Il magico e il misterioso
si addicono ai britanni

Arthur Machen
La collina dei sogni
Traduzione di Claudio De Nardi
il Palindromo, Palermo, 2017

pp. 285, € 18,00

Arthur Machen
La collina dei sogni
Traduzione di Claudio De Nardi
il Palindromo, Palermo, 2017

pp. 285, € 18,00


The Fool on the Hill recita il titolo di una leggiadra e sognante composizione dei Beatles. Il brano venne concepito come parte della stupefacente colonna sonora di Magical Mistery Tour, il film trasmesso in tivù la sera di Santo Stefano, il 26 dicembre 1967. Mezzo secolo fa, messa alle spalle la Summer of Love, l’alba dell’era psichedelica, in un Regno Unito in preda a visioni lisergiche di ogni tipo, il quartetto che sconvolse il mondo omaggiava un luogo/simbolo, fortemente radicato nell’immaginario d’oltremanica: la collina. È lì che secondo la tradizione risiedono gli altri, qualsiasi cosa siano, il piccolo popolo o altre creature della luce e delle tenebre. Testimoni sulla soglia, manifestazione di presenze, diversi, sempre misteriosi come la figura del matto della splendida canzone firmata Lennon/McCartney. Quel matto sulla collina che vede il sole tramontare e con occhi interiori vede il mondo girare.
Chissà se avessero letto un romanzo pubblicato sessant’anni prima (dieci anni dopo la sua stesura nel 1897) da Arthur Machen, La collina dei sogni, sparito dagli scaffali italiani da decenni (era stato pubblicato da Reverdito nel 1988) e ora riproposto con un’introduzione di Gianfranco de Turris e un saggio in appendice del traduttore Claudio De Nardi. A farlo è il Palindromo, una giovane casa editrice palermitana con uno spiccato gusto del fantastico. Infatti, la collana che si inaugura con il romanzo di Machen, chiamata I tre sedili deserti, a sua volta un palindromo, “intende riportare l’attenzione sui romanzi che hanno contribuito alla costruzione del genere fantastico”, come recita il risvolto di copertina del volume. Data questa premessa, esordio più convincente non poteva esserci e per giunta con una versione finalmente integrale, perché la traduzione è stata revisionata e integrata con le parti mancanti nella precedente edizione da Giuseppe Aguanno, direttore della collana.


Machen è uno dei signori del genere, tra i fondatori, coloro che ne hanno codificato regole, strutture, atmosfere: tópoi e anche, perché no, luoghi comuni. Quello dello scrittore gallese è un universo che ha radici profonde nel folklore delle terre d’oltremanica; il rimando beatlesiano in questo senso non fu casuale e vedremo in seguito in che misura. Prima sarà utile ri/presentare Machen, autore prolifico, apparso tardi in Italia, perso e ritrovato a più riprese, ogni volta sottratto a un oblio immeritato. Nato a Caerleon-on-Usk, sede di un insediamento militare romano fino al 300 d.C. e da molti forzatamente imparentata con Re Artù e Camelot, Machen (il cui vero nome è Arthur Llewellyn Jones) scrisse le sue cose migliori nel decennio 1889-1899, storie che lo iscrivono di diritto all’albo dei maestri del fantastico a tinte scure: Il grande dio Pan, I tre impostori, La luce interiore, La mano rossa, La piramide di fuoco. Sono alcune delle opere che impressionarono in seguito Howard P. Lovecraft; pur essendo autore diversissimo per accenti, toni, e timbri differenti, il solitario di Providence ammirava profondamente lo scrittore gallese. Nel celeberrimo saggio L’orrore sovrannaturale nella letteratura (1925) scriveva: “Dei creatori viventi di terrore cosmico, portato al massimo livello artistico, pochi possono sperare di eguagliare Arthur Machen, autore di una dozzina di opere di narrativa brevi e lunghe, nelle quali un’atmosfera di orrore nascosto e di paura incombente acquista consistenza quasi incomparabile e vivido realismo” (Lovecraft, 2011).

