chiaramente un processo di rapida degradazione temporale che uccide Alys Buckman, l’eccentrica sorella del generale Buchman che è stata la prima ad aver riconosciuto Jason Taverner e a svelargli che si trova in una realtà alternativa. Alys è vittima di un’overdose di KR-3, una droga che altera non solo il senso soggettivo del tempo, ma produce una vera e propria perturbazione della realtà, come spiega al generale Buchman il medico legale della polizia di Los Angeles. Il cervello per funzionare ha bisogno di legarsi tanto al tempo quanto allo spazio, a causa dell’istinto “a stabilizzare la realtà in modo che le sequenze possano essere ordinate in termini di prima e dopo – questo per quanto riguarda il tempo – e, cosa più importante, di occupazione dello spazio”. E cosa avviene quando questa capacità istintiva del cervello viene alterata dalla droga?

“Quando questo avviene il cervello non può più escludere i vettori spaziali alternativi, e si apre all’intera gamma delle variazioni spaziali. Il cervello non sa più dire quali oggetti esistono e quali sono solo potenzialità latenti, non spaziali. Ne deriva che si aprono corridoi spaziali alternativi in cui penetra il sistema percettivo alterato e al cervello si presenta un intero, nuovo universo in fase di creazione”
(Dick, 2020).

È lo stesso fenomeno che uccide Wendy Wright in Ubik: l’inerziale viene trovata ridotta a uno scheletro polveroso rannicchiato nell’armadio della sua camera d’albergo, come se nel giro di poche ore avesse accumulato secoli di tempo. Analogamente, al termine dell’overdose Alys Buckman viene ritrovata da uno sconcertato Taverner nel bagno di casa, uno scheletro dal colorito ingiallito. Lo scontro tra tempo verticale e orizzontale produce questo tipo di effetti. Il problema è che abbiamo perso la capacità di cogliere il tempo orizzontale, di “sperimentare l’infinito numero di laminazioni trasparenti che leghiamo all’energia che chiamiamo tempo” (Dick, 2015): è questo che ha creato la realtà illusoria nella quale diventa possibile credere di essere negli anni Settanta del XX secolo anziché nel 70 d.C. Ed è precisamente per questo che occorre recuperare la capacità di orientarsi lungo l’asse orizzontale del tempo, come tenta disperatamente di fare Joe Chip attraverso il miracoloso Ubik.

Qui entra in gioco una delle teorie che affascinava maggiormente Dick: la retrocausazione, ossia la possibilità che gli eventi non siano solo conseguenze del passato, ma effetti del futuro. È l’idea esplorata in Valis e che egli ritenne una delle spiegazioni più plausibili delle vicende vissute nel 1974: un’informazione spedita dal futuro verso il passato. Ubik, nell’omonimo romanzo, è una rappresentazione di quest’idea, un’àncora di salvezza inviata da un’altra realtà che ha per scopo quello di fermare la degradazione entropica del tempo. Trae questa ispirazione dalle teorie del fisico sovietico Nikolay Kozyrev; in un primo momento crede anzi che siano stati i sovietici stessi a mandargli dal futuro il flusso d’informazione responsabile degli episodi allucinatori, finché non subentrerà un’altra ipotesi: “Dio si muove attraverso il tempo in senso retrogrado rispetto a noi: dal completamento all’indietro” (Dick, 2015). La pseudoscienza di Dick si fonde infine con la sua grande passione, la religione; come sarebbe potuto accadere altrimenti, nella California dell’Età dell’Acquario?

“Che vuoi dalla vita?” potrei chiedermi, e risponderei: “Questo”
Quando Philip Dick annunciò ad Anne Rubinstein, la sua moglie di allora, l’intenzione di diventare cattolico, la donna – che lo conosceva forse meglio di tutte le altre mogli precedenti e successive – replicò: “Non ha senso (…) diventare cattolici per trattare la religione come se fosse una delle tue storie di fantascienza” (Carrère, 2016). Per Dick aveva invece assolutamente senso. La fantascienza aveva trattato il problema di Dio in molteplici modi, quasi sempre in linea con la visione spirituale e materialista al tempo stesso di Dick, per cui Dio potrebbe essere un’intelligenza artificiale del futuro o, perché no, un’entità aliena. Di sicuro lo doveva essere Satana: lui lo aveva scorto un giorno alzando gli occhi al cielo, un terribile volto ghignante che lo fissava. Andò a confessarsi e fu sollevato dallo scoprire che il prete era l’unica persona che prendeva sul serio la sua visione: “Lei ha incontrato Satana” (Carrère, 2016).

