Rappresentante di “una razza in via d’estinzione” come si definì in quanto scrittore fiammingo di lingua francese, drammaturgo e narratore noto e apprezzato in tutto il mondo francofono, Paul Willems (Edegem, 4 aprile 1912 – Zoersel, 29 novembre 1997) fino a oggi è stato del tutto o quasi ignorato in Italia, colpevolmente, aggiungiamo. Fanno da lodevole eccezione due lavori teatrali, Diceva dormire anziché morire e La vita breve, tradotti da Rosalba Gasparro, che all’autore belga ha anche dedicato una monografia, Oltre il giardino, ma entrambi i volumi sono stati pubblicati da Bulzoni oramai ben dieci anni fa. L’uscita di Cattedrale di nebbia può ben dirsi, quindi, un piccolo evento e anche un atto di coraggio editoriale, non sorprendente però, bensì coerente con le scelte di fondo dell’editore Safarà mai ortodosse. Il prezioso libricino propone sei racconti brevi (originariamente pubblicati in Francia nel 1983) e due scritti sulla lettura e sul mestiere dello scrittore. Ebbene, il risultato è una boccata d’ossigeno in un tempo inondato dal cattivo odore di tanto ciarpame letterario sfornato senza freni e destinato a un ineluttabile oblio.
Le storie di Willems d’altro canto vantano un’alterità non destinata al lettore sbrigativo o disattento. Incasellarli in generi è malagevole, ingabbiarli in categorie altrettanto arduo. Si sarebbe tentati di definirli surreali, onirici, fantastici, talora paiono assumere movenze fiabesche, o al contrario, si caricano di simbolismo e di mistero, oppure si spingono fin sulla soglia del soprannaturale, ma ci sfuggono di mano nell’attimo stesso in cui si prova a formulare una qualsivoglia definizione. Hanno un’aria iniziatica, questo sì, offrono la possibilità di intravedere l’altro lato delle cose, danno modo di coglierne per un istante la loro dimensione affatto differente. Questa è la loro natura intima, tale è l’atmosfera che vi si respira. Un risultato ottenuto in virtù di una scrittura nitida, a tratti abbacinante, frutto di un lavoro di incommensurabile sgrossatura. Willems taglia come gemme ogni singola parola, rendendo cristallina ciascuna frase, complice quella ambiguità di fondo che dona a chi non scrive nella lingua nativa la capacità di rendere protagonista la scrittura stessa. I casi di Joseph Conrad, Samuel Beckett e Vladimir Nabokov, per attenerci a quelli più celebri, ne sono testimonianza autorevole. Willems addirittura si spinse oltre, la sua è condizione estrema di confine, già a diciannove anni quando arrivato a Parigi ammise: “Non so il francese, non conosco bene il fiammingo, non ho una lingua” (ibidem). All’uomo senza patria linguistica non resta che ri/costruire una propria lingua, un’invenzione prodigiosa per ricchezza e raffinatezza che ne fa anche un inventore di parole, come si può leggere nel racconto Il Palazzo del vuoto, dove prendono forma i nomi di creature magiche come i “Migliosi dalle chiome d’oro, i Malportanti dagli occhi verdi e i giganteschi Basilarchi divoratori di vento”. Sin dal primo racconto, Requiem per il pane, appare chiaro che ci fronteggia uno scrittore di razza:
“Il pane non bisogna mai tagliarlo, dice mia nonna, bisogna spezzarlo […]
Ho la sensazione che stia per svelarmi uno dei grandi segreti del mondo, uno di quei segreti su cui vegliano i draghi.
A un certo punto mi dice:
«Quando un coltello tocca il pane, il pane grida»”.