Una svolta stilistica e in parte tematica
A un certo punto, però, Machen, decise di svoltare, di emanciparsi da quello che per lui a sua volta era stato guida e modello: Robert Louis Stevenson (“basta con le cadenze misurate e rifinite di Stevenson, di cui ero diventato esperto con gran facilità”, ricorda nell’introduzione all’edizione statunitense del 1923 inclusa in questa edizione). L’intenzione si tradusse nel progetto di scrivere “un Robinson Crusoe dell’anima” (ibidem), ovvero di raccontare la condizione dell’isolamento, ma non in seguito a un naufragio in un’isola deserta, bensì a causa dell’inabissamento nella folla della metropoli. Individuato il tema conduttore, Machen si mise al lavoro e concluse La collina dei sogni nel 1907, dopo diciotto mesi tribolatissimi. Dovettero poi trascorrere dieci anni prima della pubblicazione, come si è detto; un tempo sufficiente anche per generare un caso di plagio, episodio ricordato dallo stesso Machen nell’introduzione sopra citata. Quasi una profezia autoavveratasi, che fortifica la dimensione autobiografica dell’opera.
Il protagonista, il giovane Lucian Taylor, scrittore in erba, invia il manoscritto del suo primo romanzo a diversi editori e si ritroverà a leggerne ampie parti in una storia pubblicata da uno degli editori da lui contattati.
Il piano autobiografico, sicuramente presente, non è però l’unico e soprattutto non è il principale livello di lettura del romanzo. È vero che il paesino in cui vive Lucian è dichiaratamente ricalcato anche nel nome, Caermaen, su quello che diede i natali a Machen, con le rovine sulla collina della romana Siluria che altro non sono che quelle di Isca Silurum nei pressi di Caerleon-on-Usk. Anche la residenza londinese di Lucian trova corrispondenza nella biografia di Machen, anch’egli da giovane aveva alloggiato a Notting Hill, ma affermare che La collina dei sogni è un romanzo autobiografico degli anni di formazione dello scrittore Machen, un Bildungsroman, è una considerazione riduttiva nei confronti del romanzo, che si offre a molte più interpretazioni, a iniziare dalla riproposizione in chiave moderna (allora) del conflitto tra l’eroe solitario, incompreso (l’artista che svela la realtà vs l’apparenza condivisa da tutti), che è in qualche modo un eletto, e la massa, la società, i luoghi comuni. Sicuramente è anche e soprattutto l’allegoria di un percorso di iniziazione alchemico con tutto il necessario corredo simbolico, in alcune pagine assai esplicito, di cui De Nardi fornisce un puntuale resoconto nel suo saggio.

Radici lontane, sempre vitali
Machen all’epoca aveva iniziato a frequentare la Golden Dawn, l’ordine ermetico che vide tra i suoi più convinti sostenitori un poeta maestoso come William Butler Yeats così come un discutibilissimo personaggio come Aleister Crowley. Tutto sorgeva da quell’humus ancora fertile durante la psychedelic era mezzo secolo dopo, quell’insieme di saperi vecchi e nuovi al servizio di un anelito e di un bisogno di realtà più vera, svelabile tramite cerimonie o sostanze allucinogene poco importa. Il pazzo sulla collina dei Beatles non appare dunque a caso, ma fa parte di una cultura che, è il caso di dirlo, al di là delle apparenze, ha trovato modo di manifestarsi sotto varie forme nella cultura d’oltremanica, prima in letteratura e poi in musica e nel cinema. Uno Zeitgeist che oltrepassa il periodo storico in cui visse Machen. Che altro è un film come The Wicker (1973) di Robin Hardy (e il suo brutto remake del 2006 di Neil LaBute, apparso in Italia con il titolo Il prescelto), con tutto il suo paganesimo celtico che non a caso si intreccia con situazioni tipiche dell’horror?
Oppure, come spiegare un fenomeno come il neofolk di matrice post industrial tipico di formazioni attive in particolare negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, come i Death in June e soprattutto i Current 93 di David Tibet; quest’ultimi addirittura così fedeli alla linea da riprendere il titolo di un romanzo di Machen per una propria trilogia discografica, The Inmost Light (il citato La luce interiore)? Ancora, a metà anni Novanta, una cassetta raccoglieva lavori di artisti dark industrial come i Maeror Tri e Colin Potter, sodale di un’altra formazione limite come i Nurse With Wound, sotto il titolo From The Hill of Dreams. Suoni elegiaci disturbati dall’elettronica, a significare l’irruzione dello sconosciuto. Un’area musicale infarcita di citazioni misteriche, di riti oscuri, di saperi esoterici e il cui substrato culturale ha anche radici nel mondo a sua volta tutto sommato fatto di circoli, di eletti, di diversi, come sono tutte le declinazioni sessuali del fetish, compreso e soprattutto il sadomasochismo.
Emblematico quanto viene descritto nel terzo capitolo del romanzo. Lucian compone dei versi per una fanciulla, Annie, che ha eletto a suo ideale femminile, una contadinotta, in realtà. Raccolti in un volume autoprodotto, li include in un particolare rito amoroso avvalendosi di alcuni rami di ginestra spinosa.