Pur essendo cresciuto ateo, era sempre stato attratto dalla spiritualità. La moda di allora per il misticismo orientale lo aveva messo in contatto con l’I Ching, un libro che sembrava contenere il mondo intero; questa idea gli permise di accostarsi con crescente fascinazione alla Bibbia, che interpretava come il Verbo incarnato. Cosa poteva esserci di più vicino alla sua convinzione dello stretto legame tra testo scritto e realtà, alla base delle sue storie? Il Verbo che crea il mondo è un concetto squisitamente dickiano. Per usare una definizione del suo biografo Emmanuel Carrère in un’altra opera, Il Regno (2014), Dick apparteneva “a quella categoria di persone per le quali essere non è un fatto ovvio” (Carrère, 2015). L’approdo alla religione era nell’ordine delle cose.

“Ho ricevuto il più grande dono che l’universo poteva concedermi. Oggi stavo pensando che da bambino ho sempre disperatamente desiderato – ho agognato – sentire la ‘quieta piccola voce’ che aveva sentito Elia, e adesso l’ho sentita. Mi sono anche reso conto che se alla fine della mia ricerca di Dio avessi imparato che non c’è nessun Dio, allora qualunque cosa avessi ottenuto, sperimentato o acquisito non avrebbe avuto il minimo significato; al contrario, questo compensa ogni e qualunque cosa e crea un significato di un ordine superiore nella mia vita. L’esperienza del 3-74 è stata ‘più vasta degli imperi’: l’esegesi che ha disvelato il significato dell’esperienza è ancora più vasta… infinita come somme. ‘Che vuoi dalla vita?’ potrei chiedermi, e risponderei: ‘Questo’”
(Dick, 2015).

Naturalmente, come aveva intuito Anne Rubinstein, il suo fu un cristianesimo sui generis. La forte influenza di James A. Pike, vescovo della chiesa episcopale della California, che Dick conobbe in quegli anni, lasciò un’impronta determinante sulla sua religiosità. Pike sarebbe morto nel deserto della Giudea durante ricerche stimolate dalla scoperta dei manoscritti di Qumran e la sua fede era di esplicita derivazione gnostica. Lo gnosticismo era perfettamente coerente con le convinzioni di Dick. Secondo quanto scrisse nell’Esegesi, esisterebbero tre diversi piani della realtà: un mondo 1 – quello reale – in cui agisce il Logos, il Verbo creatore; un mondo 2 – quello illusorio – frutto dell’azione malvagia del demiurgo; e il mondo 3 – il nuovo piano della realtà – dove si è insinuata l’azione trasformativa del Logos sotto forma di informazione (lo Spirito Santo) proveniente dal futuro. In Scorrete lacrime, disse il poliziotto Dick si convinse di scorgere l’applicazione di questa teoria: i piani della realtà entrano in contrasto tra loro ma c’è qualcosa di profondo, misterioso, invisibile che è all’opera per cambiare entrambi i mondi, quello di Taverner e quello di Buckman. Qualcosa che è destinato a liberarli dall’opprimente Prigione di Ferro Nera.

In seguito Dick avrebbe capito di cosa si trattava: l’episodio enigmatico e sconcertante che chiude il romanzo, quello in cui Buckman, dopo uno strano sogno, incontra un nero a una pompa di benzina, sotto la pioggia, ed è spinto a tracciare su di un foglio l’immagine di un cuore trafitto da una freccia, che colpisce il nero al punto che i due si abbracciano commossi, richiamerebbe secondo lo scrittore quello narrato negli Atti degli Apostoli in cui l’apostolo Filippo incontra un eunuco etiope e gli racconta di Gesù, convertendolo e battezzandolo. Il parallelismo è un po’ forzato, ma Dick lo svilupperà come suo solito fino alle estreme conseguenze, concludendo di essere entrato nel mondo degli Atti ossia di averlo “sperimentato correttamente non come un libro su un mondo, ma come il mondo stesso”, aggiungendo che è lo stesso meccanismo che in La svastica sul sole gioca il romanzo scritto da Hawthorne Abendsen, La cavalletta non si alzerà più, che racconta del vero mondo in cui l’Asse ha perso la guerra. Felix Buckman sarebbe l’informazione che giunge dal mondo del Logos (da questi sperimentato durante il sogno che prelude alla sua intima conversione) e da lì inizia a replicarsi infettando il mondo intero, fino a far crollare la finzione su cui si regge. Dick paragonava questo processo a quello che avviene nel cristiano quando assume l’ostia nella comunione: un pezzo del mondo vero che penetra nel mondo falso e produce una trasformazione.

