Musiche per la pubblicità:
i Beatles e altre licenze

Linda Scott, Alan Bradshaw
Revolution
Storia di una canzone dei Beatles
dalla protesta alla pubblicità
Traduzione di Mariachiara Eredia

Luiss University Press, Roma, 2020
pp. 136, € 15,00

Linda Scott, Alan Bradshaw
Revolution
Storia di una canzone dei Beatles
dalla protesta alla pubblicità
Traduzione di Mariachiara Eredia

Luiss University Press, Roma, 2020
pp. 136, € 15,00


Chiariamo subito una cosa: non è solo un libro sulla famosa canzone dei Beatles contenuta nel White Album, ma un’interessante riflessione sul rapporto tra arte, pubblicità, mercato e società. I due autori, Linda Scott e Alan Bradshaw, rispettivamente professoressa emerita di Entrepreneurship and Innovation all’Università di Oxford e docente di marketing alla Royal Holloway University di Londra, partono dall’analizzare il testo di una delle canzoni più controverse, ambigue e discusse del quartetto di Liverpool. Revolution, scritta da John Lennon, in risposta ai moti studenteschi dei primi mesi del1968, a Rishikesh in India – dove i Beatles erano andati per frequentare un corso di meditazione trascendentale presso l’ashram di Maharishi Mahesh Yogi – venne registrata nel luglio di quell’anno negli studi Abbey Road a Londra e pubblicata per la prima volta dalla Apple in agosto come lato B del singolo Hey Jude.
Suscitò immediatamente reazioni diverse e contrastanti: vi fu chi vi lesse un rifiuto delle posizioni pacifiste e un invito ad agire e chi, invece, la interpretò come un’esortazione agli attivisti radicali di tutto il mondo a calmare i bollenti spiriti. Per non parlare di coloro, e non furono pochi, che la bollarono come un testo borghese e controrivoluzionario. Difatti, Revolution, scritta sotto forma di dialogo immaginario tra il Beatle e un attivista, non è solo la prima canzone esplicitamente politica del quartetto di Liverpool, ma una serie di canzoni tutte disseminate di elementi contraddittori e ambigui. Come spiegano, in dettaglio, i due autori: ne esistono almeno tre versioni, ognuna con differenze che ne cambiano il senso. Accanto alla versione pubblicata anche su quarantacinque giri, ci sono quella contenuta negli Esher Demos (maggio 1968), registrati dai Beatles di ritorno dall’India, in cui si sente Lennon cantare chiaramente “count me out”, e Revolution 9, contenuta anch’essa nel White Album, che non è altro che Revolution I sommersa da un miscuglio di suoni elettronici e frasi senza senso, all’ombra della lezione imparata da Karlheinz Stockhausen.  Le parole “number 9”, che ricordano un vecchio test radiofonico, ricorrono per tutta la canzone.

Rielaborazione di Lennon, Kaleidoscope Eyes, 1967, ideato da Larry Smart – © Private Collection/Bridgeman Images.

In ogni caso, a dispetto del titolo, un significato è subito chiaro: non è una chiamata alle armi. Anzi, Lennon articola nei versi una certa distanza critica rispetto a chi vuol cambiare il mondo ricorrendo a soluzioni non chiare o alla violenza. Celebre a tal proposito la frecciata anti-maoista nel verso “ma se vai in giro con le immagini del presidente Mao, non combinerai mai niente con nessuno”. E, per essere ancora più netti, il primo verso recita: “dici di volere una rivoluzione, bene, tutti vogliamo cambiare il mondo. Ma quando parli di distruzione, sappi che non puoi contare su di me (count me out)”. Da dire che in Revolution I, versione pubblicata successivamente in novembre nel White Album ma registrata prima (fine maggio – giugno 1968) e con un arrangiamento blues lento completamente differente da quello hard rock del singolo, Lennon aggiungeva la decisiva parola in (count me out/in), sussurrata quasi sottovoce, alla fine del verso predetto: “sappi che non puoi contare su di me (puoi)”. Un cambiamento di senso e significato che Lennon cercò di spiegare in un’intervista a Rolling Stone rilasciata a Jann S. Wenner e pubblicata il 4 febbraio 1971, senza fare veramente chiarezza sulle sue reali intenzioni. Ecco un passaggio chiave riportato da Scott e Bradshaw:

