Viaggiare nello spazio,
ovvero nella memoria

Fabrizio Farina (a cura di)
Viaggi nello spazio
Traduzioni di  Vittorio Curtoni,
Dianella Selvatico Estense,
Carlo Fruttero, Luca Lamberti,
Giuseppe Lippi, Franco Lucentini,
Andrea Mattacheo, Roldano Romanelli,
Susanna Spero, Anna Maria Valente
Einaudi, Torino, 2018

pp. 304, € 14,50

Fabrizio Farina (a cura di)
Viaggi nello spazio
Traduzioni di  Vittorio Curtoni,
Dianella Selvatico Estense,
Carlo Fruttero, Luca Lamberti,
Giuseppe Lippi, Franco Lucentini,
Andrea Mattacheo, Roldano Romanelli,
Susanna Spero, Anna Maria Valente
Einaudi, Torino, 2018

pp. 304, € 14,50


Altro che saltare a velocità curvatura o stracciare il varco iperspaziale di Kessel in meno di 12 parsec: arrivare in mongolfiera su Urano, ecco una vera impresa. Non sembra avere pudori tecno-scientifici Fabrizio Farina nel curare e mettere insieme racconti sul desiderio di altrove in scrittori di epoche molto lontane tra loro. Missione: proseguire il discorso cominciato con la raccolta Viaggi nel tempo (Farina, 2016) ovvero tessere legami tra fantascienza (non importa l’epoca, non importa il lignaggio artistico o filosofico) e ricerca scientifica sul tema del continuum spazio-tempo. La fisica contemporanea sta unificando quelle che siamo abituati a considerare come entità separate: il Tempo e lo Spazio.

Le illustrazioni di quest’articolo sono tratte dalla campagna Voyage d’Hérmes realizzata da Mœbius per il brand Hérmes.

L’astrofisica ci aiuta a cogliere un sussurro che ci racconta la storia scientifica dei primi istanti dell’universo. Si cercano legami dove prima c’era separazione: tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, tra la relatività generale e la meccanica quantistica. Tra mito e scienza, il racconto di dove stiamo andando potrebbe coincidere con quello delle origini (cfr. Tonelli, 2017). Nella raccolta vi è incluso un racconto di Emilio Salgari (Alla conquista della Luna), in rappresentanza di quel senso di conquista che caratterizzava i viaggi poco prima della grande espansione delle telecomunicazioni e della fisica quantistica. Gli orizzonti infiniti tutti terrestri dello scrittore veneto sono la premessa alla proiezione avventurosa inseguita dall’immaginario occidentale per tutto il Novecento, tra letteratura d’evasione e turismo di massa. Voglia di esplorare poi radicalmente mutata con la televisione e con internet. Le raccolte curate da Farina sembrano appunto volersi concentrare sulle radici profonde e sui frutti finali delle importanti cesure antropologiche del secolo scorso.
Lo spirito è simile a quello del libro di Stephen Kern (2007): se quest’ultimo è un saggio sociologico che si legge come un romanzo d’avventura, la raccolta è un corpus di avventure scelte per divertire e al tempo stesso far riflettere. Kern ripercorre i rapporti tra le rappresentazioni artistiche e i cambiamenti avvenuti nella percezione dello spazio-tempo tra Ottocento e Novecento per poi introdurre l’epoca della simultaneità, ovvero un radicale mutamento nel modo di conoscere e comunicare. Ancora oggi, nel senso comune e nella vita di tutti i giorni, siamo abituati a tenere separati spazio e tempo perché la nostra tecnica ci mette continuamente davanti metro e orologio.

Là dove le dimensioni contano
Nei divertenti racconti di Voltaire (Micromega, del 1752) e Vivenair (storia del 1784 che vanta un titolo decisamente ante/ wertmülleriano: Un viaggio compiuto da poco, solcando l’aria, a bordo di un pallone aerostatico, comunemente detto mongolfiera, da questo globo terracqueo al pianeta recentemente scoperto Georgium Sidus) l’esplorazione spaziale diventa un pretesto per giocare con le misure e con il nozionismo e i pregiudizi culturali che possono tenere incatenate le scoperte scientifiche. Il divertimento scaturisce dall’immaginare usi e costumi stravolti da dimensioni fisiche e biologiche sorprendenti. “La natura è ovunque estesa ma ha in ogni globo proprietà diverse”: ci dice appunto in Micromega l’enciclopedico Voltaire. Ma gli incontri non sono quasi mai scontri di civiltà, solo il preludio a un possibile dialogo filosofico. Cosa che in effetti è avvenuta, specialmente in Francia, dove da ben due secoli il dibattito su migrazioni e globalizzazione si mantiene sempre vivo. La nazionalità francese di due racconti su tredici non sembra casuale e ricorda l’origine illuminista di una dialettica che oggi apre e chiude le frontiere.