“Spesso si svegliava tra le lacrime, mormorando passaggi di uno dei suoi canti; allora accendeva la candela, tirava fuori i rami irti di spine e li metteva sul pavimento. A quel punto si toglieva la camicia da notte e si stendeva delicatamente sul quel letto di rovi. Giaceva sul ventre, con la candela e il volumetto aperto davanti, sussurrando e ripetendo con infinita tenerezza le lodi dell’amata Annie. E nel momento in cui, pagina dopo pagina, vedeva scintillare e risplendere le dorate maiuscole in rilievo, premeva le sue carni contro le spine. In quegli attimi assaporava il piacere sottile del dolore fisico”.

Un body performer ante litteram, nonché partecipante di chissà quale cerimonia alchemica, ma anche un rituale di relazione tra mistress e slave. Questo passaggio è anche un esempio del tipo di accadimenti che il romanzo registra, perché, difatti, non c’è una trama degna di questo nome ne La collina dei sogni: nella realtà apparente, esteriore, succede poco o niente. Tutto è affidato alla magistrale capacità descrittiva di Machen, in grado di far emergere per intero l’inquietudine che si cela in ogni singola foglia che marcisce, in qualsiasi ombra, nei suoni della natura, dalla pioggia al vento, negli odori, olezzi o profumi che siano, nei termini in cui tutto ciò viene percepito da Lucian, scrittore in erba a Caermaen che morirà nella capitale avendo abusato di sostanze: per overdose (arte e droga, altro binomio riemerso in musica). Nel mezzo i tentativi sempre più disperati di dare forma a un’opera letteraria che non vedrà mai la luce, di abbozzi, cancellature, entusiasmo ritrovato e cupa disperazione.
Non sappiamo se i Beatles abbiano mai letto La collina dei sogni (siamo invece a conoscenza che il rivale Mick Jagger apprezzasse Machen), ma siamo sicuri che, a sua volta, Machen non avesse in mente Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac? Racconto esemplare dove il procedimento creativo viene incorporato nella metafora del supplizio di Tantalo: fare e disfare per la continua insoddisfazione del risultato raggiunto (“I can’t get no satisfaction”, ripete da mezzo secolo Jagger). Ci sono fiamme nel finale del racconto di Balzac come nell’ultima visione di Lucian e il fuoco impazza per porre fine a un altro mondo, apparentemente distante da quello di Machen: la citta di Santa María. La città inventata da Juan Carlos Onetti a metà Novecento in Sudamerica, città che un po’ alla volta, strada dopo strada, un quartiere alla volta, i suoi sobborghi, la piazza principale, il suo fiume, verranno creati da Juan María Brausen insieme a tutti i personaggi della saga a iniziare al dottor Diaz Grey.

Nel quarto capitolo di La collina dei sogni, Lucian e il suo doppio romano Avallaunius come Brausen/Grey fanno esistere una città dal nulla, l’antica Siluria “le sue incantevoli ville, i giardini ombrosi, la magia dei pavimenti a mosaico, i preziosi arazzi intessuti di motivi complessi e lucenti”. L’artista è sempre un fabbricante di universi, come spiegò a modo suo Philip José Farmer, scegliendo il registro dell’avventura per l’omonimo ciclo. Machen dimostra qui che prima ancora di essere un maestro dell’orrore, perturbante perché sempre sulla soglia di altri mondi e oltre a dimostrare una sensibilità da poeta, “perché la sua opera, scritta in una prosa molto elaborata, possiede quell’intensità e quella solitudine proprie della poesia” (Borges, 1977) fu innanzitutto un creatore di mondi. In altre parole: un artista.

Ascolti
  • Autori Vari, From The Hill of Dreams, Direction Music, 1994.
  • Current 93, The Inmost Light, Durtro, 2007.
Letture
  • Jorge Luis Borges, Introduzione in La piramide di fuoco, Franco Maria Ricci, Parma, 1977.
  • Howard P. Lovecraft, L’orrore sovrannaturale nella letteratura, in Teoria dell’orrore, Bietti, Milano, 2011.