L’impronta dei media
sulla scena del crimine

Gli sconfinamenti e i rimandi
alle crime series finiscono
per produrre anche “effetti collaterali”, segno dei costumi
e dei tempi:  la serie di gadget come la carta igienica (foto)
e nastro adesivo che prendono
a modello la segnaletica
delle scene del crimine.

Gli sconfinamenti e i rimandi
alle crime series finiscono
per produrre anche “effetti collaterali”, segno dei costumi
e dei tempi:  la serie di gadget come la carta igienica (foto)
e nastro adesivo che prendono
a modello la segnaletica
delle scene del crimine.


Vi è una forte percezione di insicurezza nel nostro Paese in seguito a vari fenomeni come terrorismo, immigrazione, disoccupazione, una crisi economica che non sembra mai avere fine, terremoti e nessuna istituzione sembra avere per ora i giusti strumenti ed un adeguato piano politico-economico per far ristabilire un livello accettabile di sicurezza sociale o perlomeno far percepire questo ai cittadini. La sociologia urbana in questi casi parla di “disorganizzazione sociale” e a questa poi, spesso, segue una “disorganizzazione individuale”. L’evoluzione della società, i nuovi media elettronici e digitali, il fenomeno della globalizzazione, cambiamenti politico-economici e in particolare, la costante e quotidiana rappresentazione del crimine e della violenza da parte dei mass media, hanno fortemente influito sulle interazioni umane, cambiando radicalmente il modo di relazionarsi e di comunicare, di costruzione e percezione della propria identità e realtà.
Sono questi processi a caratterizzare le trasformazioni sociali e il crescere dell’egoismo umano, “dove gli individui, affinchè la violenza sia efficace, agiscono strategicamente colpendosi a vicenda in condizioni emotivamente favorevoli” (Collins, 2014). Occorre superare ciò che sempre Collins chiama la “barriera emotiva della paura dello scontro” che si è sviluppata negli uomini, in seguito al processo di civilizzazione e alla nascita di una “cultura della violenza contemporanea” (Collins, ibidem).

La contemporaneità viene dunque raffigurata e percepita come pericolosa e violenta, criminale, dove l’interazione tra individui si verifica quasi esclusivamente attraverso i nuovi strumenti di comunicazione digitale, con un rischio sempre maggiore di incomprensione, di relazioni empatiche e quindi di “patologie comunicative” (Marotta, 2014). Una società, quella post-moderna, dove la comunicazione umana non è più un mezzo per costruire e migliorare le relazioni tra attori sociali, per raggiungere scopi comuni, ma “un’arma” per prevaricare ed “eliminare” l’altro e raggiungere così i propri scopi personali, se necessario, anche utilizzando la violenza (cfr. Corradi, 2009). Consuelo Corradi (ibidem) parla di comunicazione malata e violenza, come elementi che diventano non solo veri e propri strumenti di forza, ma anche forze generatrici di potere, che con esso si confondono: forze sociali capaci di strutturare la realtà e conferirle significato. C’è una “violenza culturale” e una “comunicazione patologica” nella società delle nuove tecnologie e dei linguaggi digitali, la stessa comunicazione che ha permesso all’uomo di costruire relazioni.

A quanto pare, la realtà in cui viviamo non è per nulla differente da quella cinematografica. L’ottavo Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa (2015), sottolinea come viviamo ormai un sentimento e una situazione di costante abitudine all’insicurezza e alle vicende di criminalità: è normale ascoltare in un telegiornale di circa 30 minuti con un alto numero di notizie ansiogene, di stragi, sequestri dove i riflettori illuminano sempre e solo chi commette violenza all’interno di una narrazione generalizzata che tende a  dimenticare la vittima e il dolore della famiglia. Perché è tutto un rimandare “alla vita degli altri”, finchè non siamo noi a ritrovarci in prima persona in una tragica situazione. La criminalità è ancora in testa nell’agenda dell’insicurezza: cambia però la narrazione delle notizie cosiddette ansiogene.
“Il piacere della violenza che viene inflitta al personaggio rappresentato, trapassa a sua volta, in una violenza inflitta allo spettatore, lo svago si trasforma in tensione e sforzo”. Così scrivevano i due filosofi della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor e W. Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo. I due francofortesi precisano che “l’industria culturale è, prima di tutto, una fabbrica del consenso che ha liquidato la funzione critica della cultura, soffocandone la capacità di elevare una protesta contro le condizioni dell’esistente” (Horkheimer, Adorno,1982). L’industria culturale diventa così uno strumento di comunicazione persuasiva e di manipolazione con una precisa funzione sociale: creare obbedienza, riconoscere nel pubblico mediatico un ruolo di passività in stretta continuità con la teoria ipodermica (cfr. Wolf, 1987). Nella moderna società del web e della comunicazione, si assiste a un profondo mutamento anche da un punto di vista strutturale-linguistico: la struttura di un film e il suo linguaggio, così come quella di un giornale, diventano pressoché identici: dalla rappresentazione del profilo del criminale alla descrizione fin troppo dettagliata della scena criminis.