Oggi sembra dominare una prudenza come quella di Régis Debray perplesso di fronte a un “mondo senza un dentro e un fuori” Debray, 2010). Il filosofo francese ricorda che il senso del limite (limes uguale confine) è antico quanto l’uomo e risale ai segni sul terreno atti a delimitare gli spazi sacri. Sarebbe Dio in persona, insomma, a mostrarci il destino umano tracciando linee che delimitano ciò che sarà da ciò che non sarà. Un centro gravitazionale troppo forte nel cuore della cultura occidentale? Quasi tutti i racconti di questa raccolta tentano, come Un’Odissea marziana di Stanley G. Weinbaum, di spostare il focus dalla conquista dell’altrove al tentativo (spesso molto vano, quasi sempre dai risvolti comici o drammatici) di comprendere l’altro da sé. Ancora più cinico e divertente il racconto di Robert Sheckley che con il suo Mai toccato da mani umane ci ricorda che esistono anche mani non umane.
L’ironia raffredda l’ottimismo espansionistico rovesciandolo in gag linguistiche e culturali: due astronauti a corto di provviste in un magazzino alieno alla ricerca di cibo e alle prese con misteriose etichette. Tradurre per sopravvivere. Il lavoro dello scrittore di origini polacche è sempre un divertente controcanto all’ostinato spirito d’avventura umano contro l’evidenza che l’universo è automaticamente (se non addirittura burocraticamente) ostile all’attraversamento delle frontiere.
Niente di serio neanche in Niente di Sirio di Frederic Brown, dove gli abitanti di un misterioso pianeta tengono alla larga gli umani con efficaci proiezioni mentali che pescano dalla memoria dei visitatori. Il fatto che questi alieni siano scambiati per scarafaggi dagli umani che credono di visitare un set della Planetary Cinema non fa che acuire l’incompatibilità tra razze così diverse. Brown è pur sempre l’autore del fulminante Sentinella, racconto brevissimo in cui, assumendo il punto di vista di un soldato alieno in conflitto con gli umani, ci viene ricordato che gli umani sono esseri di un bianco nauseante e senza squame.

Spazio, ultima frontiera
La tecnologia ha consentito una diffusione più veloce e pervasiva di quella che oggi chiamiamo civiltà occidentale, risolvendo così quello “scontro di civiltà tra l’uomo bianco, ancora portatore del fardello kiplinghiano, e il selvaggio pellerossa” (Brancato, 2010). La conquista del West è stato un momento seminale nel processo di industrializzazione e di globalizzazione capitalista.
Trasporti e mass-media sono caratterizzati da percorsi evolutivi che hanno forti affinità. I due percorsi sono entrambi ramificazioni della tecnologia divenuti catalizzatori di processi sociali. Come tali hanno conquistato una certa centralità nell’immaginario. Molta space opera americana è la prosecuzione con altri mezzi del genere western, traslando in scenari tecnologici il tema della frontiera (cfr. Westfahl, 2000).

Spesso la fantascienza, specie dopo la bomba atomica, ha ridimensionato il fuoco positivista nella consapevolezza che la vita biologica abbia un solo destino oggettivo ovvero espandersi, cinicamente e ostinatamente, ovunque possibile così da accumulare probabilità di sopravvivenza. C’è un archetipo, un richiamo profondamente radicato nell’umano che viene messo a fuoco dalle parole di Primo Levi (ricordate nell’introduzione della raccolta, in un’intervista del 1969, poco dopo lo sbarco sulla Luna): l’uomo sente il bisogno di disseminarsi, di distribuire semi su una superficie quanto più vasta possibile.
Ma se è vero che la circostanza del viaggio aiuta a descrivere e a narrativizzare la disseminazione della vita e dell’umano, sembra inevitabile focalizzare cosa avviene durante il viaggio togliendo spesso importanza alla meta finale, agli obiettivi razionali. La durata, quello spazio-tempo consumato dalla marcia, è l’inevitabile pretesto per far emergere considerazioni sull’umano e sullo spazio interiore che muta e si evolve parallelamente a quello siderale.

Il cervello come gabbia-universo
Il viaggio nello spazio è solcare un nuovo oceano o è più un’epifania interiore? Il secolo scorso ha vissuto uno straordinario periodo di accelerazione nella crescita dei rami tecnologici relativi alle esplorazioni spaziali. Paradossalmente proprio uno di quei rami ha portato allo sviluppo dei satelliti e della telefonia mobile che hanno esaltato il cosiddetto mondo digitale offuscando il bagliore (anche politico) dei viaggi spaziali. A livello di immaginario, almeno per ora, il sogno collettivo del viaggio interstellare sembra un po’ indugiare sui lidi della realtà virtuale e dei videogiochi open-world.
Il cosmo può aspettare, almeno fino a una nuova sensazionale invenzione in grado di piegare a piacere quel continuum spazio-temporale che solo da poco stiamo cominciando a capire meglio. La tele-comunicazione come viaggio immateriale ha già risolto il problema della distanza e si contrappone al viaggio fisico come primario vettore di diffusione del capitalismo.
L’invenzione della rete e delle comunicazioni immateriali sembra l’ovvio sbocco a quella accelerazione dei mezzi di trasporto che è intimamente legata alle esigenze della libera circolazione di merci e prodotti (cfr. Abruzzese, 2003).

