Ossi di seppia, cent’anni
d’incontri col mal di vivere

Ossi di seppia venne pubblicato il 15 giugno 1925 da Piero Gobetti.
la tiratura iniziale fu di 1.000 copie,
240 delle quali a prenotazione obbligatoria.
il volume era di 100 pagine
e una copia costava 6 lire.
Il prezzo di mercato attuale
della prima edizione
si aggira intorno
ai 10.000 euro.

Ossi di seppia venne pubblicato il 15 giugno 1925 da Piero Gobetti.
la tiratura iniziale fu di 1.000 copie,
240 delle quali a prenotazione obbligatoria.
il volume era di 100 pagine
e una copia costava 6 lire.
Il prezzo di mercato attuale
della prima edizione
si aggira intorno
ai 10.000 euro.


Cento anni fa, nel 1925, il 15 giugno, usciva la prima edizione di uno dei più grandi libri di poesia del Novecento (e di tutti i tempi): Ossi di seppia. Eugenio Montale, il ragionier Montale, reduce dalla Grande Guerra (fu congedato nel 1920), e che nel 1925 aveva poco meno di trent’anni lo pubblicò per le edizioni di Piero Gobetti: 100 pagine, tiratura 1.000 copie, 240 delle quali a prenotazione obbligatoria: in altre parole, a contributo dell’autore per le spese di stampa. Prezzo per copia: 6 lire. Gobetti è l’intellettuale torinese barbaramente aggredito dai fascisti e poi a causa delle violenze subite morto in Francia a 25 anni nel 1926. Pochi, allora, e fra quei pochi Sergio Solmi, immaginavano che gli Ossi di seppia sarebbero diventati il libro più formativo e seminale della poesia contemporanea non solo italiana. Non perché Montale, soprattutto il Montale degli Ossi di seppia e delle raccolte successive, Le occasioni (1939) e La bufera (1956), sia facilmente imitabile come il primo Ungaretti che con i suoi dripping di parole-verso stillanti sulla pagina diverrà sicuramente più poète en vogue di Montale. L’autore ligure, nato a Genova il 12 ottobre 1896, si posiziona, già con questa prima raccolta, sulla (involontaria, nel senso di non-petita) cattedra di maestro, con versi che riflettono un universale disagio esistenziale colto nelle atmosfere e negli oggetti che rimandano al paesaggio assolato, scabro e asciutto della sua Liguria, filtrato attraverso un linguaggio che è un perfetto mix fra tradizione e innovazione, riportando la poesia alla sua missione, già leopardiana, di testimone della verità tramite l’osservazione precisa e disincantata, grazie all’anti-eloquenza concretata in quella “storta sillaba e secca come un ramo”, nelle parole “senza rumore/che teco educammo nutrite/ di stanchezze e di silenzi” (Noi non sappiamo quale sortiremo, dalla sezione Mediterraneo).

Un frame dalla serie di RaiCultura.it, Opera prima, dedicata a Ossi di seppia di Montale (episodio 12).

Chi scrive ebbe, alcuni anni fa, durante il Salone del libro antico alla Permanente a Milano, la fortuna di tenere fra le dita e sfogliare – per qualche secondo di gioia paradisiaca– la prima edizione gobettiana degli Ossi di seppia: prezzo di vendita diecimila euro. Il valore della prima edizione degli Ossi di seppia non varia. È più o meno sempre quello. Ma si sta rivalutando (il prezzo di mercato si aggira sui 5.000/6.000 euro) la seconda edizione (1928), quella torinese della Ribet, con prefazione di Alfredo Gargiulo e aggiunta di nuovi testi (Vento e bandiere, Fuscello teso dal muro, I morti, Delta, Incontro, Arsenio; e una eliminata: Musica sognata). Tutte le edizioni successive si rifaranno a questa come numero di testi. La terza edizione (1931) quella Carabba di Lanciano è già più abbordabile. Nella collana I poeti dello specchio gli Ossi di seppia debuttano nel 1948.
Libro attualissimo, anche sul piano della tecnica compositiva; sempre valido l’invito di Montale a non chiedere parole che non siano diverse da “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: attraverso l’anti-retorica il poeta afferma l’essere autentico negando ciò che siamo per convenzione e imposizione storico-sociale; insomma, il non-essere come modo autentico di essere. Libro magicamente e sobriamente (la verde e marina asciuttezza del paesaggio ligure) distaccato in una aura metafisica, realistico e trasognato al contempo, solare e pessimista, slegato comunque da ogni esplicito riferimento alla dittatura fascista, come ricorda Giovanni Raboni:

“Si è molto disquisito, da mezzo secolo a questa parte, e non certo a sproposito, dell’assoluta estraneità della poesia di Montale al clima politico-culturale sul cui sfondo storicamente si situa. Che si possa parlare, come alcuni hanno fatto, di una poesia intimamente antifascista, o invece (come a me sembra, tutto sommato, più corretto e realistico) di una poesia rigorosamente afascista, non sposta molto i termini della questione; ciò che importa cogliere è come nelle poesie scritte da Montale durante il ventennio mussoliniano -tanto, dunque, in quelle degli Ossi di seppia quanto in quelle delle Occasioni- tutto, dal modo alla sostanza, dalle opzioni linguistiche alle scelte tematiche, risulti assolutamente refrattario, assolutamente e oggettivamente «altro» rispetto a quella peculiare e ripugnante miscela di misticismo e populismo, di esaltazione della «sanità» e della «normalità» di culto dell’eccezione eroica, che caratterizzò la cultura ufficiale di quel periodo”
(Raboni in Montale, 2004).

Riprendendo le considerazioni leggibili sul risvolto della trentunesima edizione (1989),

“A considerarla con mentalità da «avanguardia» la poesia di Montale poteva apparire, al tempo delle primissime edizioni degli Ossi di seppia, un prodotto leggermente arretrato. In realtà, essa portava un linguaggio decisamente nuovo dentro una musica solo apparentemente già nota, che di fatto era stata ripresa alle origini e radicalmente rinnovata. Il parallelismo e, più, la coincidenza tra paesaggio ligure – di mare, di scogli, di greppi di campagne e di orti: mai prima di allora poeticamente presente con una fisionomia tanto piena e allucinante – e modi della poesia poi detti dell’aridità, furono gli aspetti su cui puntarono i primi tentativi di definizione letteraria, successivamente fissati nella «negatività» e nella «corrosione critica dell’esistenza». Ma venne ben presto in luce, proprio in antitesi a tali termini, tutto il lato della fertilità della forza evocativa e rappresentativa insieme, non solo di figure e d’immagini, ma di simboli e di significati”
(in Ossi di seppia, 1989).

È vero. Ossi di seppia sembra un libro di restaurazione, soprattutto formale se visto anche di sbieco nel contesto delle avanguardie storiche e di poeti sperimentali e audaci come Gian Pietro Lucini, per tacere dei futuristi e dell’Aldo Palazzeschi più jongleur des mots. Ed è anche lontanissimo dal fenomeno dell’art decò che caratterizza soprattutto i primi due decenni dell’entre-deux-guerres. In realtà, il tempo ha dimostrato che Ossi di seppia è ancora oggi, a distanza di un secolo, una raccolta quanto mai attuale e più vicina ai contemporanei di quanto lo siano molti libri del Novecento pur blasonati e antologizzati.
Il linguaggio degli Ossi di seppia è fra i più studiati da filologi, storici della lingua, critici letterari, da Sergio Solmi a Edoardo Sanguineti, da Gianfranco Contini a Pier Vincenzo Mengaldo. Anche perché Montale cercava di variare la sua lingua volutamente non aulica (secondo un’affermazione stilistico-poetica già chiara in apertura di raccolta con la poesia I Limoni: “Ascoltami, i poeti laureati si muovono fra le piante/dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti”), dalla sintassi tendenzialmente discorsiva e sovente ellittico-paratattica, con un lessico che include vocaboli colti e letterari, termini tecnici e parole del dialetto (genovese e ligure in primis). E negli Ossi di seppia questo aspetto è particolarmente visibile: “Riviere, /bastano pochi stocchi d’erbaspada/penduli da un ciglione/sul delirio del mare”. In questo celebre incipit l’originalità della musica e dello stile sono date dal vocabolo “erbaspada” che è la trasposizione del genovese “erba spaa” cioè l’agave che in effetti ha quelle lunghe e spesse terminazioni che sembrano spade. Oppure “Arremba sulla strinata proda/le navi di cartone e dormi/fanciulletto padrone”, dove “arremba” è transitivo e vuol dire “ormeggia” e “strinata” rimanda al genovese strinâ (bruciacchiare).