Ciò dà luogo ad una trasformazione nella figurazione sociale e dunque nella percezione che si ha del cambiamento del sistema socio-culturale; un terreno esemplare per comprendere concretamente questa ipotesi potrebbe essere quella speciale forma letteraria che è il romanzo poliziesco. Come è noto, esso “trae lo spunto dal delitto ed elegge a protagonista il criminale, cioè a dire, un uomo doppiamente eroico che sfida non solo il pericolo dell’azione, ma anche quello della sanzione giudiziaria” (Savinio, 1971).  Tale percezione del delitto è particolarmente compatibile con la metropoli e con il suo anonimato che offrono il quadro più favorevole e la messinscena più adatta al quadro stesso del delitto. Il nodo narrativo più convincente per capire la differenza tra le figurazioni sociali della devianza nel passato e quella in voga nell’album dei contemporanei consiste nella presa d’atto che nei romanzi polizieschi, come nei telefilm di ogni latitudine, alla fine il bene vince sempre. Sempre Savinio descrive efficacemente questa dinamica valoriale come una fuga a due voci, nello sviluppo contrappuntistico di due elementi obbligati: il delitto da una parte e dall’altra il detective.

Nelle figurazioni contemporanee, l’epilogo sostanzialmente si rovescia. La stessa struttura dei telefilm (e a suo tempo anche parte degli sceneggiati) che pure pareva immutabile nella sua funzione di ripristinare l’ordine sociale, risulta oppresso da un eccesso di raffigurazione della violenza al punto da rendere precario qualunque scioglimento finale. Ciò avviene in maniera più chiara nelle pagine dei giornali e nelle sequenze dei notiziari televisivi: la cronaca nera domina in quanto tale. Per avere valore presso gli operatori delle news così come nel pubblico, essa deve rivendicare una doppia caratteristica: eliminare ogni spinta alla spiegazione ed avere così una funzione rassicurante sui pubblici.  La vicenda, infatti, non deve essere mai accompagnata fino alla conclusione. Il finale deve mancare, compromettendo dunque ogni speranza che nella coscienza inquieta dei lettori moderni il bene venga ripristinato come aspirazione permanente dell’animo umano.
Siamo di fronte a un brusco riduzionismo del potere comunicativo e socializzante della parola. Alessandro Manzoni, descrivendo la peste, ambientata nel Seicento, attaccava la Babilonia dei discorsi del mondo e ragionava, con straordinaria forza epistemologica, su quell’insieme di giochi linguistici opportunisticamente inventati da una società per non dir la verità sul male e sul suo contagio: quando il Male diventa visibile ad ognuno ci s’inventa la denominazione furbesca di “febbri maligne, febbri pestilenti”.
Si potrebbero a questo punto sollevare alcuni quesiti: perché alcuni eventi diventano più eventi di altri? Dal processo di Cogne in avanti, ad esempio, quanti omicidi compiuti da madri assassine ci sono stati in Italia? Alcune decine, ma nessuno ha avuto la stessa risonanza di Cogne. Quello che viene comunicato alle audience, non è un fatto ma un vero e proprio racconto spettacolarizzato. Come sosteneva Walter Benjamin, nel momento in cui un atto o un’identità diventa riproducibile in una prospettiva di massa, inevitabilmente cambia di natura, in quanto ciò che muta non è solamente la raffigurazione ma anche la sostanza.