“In una versione dicevo «puoi contare su di me» riguardo alla violenza, sì o no, perché non ero sicuro. Ma la versione che facemmo uscire diceva «non puoi contare su di me», perché non mi piacerebbe che dappertutto scoppiasse una rivoluzione violenta. Non voglio morire; ma inizio a credere che non possa accadere altro, sai, mi sembra inevitabile”.

In Revolution I Lennon sembra essere ancora indeciso se dare credito o no ai movimenti d’opposizione al sistema, nella successiva, quella del singolo Revolution registrata appena circa un mese dopo, si dichiara inequivocabilmente “out”. Tuttavia, in un video promozionale, girato ai primi di settembre nei Twickenham Film Studios, prima dell’uscita del doppio bianco, Lennon ritorna alla versione ambivalente di Revolution I “non puoi contare su di me (puoi)”. Insomma, le intenzioni di Lennon sembrano oscillare continuamente tra l’in e l’out senza arrivare a un significato compiuto: un doppio binario forse studiato ad arte per rappresentare la doppia anima dei movimenti di protesta, quella pacifista (da sostenere) e quella violenta (da condannare). Anche se, alla fine, è innegabile che il messaggio conclusivo del brano sia radicalmente antirivoluzionario.

Quando poi, nel 1987, la Nike, dietro il consiglio di una piccola agenzia pubblicitaria locale, la Weiden+Kennedy, scelse Revolution come colonna sonora di un suo spot televisivo dedicato alla nuova tecnologia Air, innovazione che avrebbe segnato profondamente la storia del brand, riscoppiarono le polemiche. C’è da dire che la Weiden+Kennedy non era nuova a proposte di questo tipo: poco tempo prima aveva “scritturato” Lou Reed come testimonial per uno spot dedicato a un nuovo scooter della Honda, aggiudicandosi anche i diritti di un brano per alternativi duri e puri come Walk on the Wild Side. La pubblicità con Lou Reed trainò le vendite del mezzo a due ruote della casa giapponese, ma l’effetto dello spot Revolution fu ancora più dirompente. Le vendite di scarpe sportive firmate dalla Nike, che allora non navigava in buonissime acque, aumentarono, di colpo, del 30% e raddoppiarono nei due anni successivi. Ci furono reazioni di sdegno da tutto il mondo, stavolta, di quanti sentivano che l’utilizzo commerciale della musica dei Fab Four fosse un vero e proprio sacrilegio. L’azienda fu sommersa di lettere di protesta che sostenevano quanto una canzone così carica di significati fosse stata svilita dall’uso nella pubblicità (anche se quasi nessuno nelle motivazioni di protesta si concentrava sui significati politici contenuti nel brano). Ecco uno stralcio da una lettera scritta da tale Mr. Mileski (un consumatore tipo) alla Nike:

“Il vostro unico scopo è quello di riempire di soldi le vostre avide persone, e a quanto pare non ve ne importa niente se facendolo avete calpestato e insozzato i preziosi ricordi di milioni e milioni di persone in tutto il mondo. La gente della vostra risma mi fa vomitare; volgari, vuoti, luridi, pervertiti”.