La linea ligure
Nella poesia a cavallo tra Ottocento e Novecento, una prima linea ligure si può tracciare da un capostipite come Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (1872-1919) – cui Montale dedicò una poesia, inedita, scritta nel 1923 e pubblicata dal Corriere della Sera nel 1980 – per arrivare fino allo stesso Montale passando per – stiamo semplificando – Giovanni Boine (1887-1917) e Camillo Sbarbaro (1888-1967), entrambi nati in Liguria, il primo a Finale Marina, sulla riviera di Ponente, il secondo a Santa Margherita, riviera di Levante, collaboratori di due riviste chiave per la poesia nazionale, La Riviera Ligure e La Voce; a essi dovremmo aggiungere i due fratelli Angiolo Silvio e Mario Novaro, entrambi direttori de La Riviera Ligure.  Boine e Sbarbaro sono sicuramente i nomi più famosi, le star della poesia novecentesca in lingua italiana scritta da liguri prima che Montale pubblicasse nel 1925, cento anni fa, Ossi di seppia. A Camillo Sbarbaro, Montale dedica due delle poesie degli Ossi di seppia (Caffè a Rapallo ed Epigramma). Di Sbarbaro erano già usciti da qualche anno (1911 e 1914 rispettivamente a Genova e Firenze) Resine e Pianissimo. Nel 1918 Boine dava alle stampe Frantumi. Insieme a Pianissimo di Sbarbaro (ripubblicato di recente da Marsilio) Ossi di Seppia non è solo uno dei più bei libri di poesia del Novecento; rappresenta anche un modello sempre attuale di poetica, di scrittura in versi. Insomma, come Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli, Guido Gozzano, Sbarbaro, Corrado Govoni (e altri, ovviamente, a partire da Thomas S. Eliot che pubblicherà una poesia di Ossi di seppia, Arsenio, sulla rivista Criterion), Montale non suona mai datato o di nicchia, come tutti i classici. L’essenza della poetica montaliana si rivela all’altezza degli Ossi di seppia già tutta distillata in sintesi programmatica nella poesia In Limine:

“Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, -ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…”.

Gianfranco Contini si sofferma su questa poesia incipitaria, premessa programmatica di Ossi di seppia, sottolineandone la valenza prodromica di temi sviluppati nel corso della raccolta:

“Agli Ossi la chiaroveggenza di Montale (solo limitata da quell’equivoca generosità) giunse a mettere innanzi con In limine, una descrizione molto veritiera, e in parte anticipatrice, dei suoi fatti più autentici: non orto, ma reliquiario (e insieme prigione) la sua poesia, viluppo di memorie morte e non sede delle visitazioni della vita; e gli oggetti non reali immagini (“un volo…”) ma indicazioni di abissi interni; e l’ordine di questi oggetti e le loro vestigia, perso il loro valore primitivo e insomma il loro contenuto storico, posti a stabilire delle mere possibilità di futuro. Forse, tuttavia, in mezzo a queste reliquie è la salvazione: da incontrarsi per puro caso, anzi per azzardo in uno degli infiniti lanci di dadi (“t’imbatti/tu forse nel fantasma che ti salva”)”
(Contini, 2023).