È probabile che quest’idea, in realtà, gli fosse stata ispirata dalla sua profonda comprensione del Parsifal di Wagner, di cui discute a lungo nell’Esegesi. Qui infatti l’incantesimo del Venerdì santo che guarisce la piaga di Amfortas e rigenera il mondo trasformato in un deserto è possibile solo grazie alla compassione che l’impuro folle Parsifal prova nei confronti della sofferenza; compassione che egli non aveva mostrato all’inizio del suo viaggio iniziatico, quando aveva colpito a morte con una freccia un cigno mostrandosi indifferente al suo strazio. Ora invece tutto cambia e attraverso la sua compassione il mondo viene redento. Così è anche per Buckman in Scorrete lacrime quando infine si lascia andare al pianto: “Tirò su la mano e si deterse quel liquido quasi appiccicoso dagli occhi. Per chi?, si domandò? Per Alys? Per Taverner? Per quella Hart? O per tutti loro?”. Buckman non sa rispondere. Quando poi incontra il nero alla pompa di benzina e lo abbraccia, questi capisce invece cosa lo abbia spinto a quel gesto così inconsueto in un regime razziale come quello che vige nel mondo del romanzo:

“Lei non vuole trovarsi da solo a quest’ora di notte, specialmente quando fa così freddo come adesso. Sì, anch’io la penso così, e adesso lei non sa bene che cosa dire perché ha fatto una cosa d’impulso, sull’onda di uno slancio improvviso, senza pensare alle conseguenze che avrebbe avuto. Ma va tutto bene, io ho capito”
(Dick, 2020).

Rientrato a casa, Buckman decide di cambiar vita, di riprendersi il figlio avuto dalla sorella che aveva nascosto in una struttura in Florida, affrontando le conseguenze dello scandalo. Ma poi capisce che ormai qualcosa è cambiato e che “non ci saranno conseguenze; è tutto finito, tutto a posto. Per sempre”. L’inganno è caduto e la realtà si sta già trasformando sotto i suoi occhi, così come accade nelle ultime scene del Parsifal: “La compassione, sentimento sordo e indistinto nell’atto primo, conoscenza e «cosmica chiaroveggenza» nell’atto secondo, esce allo scoperto nell’atto terzo come «gesto redentore»” (Di Giacomo, 2021).

Dick si era avvicinato più volte a un simile finale senza riuscire ad andare in fondo: in Ubik la scoperta da parte di Glen Runciter di monete che portano il volto di Joe Chip, con cui si chiude il romanzo, rappresenta l’inquietante accenno all’ipotesi che nemmeno quello sia il vero livello della realtà e che l’inganno gnostico continui; ne La svastica sul sole Juliana rivela a Abendsen che la storia raccontata nel suo romanzo è reale e che dunque il mondo in cui vivono è falso, ma non sappiamo se ciò in qualche modo darà inizio alla sconfitta del Reich. In Scorrete lacrime, disse il poliziotto, invece, emerge la certezza che l’evasione dalla Prigione di Ferro Nero sia avvenuta. Non così per Dick. Negli anni successivi continuò la sua esegesi personale sfornando sempre nuove ipotesi sulla natura della realtà. Non si accorse che forse aveva raggiunto la verità tanto cercata ancor prima di imbarcarsi nella sua personale ricerca e, fedele al suo spirito inquieto, “si rifiutò di giungere a una conclusione definitiva e continuò a contraddirsi, a offrire soltanto verità penultime” (Carrère, 2015).

Letture
  • Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi, Milano, 2015.
  • Emmanuel Carrèere, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi, Milano, 2016.
  • Philip K. Dick, L’Esegesi, Fanucci, Roma, 2015.
  • Philip K. Dick, Scorrete lacrime, disse il poliziotto, Fanucci, Roma, 2020.
  • Philip K. Dick, Tutti i racconti vol. 1. 1947-1953, Fanucci, Roma, 2021.
  • Giuseppe Di Giacomo, Richard Wagner. Una guida filosofica, Carocci, Milano, 2015.
  • Roberto Paura, Società segrete, poteri occulti e complotti, Diarkos, Reggio Emilia, 2021.
  • Wu Ming 1, La Q di Qomplotto, Alegre, Roma, 2021.
Visioni
  • Andy Wachowski, Larry Wachowski, Matrix, Warner Home Video, 2008 (home video).