A dire la verità ci furono anche moltissime reazioni affermative che plaudivano allo pseudo ritorno dei Beatles in televisione e al fatto che la canzone avrebbe fatto riemergere memorie e ricordi tra le generazioni che avevano vissuto negli anni dei Fab Four. Gli autori deducono che molti consumatori, forse quasi tutti, risposero di fatto positivamente allo spot visto anche il successo planetario delle scarpe con il simbolo della Nike. Uno spot “rivoluzionario” in tutti i sensi che non solo segnò la diffusione delle calzature sportive nell’uso quotidiano, ma che determinò un vero e proprio spartiacque, rompendo quello che era il più grande tabù in fatto di licenze musicali: l’uso di una canzone dei Beatles (alla Nike venne dato il nastro originale dell’incisione). Come spiegano bene gli autori, usare brani rock per le pubblicità, invece di scrivere jingle o utilizzare composizioni estratte dai cataloghi delle library, fu una pratica che iniziò negli Ottanta e divenne la regola negli anni successivi. A essere precisi c’erano già state nei decenni precedenti spot “sonorizzati” con canzoni di Rolling Stones, Pink Floyd ecc., ma è anche vero che fino ad allora nessuno aveva osato tanto. In seguito, la Nike utilizzò per uno spot Instant Karma, una canzone da solista di Lennon, mentre EMI, Apple e Capitol concordarono che nessun’altra canzone di Lennon-McCartney suonata dai Beatles sarebbe stata impiegata per vendere dei prodotti.

Fatto sta che, nonostante l’esplicito appoggio di Yoko Ono e di Michael Jackson (allora proprietario dei diritti di esecuzione di un vasto repertorio di canzoni del quartetto di Liverpool) e il parere favorevole dei membri dei Beatles ancora in vita riguardo all’utilizzo del brano Revolution per la pubblicità della Nike, si arrivò alla causa da 15 milioni di dollari intentata dalla Apple Records contro Nike, Wieden+Kennedy e Capitol Records in un tentativo di bloccare la messa in onda dello spot. La Apple affermò che sebbene la Nike avesse ottenuto legalmente i diritti sulla musica, aveva usato l’«immagine e la popolarità» dei Beatles senza permesso. La causa attirò ancora più attenzione sulla Nike da parte dei media che trasmisero nelle news lo spot Revolution per intero e in non molto tempo, spiegano gli autori del volume, la storia si sgonfiò. Ormai, però, il dado era tratto. Da allora, le agenzie pubblicitarie sono andate all’assalto di archivi e discografie di rock star, più o meno famose, acquisendo diritti musicali e creando spot utilizzando brani di David Bowie, Who, Kinks, Nick Drake, Led Zeppelin, Beach Boys e moltissimi altri. Basta accendere la tv o, meglio, il web per rendersene conto. Oggi, le pubblicità sono farcite di canzoni famose ri-contestualizzate, trasformate in materia nostalgica e, di fatto, completamente private del loro significato originario. Di tutto questo, però, ormai non si scandalizza più nessuno. I due autori sottolineano, infine, che la distinzione tra ciò che è fatto per vendere e ciò che è arte sia spesso del tutto soggettiva e impalpabile. È vero: tanto che gli stessi Beatles non avevano problemi a definirsi la band più commerciale della Terra. E invitano a evadere da facili e superate dicotomie: da una parte, gli artisti integri e disinteressati, dall’altra i pubblicitari avidi e opportunisti. Sarebbe ora, concludono, di trattare l’advertising come una questione di politica culturale.

Il Box Set Super Deluxe Edition dell’album The Beatles (White Album) realizzato per il cinquantenario della pubblicazione.

Tutto vero. Ma chi, per motivi generazionali o culturali, conosce autori, contesti e significati di quelle canzoni, ormai trasformate in “sottofondi per vendere”, rimane disorientato di fronte a questo sfruttamento intensivo di emozioni, ricordi e memorie. Uno svilimento, alla fine, che forse “nobilita” la pubblicità, ma non certo l’arte.

Ascolti
  • The Beatles, The Beatles (White Album) – 50th Anniversary Box Set Super Deluxe Edition, Universal Music Group, 2018.