Nell’Introduzione a Ossi di seppia, solo dopo un preambolo non essenziale seppur importante (perché cita l’opinione di Alfredo Gargiulo su Mediterraneo, “la più bella serie” degli Ossi di seppia, ma secondo Contini non “la più feconda in risultati poetici”), si arriva a un dunque, a un concreto atterraggio sui piani di un riscontro anche linguistico. Suggerisce Contini:

“[…] Sarà meglio tenersi ad alcune prime constatazioni. Questa, ad esempio, abbastanza ovvia: che il discorso di Montale è un discorso di tono e timbro ‘familiare’ (‘Ascoltami, i poeti laureati/si muovono soltanto fra le piante/dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti./ Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi/fossi…”); il quale si presuppone per lo più, ben vicino, un interlocutore: ‘vedi’; ‘hai ben ragione tu!’; ‘pure, lo senti…’; ‘tentava la vostra mano…’. E il linguaggio preferito ricorre a parole determinatissime, ‘dialettali’ addirittura diremmo; un’upupa ‘sopra l’aereo stollo del pollaio’, dei bambini ‘con moccoli e lampioni’, una barca che ‘sciaborda tra le sécche’. In una simile funzione stanno i termini più letterari: ‘pomario’, mettiamo, e ‘reliquiario’, o ‘atro’, ‘nunzio’, ‘aligero’, ‘turgeva’, ‘dessa’; con un valore, pertanto, press’a poco opposto a quello che l’estetismo o il purismo potevano rispettivamente assegnare. Un bastimento sarà in Montale, a preferenza, un ‘trealberi’, un ‘rimorchiatore’, o saranno ‘sciabecchi’; gli uccelli, volta per volta, un ‘falchetto’, un ‘alcione’, un ‘martin pescatore’, ‘due ghiandaie’”
(ibidem).

Un’antitesi ai “poeti laureati”
Se In Limine e I Limoni sono due poesie-manifesto della poetica e della filosofia montaliana alla base di Ossi di seppia, “Spesso il male di vivere ho incontrato” è una delle più emblematiche, la più anti-lirica e leopardiana:

“Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato”.

L’affermazione di un disagio esistenziale e soggettivo dichiarato nel primo verso, viene esplicitata da una serie di tre immagini (“il rivo strozzato che gorgoglia”, la foglia secca che si accartoccia, “il cavallo stramazzato”) che fungono da similitudini implicite, figurazioni allusive e riassuntive di un’esperienza che non viene detta e spiegata, ma condensata in immagini come in un quadro metafisico. Il discorso poetico si realizza in procedimento anti-discorsivo, retto su un enunciato che si proietta immediatamente nell’oggetto, cui affida il compito di emblema. È appunto l’immagine-emblema che parla per il soggetto, lo spunto meditativo non si espande nel discorso, ma si cristallizza in episodi e fenomeni che assurgono a epigrafi di una storia interiore. È un procedimento opposto alla poesia leopardiana dei Canti. Gli Ossi di seppia montaliani sono fra i prodotti più esemplari di un indirizzo poetico così influente nel modo di fare poesia da risultare ancor oggi attuale. Chi adotta il modo di scrivere tipico di quelle poesie fa una scelta che non è solo formale e stilistica, ma è il risultato di una psicologia affatto diversa: l’essenzialità, intesa come portato estetico e filosofico di una visione interiore asciutta, privata di ogni vibrazione emotiva che sarebbe percepita come ridondanza sentimentale rispetto al nucleo fondamentale – l’oggettivazione di quella data esperienza interiore – porta necessariamente a scelte espressive opposte alla declamazione, all’amplificazione, al vibrato, alla retorica seppur sincera. E – giova ribadirlo – programmaticamente anti-aulica e anti-retorica è la poetica montaliana espressa già subito in Ossi di seppia con la poesia che apre la prima sezione (Movimenti), I limoni:

“Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni”.