Un racconto con protagonisti, antagonisti, colpi di scena, flashback, che non sempre in realtà hanno un lieto fine, ma poco importa: lo spettatore è abituato, infatti, a conoscere il male e questa abitudine non fa che rafforzare (non aumentare) il senso di insicurezza e paura che da tempo fa parte dell’individuo e della moderna società. Un racconto che spesso non segue delle logiche temporali, che mette da parte il concetto di privacy e libertà, al fine di raggiungere un numero di click elevato e dominare nel mondo del marketing giornalistico.
Il criminologo Meluzzi riconosce due principali fattori che alimentano questo tipo di meccanismo: quello del misterioso storytelling giallistico (fin dall’inizio si fa un’enorme difficoltà a comprendere quale sia la verità e come sia avvenuto quel fatto) e quello legato al processo penale mediatizzato, che ha inevitabilmente incurvato il meccanismo di formazione della giustizia e aperto le porte ad un pubblico non sempre pronto e interessato alle situazioni giuridiche (cfr. Meluzzi, 2014). Per Benjamin, nel momento in cui un evento o un atto divengono riproducibili in una prospettiva di massa, cambia la loro natura perché muta la raffigurazione e la sostanza (cfr. Benjamin, 2000). Si è creata così una ricerca della notizia, dello “scoop mediatico” a tutti i costi, anticipando pericolosamente gli esiti giudiziari.
L’informazione quindi, è stata veicolata attraverso brevi articoli o annunci, perdendo quel nobile obbiettivo di un’informazione precisa ed equilibrate e lasciando il posto a veri e propri “processi mediatici” e “spettacolari notizie” di delitti, stupri, attacchi terroristici che assumo più sembianze hollywoodiane che quelle di una sana informazione. Questo scenario sociale così costruito, questo modo di relazionarci e di comunicare, la modalità di rappresentare il crimine e i criminali, ha fatto sì che la violenza e l’insicurezza diventassero parte del pubblico e del suo sistema di percezione e cognizione.

Lo spettatore-cittadino curioso s’interessa e partecipa ai processi e alle indagini, impaziente di completare quel cruciverba così tanto contorto ma con una capacità di empatia, di compassione così bassa verso chi ha subito un atto violento, da renderlo quasi un non-umano; c’è un adattamento costante a tali dinamiche comunicative; il pubblico appare paradossalmente domato, obbediente, modellato in base ai contenuti mediatici (cfr. Gerbner, 1971). Continui messaggi violenti ed immorali possono favorire l’identificazione con personaggi negativi o antisociali e comportamenti emulativi (cfr. Popper, 2002): l’azione suggestiva è tanto più sottile quanto meno è palese la comunicazione, che può suggerire risposte specifiche nello spettatore o nel lettore, senza che questi se ne renda conto. Si attiva quindi quello che viene definito un “processo di coltivazione” ovvero un processo continuo, dinamico in sviluppo di interazione tra messaggi, audiences e contesti (cfr. Gerbner, 1971).
Gerbner svolse tra gli anni Sessanta e Settanta vari studi sugli effetti della televisione sulla popolazione negli Stati Uniti, dividendo il pubblico in tre categorie: low-User (coloro che guardano meno di due ore al giorno televisione), normal-User (tra le due e le sei ore al giorno) e gli heavy-User (più di sei ore al giorno). Analizzando, in particolare, il terzo gruppo, lo studioso formulò la sua tesi della coltivazione e cioè che l’uso massiccio del mezzo televisivo non ha effetti immediati sul pensiero, ma produce nel lungo termine un effetto di “coltivazione” e provoca un cambiamento della percezione della realtà, facendo vivere lo spettatore in un mondo modellato su ciò che viene trasmesso nella televisione (cfr. Bentivegna, 2008). È fondamentale individuare un mainstream televisivo che può essere raffigurato come una comunanza di rappresentazioni del mondo e di valori, individuato a seguito di una elevata esposizione televisiva.

I media (cinema incluso) stanno inoltre creato, ultimamente, una schiera di supereroi discutibili (per esempio: gli eroi Marvel), che non consentono più una separazione netta tra bene e male, aumentando il livello di percezione dell’insicurezza. L’industria culturale sta introducendo nuove figure dell’immaginario che andranno a modificare l’immagine stessa dell’eroe che combatte il Male. Infatti, dopo il successo di crime series come CSI (2000 – 2015) e Criminal Minds (iniziata nel 2005 e tuttora in corso), che tentano di descrivere le tecniche di psicologia criminale e come queste vengano applicate dalla polizia federale per combattere il crimine e costruire un profilo dell’offender, ad un certo punto la scena del crimine comincia a non essere più vista attraverso l’occhio del detective, bensì con quello del delinquente.
La serie televisiva dove è possibile notare questo cambio di prospettiva è, per esempio, Dexter (2006 – 2013), dove il protagonista è un tecnico della polizia scientifica di Miami, che col passare delle puntate sembra più somigliante a un assassino, piuttosto che a un servitore della legge.
Nelle nuove crime series emerge un dato interessante: non si riscontra più una categorizzazione dei personaggi “buoni” o “cattivi”.  Vengono così smontati gli stereotipi dei protagonisti, che in tal modo possono risultare ancora più curiosi per l’attenzione dello spettatore seconda dei casi e delle storie personali, gli attori vengono quasi giustificati dal pubblico se l’azione malefica è finalizzata al compimento di un bene maggiore. Il caso della serie Dexter è emblematico, indirettamente si comprendono gli innumerevoli omicidi del protagonista, che invece di arrestare i ricercati preferisce ucciderli.
Non è un caso che negli ultimi anni sono visibilmente aumentate le serie che seguono questa differente prospettiva dedicate alla storia della mafia, al narcotraffico e in generale alla malavita comune. La serie dei Sopranos (1999 – 2007) apre la strada a una nuova epoca nella tipologia delle crime series: il crimine visto da chi lo commette, non da chi lo persegue.