Da qui si avvia una storia che in poche pagine scivola dalla parabola alla reincarnazione, dalla sublimazione onirica a un simbolismo eucaristico (il pane, il sangue), tutto intriso da un senso di colpa che insegue il narratore dal momento in cui la sua cuginetta dodicenne muore dopo essere precipitata dalla finestra all’inizio del racconto. La morte percorre anche il racconto L’occhio del cavallo, ma laddove Requiem per il pane la fonte di salvezza indicata è l’oblio “la sola pace che ci sia concessa”, qui l’elaborazione del lutto necessita di fantasia, quella di un padre che tenta di comunicare con la figlioletta morta (ancora una dodicenne) ricorrendo a una lingua privata, inventata appositamente (analogamente fa Willems…). Un racconto ancora una volta dall’evoluzione spiazzante, inizialmente una confidenza, alcuni ricordi di guerra raccontati al narratore mentre viaggia in aereo da un altro passeggero. Presto l’uomo, Sergej, rivela la sua dannazione e la sua possibile salvezza dopo la perdita della figlia:
“non sono ancora riuscito a trovare le parole per parlare di lei nella mia memoria. E così ho fabbricato una lingua apposta per lei. Una lingua segreta. Posso dirlo? Sacra”.
Forte di un’esperienza fatta in guerra trovandosi a contatto con l’antico popolo degli Schwûs, Sergej trova analogamente a loro un modo per fornire un’anima alla sua linga. Un’etnografia dai tratti meravigliosi che si ritrova nel racconto Un viaggio da arcivescovo, laddove usi e costumi riguardanti l’ospitalità hanno movenze fiabesche e prendono il via da una bizzarra scommessa persa. Il racconto presenta anche una delle architetture impossibili di Willems “una specie di castello di legno” che presto si rivelerà una foresta che ha in grembo una radura dove è collocato una sorta di talamo in grado di trasformarsi anche in una specie di tappeto volante. Un accenno, uno schizzo, mentre in Palazzo del vuoto disegna un sviluppando in parallelo un rapporto coniugale oscuro e inquietante. Infine, nel racconto eponimo, l’architetto V. “dopo anni di meditazione” erige una cattedrale immateriale, liberandosi di granito e calcestruzzo, nel cuore di un bosco, ancora un bosco, meta di pellegrini che la visitano e vi sostano talora un’intera notte, ancora una notte e non una qualsiasi ma quella del Natale, come capita al padre del narratore e ad alcuni suoi amici, ai quali capitò di vivere un’esperienza analoga a un viaggio iniziatico.
“Avevamo la certezza che stesse per compiersi una sorta di miracolo. Forse avremmo assistito alla nostra stessa morte oppure a qualcosa di più semplice e ancor più meraviglioso”.
Esemplare parabola anche della funzione propria della scrittura, tramite tra la realtà e l’immaginazione, la cattedrale di nebbia dell’architetto V. è fatta della stessa sostanza di cui è fatta la parola, tangibile eppure immateriale. La silloge di racconti è completata da due brevi saggi, uno concavo e l’altro convesso, si potrebbe dire, intitolati Leggere e Scrivere. Il primo ci conduce nella biblioteca di famiglia di Willems, discendente da quattro generazioni di letterati, un viaggio nella memoria (“I libri della nostra biblioteca non sono di pregio, ma a me piacciono lo stesso perché sono stati letti e riletti e vibrano insieme alle armonie del tempo”), un excursus nel tono indistinguibile dai racconti, alla ricerca delle origini del piacere unico della lettura. Il secondo ricama metafore intorno all’atto di scrivere diramandosi dal ricordo di una caccia alla foca, non approdando a risposte definitive sulla natura dello scrivere. D’altronde, scrive Willems in La cattedrale di nebbia: “Le risposte alle domande non vengono mai fornite dalle spiegazioni ma dall’accettazione del dolore e dell’angoscia”.
- Paul Émond, Henri Ronse, Fabrice Van de Kerckhove, Le monde de Paul Willems: textes, entretiens et études, Éditions Labor, Bruxelles, 1984.
- Rosalba Gasparro, Oltre il giardino, Bulzoni, Roma, 2014.
- Paul Willems, Diceva dormire anziché morire. La vita breve, Bulzoni, Roma, 2014.