Montale alterna agli “ossi” (brevi e densi componimenti dove prevale il registro secco e sintetico della dichiarazione e della oggettivazione simbolico-naturalistica) pezzi più ampi, accordati su una linea ritmico-tonale più distesamente discorsiva e meditativa. Due esempi eloquenti di questo duplice passo sono Meriggiare pallido e assorto e -nella sezione Meriggi e ombreArsenio. Nel primo caso abbiamo una sequenza di quattro strofe (tre quartine chiuse da una pentastica) dove l’esperienza individuale e puntuale della percezione (osservazione e ascolto del paesaggio) si eterna in una dimensione simbolica di vana ricerca metafisica: l’inutile tentativo di uscire dai limiti conoscitivi tipici dello stretto perimetro esistenziale assegnato all’individuo culmina nell’immagine della “muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”, alla quale viene paragonata esplicitamente “tutta la vita e il suo travaglio”.
Questa poesia è un evidente richiamo all’Infinito di Giacomo Leopardi. La “siepe, che da tanta parte/dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” è simbolicamente assimilabile al “rovente muro d’orto” del Meriggiare montaliano, ma, a differenza di questo muro che raffigura metaforicamente l’impedimento anche di natura gnoseologica a superare la propria limitante e limitativa condizione di individuo, la siepe leopardiana non impedisce al poeta di sognare quegli “interminati/spazi di là da quella, e sovrumani/silenzi, e profondissima quïete” che egli nel pensiero si immagina. Nell’assolato paesaggio di Meriggiare pallido e assorto il soggetto (avvertibile nella voluta impersonalità e atemporalità dei verbi all’infinito: meriggiareascoltarespiarosservare) rivela un’acuta attenzione ai minimi particolari visivi e acustici: ascolta gli “schiocchi di merli” e  i “frusci di serpi”, spia “le file di rosse formiche/ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano/a sommo di minuscole biche”, osserva “il palpitare/lontano di scaglie di mare”, unico particolare che rimanda ai segni di un qualcosa (in questo caso il brillio del mare) situato al di là del muro. Ma il travaglio dell’esistenza avviene sostanzialmente dentro questa muraglia; anzi, il travaglio consiste proprio nel lucido esercizio della percezione e nella consapevolezza finale che, a dispetto di questa lucidità, l’individuo non può andare oltre: l’immagine della “muraglia/che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” non evoca solo una limitazione locale e simbolicamente storico-esistenziale, ma è proprio la spia di una trascendenza negata a livello spirituale e filosofico. La “triste meraviglia” con cui il soggetto avverte la rivelazione finale è sentimento in apparenza meno sublime della paura espressa da Leopardi nell’immaginare tutto quel silenzio sovrumano e quell’abisso  profondo di pace al di là della siepe: lo sgomento di fronte all’infinito si risolve infine nella dolcezza dell’annullamento in questa immensità (il nostro camminare lungo la “muraglia/che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” è una metafora quasi carceraria che fa da controcanto al leopardiano “E il naufragar m’è dolce in questo mare”).

Un avatar di Montale
Arsenio è una poesia esemplare di quello che possiamo definire come un breve quadro narrativo in versi. Qui il poeta non usa la macchina fotografica, ma filma un momento particolare della giornata – l’imminente scatenarsi di una tempesta – nel quale il rapporto tra l’uomo inteso come Umanità (rappresentato da Arsenio) e il fenomeno temporalesco descritto rivive nella cifra simbolica dell’evento che potrebbe sconvolgere, in senso metafisico, la trama ordinata e prevedibile del reale. I primi effetti di questa perturbazione sono il “segno d’un’altra orbita”. Il poeta esorta Arsenio a discendere verso l’orizzonte, a non temere quel turbamento degli elementi e dell’ambiente, ma a vedere in esso il principio di una rivelazione, di una nuova libertà: “quell’istante/è forse molto atteso, che ti scampi /dal finire il tuo viaggio, anello d’una/catena, immoto andare, oh troppo noto/delirio, Arsenio, d’immobilità…”.  Una poesia fortemente descrittiva e simbolica nello stesso tempo:

“I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l’ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.