Anche la rete e i media digitali presentano un loro “lato oscuro” in quanto non hanno contribuito a limitare questo fenomeno anzi, secondo l’ex agente del Bureau J. Douglass, la nuova criminalità è cresciuta parallelamente alla nascita delle nuove tecnologie e modalità di comunicazione (cfr. Douglass, 2008). Si è passati da una comunicazione identificativa con i media elettronici, a una comunicazione “anonimizzata” con i media digitali dove informazioni e utenti spesso non hanno fonte, non hanno identità, c’è un flusso comunicativo che ha un inizio e che si muove velocemente all’interno di una realtà che non ha fine, dove vengono filtrati tutti i comportamenti umani.
Il web, i social network ci hanno resi tutti cittadini attivi all’interno di uno spazio virtuale dove riceviamo notizie in tempo reale, le discutiamo, le confrontiamo, le condividiamo e approfondiamo senza limiti di tempo e spazio (cfr. Menduni, 2009). La multimedialità e le nuove rappresentazioni virtuali differenziano i nuovi media dai tradizionali e vanno ad incidere anche su cultura e comportamenti, aumentando l’identificazione tra modello e target di riferimento e la costruzione di auto-efficacia, ciò che viene offerto è estremamente somigliante alla realtà. Uno dei principali rischi infatti, è proprio quello legato alla difficoltà di percezione e di discernimento tra la “reale realtà” e quella virtuale-mediatica che investe anche la sfera privata, influenzando le credenze, i valori, i modelli di comportamento che orientano la nostra vita quotidiana, in un processo di “coltivazione” che inizia fin da bambini.
L’elettronica, l’informatica ed Internet, hanno decisamente modificato il modus operandi e vivendi delle imprese, dei comuni cittadini, ma anche di chi compie attività criminali. L’anonimato, gli slang, la velocità e la brevità dell’informazione, i dati criptati, la costruzione di personalità differenti online, l’inserimento e la condivisione di file di qualsiasi natura, favoriscono la messa in atto di azioni illegali coinvolgendo anche individui che, in assenza di uno schermo e di una rete internet, non avrebbero mai avuto il coraggio di compiere certe azioni (cfr. Lorusso, 2011). Paradossalmente, sono dunque proprio gli utenti che utilizzano chat e social network a sentirsi liberi di delinquere, la loro immaginazione in rete non ha più confini.Negli anni passati eravamo in un certo senso costretti a interagire attraverso il contatto visivo, linguaggio del corpo e aspetto fisico.

In rete, l’interazione è molto più veloce, spesso strumentale, si passa da una chat o da una email all’altra e la mancanza di limitazioni, autocontrollo hanno reso il cyberspazio un luogo ingannevole e i cyber-comportamenti violenti. In base ad uno studio del sociologo americano David Finkelhor, le vittime del cybercrime oggi sono soprattutto minori e il contatto con il proprio carnefice avviene principalmente online, chattando in apposite chat-room riservate e precisamente, attraverso Instant message (10%) ed email (5%) (cfr. Finkelhor, 2008). Inoltre, dopo gli attacchi terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, l’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) di Londra ha scoperto come social network, chat, tweet, fossero improvvisamente diventati mezzi di propaganda e di reclutamento di criminali terroristi con più di 27mila account attivi in rete. “Senza comunicazione non vi sarebbe terrorismo” affermava già circa cinquant’anni fa, Marshall McLuhan. Quando McLuhan esprimeva questi suoi pensieri non esisteva ancora Internet, non esisteva ancora la CNN, la rete globale dell’informazione era in una fase embrionale rispetto a oggi. Cyber -bulli, cyber pedofili, cyber-terroristi, sono dunque questi i nuovi criminali che agiscono in Rete, sfruttano i nuovi linguaggi digitali per mettere in atto strategie comunicative persuasive e manipolatorie per i propri interessi, per danneggiare persone, per destabilizzare istituzioni, per rubare dati ed informazioni private.
Questo è il lato violento e criminale della comunicazione contemporanea, questi sono i moderni “criminali – supereroi”, che non sempre hanno un nome o un volto, ma che mediaticamente ancora funzionano e incuriosiscono. Realtà devianti quelle mediatiche, virtuali e sociali dove non ci sono più confini e il rischio di distorsione e apprendimento di alcuni comportamenti e linguaggi diventa sempre più concreto.
C’è un evidente problema e con-fusione anche riguardo all’identità e al ruolo della vittima e del carnefice: chi è il buono e chi è il cattivo? Perché, se il linguaggio mediatico utilizzato si concentra sempre e solo sul turbolento passato e sulle psicopatologie dei criminali quasi a giustificarlo, può essere sì un colpo di scena in un racconto di fiction o in un fumetto manga, ma non può essere un fatto reale, dove personaggi sono soggetti reali.
Il messaggio che percepisce lo spettatore, già turbato dall’evento, è che il “povero” killer non abbia poi così tanta responsabilità nel suo gesto perché malato o perché ha appreso da amici e familiari determinati comportamenti. Non si può dunque coprire o giustificare atteggiamenti o comportamenti, solo per audience. La percezione di tali rischi è ancora molto bassa, ma la possibilità che quello che per ora è percezione diventi fatto sociale concreto è sempre più vicina. Questo sistema ormai comune di comunicare, rappresentare e raccontare determinati fenomeni e individui da parte dei media e l’incontrollabile ed eccessiva curiosità dello spettatore di conoscere la violenza a tutti i costi, è così presente anche nel web senza limiti e tutele. Tale condizione non fa altro che rafforzare quell’individualismo, quell’aggressività, quella voglia di dominio e controllo sull’altro che caratterizzano le relazioni umane e l’inizio di una nuova “cultura della violenza” (Gallino, 2006). Non è quindi solo un problema di comunicazione-relazione, ma anche un profondo problema educativo e culturale.
Non esiste più un unico centro culturale, ma una pluralità di opzioni valoriali molto spesso contraddittorie e differenti o meglio ancora, una pluralità di sub-culture (spesso devianti e violente ) definite  come sottoinsieme di elementi culturali, condivisi dagli elementi di un gruppo, inteso come “relazionalità interna più consistente di quella esterna, che si pongono in aperta o celata opposizione alle norme e ai valori propri della cultura dominante nella quale sono inseriti” (Cipolla, 1997).

Letture
  • Ignazia Bartholini, Violenza di prossimità, Franco Angeli, Milano, 2015.
  • Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica Einaudi ed., Torino, 2000.
  • Sara Bentivegna, Teorie delle comunicazioni di massa, Ed. Laterza, Bari, 2008.
  • Costantino Cipolla, Epistemologia della tolleranza, Franco Angeli, Milano, 1997.
  • Randall Collins, Violenza. Un’analisi sociologica, Rubettino, Sovera mannelli (Catanzaro), 2014.
  • Consuelo Corradi, Sociologia della violenza, Meltemi editore, Roma, 2009.
  • John Douglass, Ann W. Burgess, Allen G. Burgess, Robert K. Ressler, Crime Classification Manual. Un sistema standardizzato per indagare e classificare i crimini violenti, CSE, Torino, 2008.                                                  
  • David Finkelhor, Childhood Victimization, Oxford University Press, 2008.
  • Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 2006.
  • George Gerber, Violence in Television Drama: Trends and Symbolic Functions, in George A. Comstock, Eli Abraham Rubinstein, John P. Murray, Television and Social Behavior – Reports and Papers, Vol. 1 – Media Content and Control, Surgeon General’s Scientific Advisory Committee on Television and Social Behavior, 1972.
  • Max Horkheimer, Theodor Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi editore, Torino, 1982.
  • Piero Lorusso, L’insicurezza nell’era digitale, Franco Angeli, Milano, 2011.
  • Gemma Marotta, Profili di criminologia e comunicazione, Franco Angeli, Milano.
  • Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2008.
  • Alessandro Meluzzi, Crimini e mass media, Infinito edizioni, Formigine (Modena), 2014.
  • Enrico Menduni, I media digitali, Laterza, Bari, 2009.
  • Osservatorio Europeo sulla sicurezza, VIII Rapporto sulla sicurezza in Italia e in Europa, 2015.
  • Karl Popper, Cattiva maestra televisione, Marsilio, Venezia, 2002.