È il segno d’un’altra orbita: tu seguilo.
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t’inciampi
il viluppo dell’alghe: quell’istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d’una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d’immobilità…”.

Se la ricerca della “maglia rotta” nella rete, invocata nella poesia In Limine sotto forma conativa in salvezza del lettore, se “il segno d’un’altra orbita: tu seguilo” che il poeta augura al suo avatar, Arsenio, di seguire per sfuggire alla catena della prigionia fenomenica del reale, non si presenta oggettivamente con una precisa soluzione, nella suite Mediterraneo questa salvezza tende a coincidere con la poesia:

“Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto.
[…]
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.”

La poesia che dovrà recare un poco del “dono” marino (il mare è metafora della natura, ora familiare ora “matrigna”, cioè avversa, spaventosa e crudele) è la stessa che si dichiara impotente a tradurre pienamente la forza di quella natura:

“Potessi almeno costringere
in questo mio ritmo stento
qualche poco del tuo vaneggiamento
dato mi fosse accordare alla tua voce il mio balbo parlare”.

Ma non smetteremo mai di contemplare la bellezza sinuosa e atletica di Esterina che “la dubbia dimane non impaura” e si tuffa con forza ed eleganza in mare. Non è escluso che Gino Paoli abbia letto Falsetto prima di scrivere Sapore di sale. Esterina Rossi frequentava la spiaggia di Genova Quarto esibendosi in splendidi tuffi sotto gli occhi incantati dello scultore Francesco Messina che la ritrasse in un bronzo, e di quelli di Montale che, appunto, le dedicò Falsetto, scritto nel 1924. E anche noi immagineremo sempre il miracolo di Esterina, noi della “razza di chi rimane a terra”.

Letture

  • Autori vari, Quaderni montaliani. Vol. 5: Ossi di seppia 1925-2025, Interlinea, Novara, 2025.
  • Antonio Barbuto, Le parole di Montale, glossario del lessico poetico, Bulzoni, Roma,1973.
  • (a cura di) Ilaria Bonacossa, Paolo Verri, Meriggiare pallido e assorto.  Eugenio Montale: 100 immagini per i suoi 100 anni di Ossi di seppia, Electa, Milano, 2025.
  • Ettore Bonora, Lettura di Montale. 1.Ossi di seppia, Tirrenia Stampatori, Torino, 1980.
  • Gianfranco Contini, Una corsa all’avventura – Saggi scelti (1932-1989), a cura di Uberto Motta, Carocci editore, Milano, 2023.
  • Gianfranco Contini, Una lunga fedeltà, scritti su Eugenio Montale, Einaudi, Torino, 1974.
  • Eugenio Montale, Ossi di seppia, Milano, Mondadori, 1989 .
  • Eugenio Montale, Poesie. La bufera e altro 1940-1954. Satura 1962-1970, introduzione di Giovanni Raboni, RCS Quotidiani, edizione speciale per il Corriere della Sera, Milano, 2004.
  • Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano, 2013.
  • Eugenio Montale, Ossi di seppia, con uno scritto di Giuseppe Montesano, Mondadori, Milano, 2024.
  • Eugenio Montale, Ossi di Seppia, a cura di Pietro Cataldi, Floriana d’Amely, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo e un saggio di Sergio Solmi, Mondadori, Milano, 2024.
  • Camillo Sbarbaro, Pianissimo, Marsilio, Venezia, 2001