Marshall McLuhan nota che mentre tutte le tecnologie precedenti avevano esteso parti del nostro corpo, l’elettricità e le telecomunicazioni hanno “esteriorizzato il sistema nervoso centrale, cervello compreso” (McLuhan, 2008). Forse qualcuno di noi vivrà abbastanza a lungo da potersi recare in un’agenzia di viaggi per organizzare un tour del sistema solare, ma certo i tempi di attesa per vedere questi sviluppi appaiono troppo lenti per la frenesia dell’immaginario e del capitalismo. Forse con questo in mente, le idee contenute nei qui presenti racconti di James Ballard e Philip K. Dick sono quelli che lanciano gli spunti di riflessione più attuali portando la ricerca dell’altrove al punto di origine ovvero l’essere umano. In effetti, entrambi degli anni Ottanta, sono i due racconti più recenti e chiaramente contaminati dal sentire postmoderno.

Viaggiare senza muoversi
Lo spazio, il tempo e tutte le dimensioni che siamo abituati a misurare non contano più in Relazione su una stazione spaziale non identificata di Ballard. Non meglio identificati astronauti trovano una stazione spaziale e, esplorandola, ne scoprono sconvolgenti dimensioni metafisiche portandoli addirittura a essere i primi testimoni del nascente “culto della stazione”. Si scopre che tutto il cosmo è racchiuso in quel luogo. Le stanze di Ballard possono espandersi ad abbracciare il sublime interplanetario o contrarsi per soffocare le verità nascoste nel subconscio ma comunque non lasciano mai uscire il lettore e lo inchiodano a pensare l’impensabile. Non a caso una stazione spaziale e non una stanza qualsiasi: una costruzione umana concepita come luogo di transito le cui dimensioni si espandono, si scopre poi, in proporzione alle rotte percorse e pianificate ovvero proporzionalmente alle ambizioni dei viaggiatori in arrivo e in partenza. L’infinito appunto.

Galleggiare nel vuoto aspettando la fine
Nel racconto Caleidoscopio di Ray Bradbury astronauti fluttuano nel vuoto cosmico e vivono gli ultimi minuti di ossigeno ripassando le loro vite. Malinconicamente connessi tramite collegamenti radio che permettono ultimi fugaci scambi di battute, non sono più uomini bensì entità, voci fantasmatiche prive di corpo e disperse nella notte buia.
Nel racconto Il relitto di Richard Matheson – che divenne anche un episodio della quarta stagione di Ai confini della realtà (1964) –  tre astronauti si trovano di fronte al loro cadavere. Se il tempo e lo spazio formano un tutto unico allora anche il tempo può essere deformato come può esserlo lo spazio. Ma in realtà questa scienza diventa un pretesto per i tre fantasmi che vivono i primi momenti dopo il trapasso illudendosi di assistere a una qualche strana curvatura del continuum.
Il respiro dell’anima non più legata alla carne genera strani scherzi anche nel racconto di H.G. Wells dove il corpo immateriale si libra abbandonando la povera spoglia, guasta e tagliuzzata, durante una delicata operazione Sotto il bisturi. Ma, pellegrino nell’infinito, in realtà lo spirito non va da nessuna parte: scaduto il tempo dell’involucro materiale, l’immateriale resta fermo perché non conosce né spazio né tempo; sono le stelle e i pianeti che continuano a muoversi scappando via rispetto al punto di vista. Raggiunto il nero vuoto dello spazio assoluto oltre la materia gli scrittori di fantascienza immaginano forme incerte, suggestioni fluttuanti che, all’occorrenza, possono trasformarsi in lieto fine riattivando la vita (il bisturi, nonostante le diffidenze iniziali, può funzionare) oppure in racconti sull’aldilà. Qui H.G. Wells insinua che forse il nostro universo è contenuto in un atomo sperduto in un altro universo che è, a sua volta, atomo in un altro universo. E così via all’infinito.
Gli errori, le guerre, il male: indizi sul fatto che forse l’uomo non è sufficientemente maturo per cogliere il senso dell’infinito e quindi, in fondo, là fuori non c’è nulla da raggiungere per il genere umano.

Anche il viaggiatore di nome Victor protagonista di Spero di arrivare presto di Philip K. Dick galleggia impotente in uno spazio-tempo non controllabile. Ma la trama è imbevuta di postmodernismo lisergico à la Dick. Seguendo il miraggio di una vita migliore su un altro pianeta, si presume che l’uomo debba viaggiare per dieci anni dormendo in una bara criogenica. Ma qualcosa non va e, una volta spento il corpo, la mente resta sveglia e continua a vagare priva di percezioni per tutto il tempo. È uno stato di coscienza in totale deprivazione sensoriale a eccezione delle comunicazioni trasmesse dall’intelligenza artificiale che guida l’astronave.
Il Philip K. Dick anni Ottanta chiude con la fantascienza classica ricodificando furiosamente il sense of wonder. L’interesse per il viaggio interplanetario muta con l’evoluzione dei media. Il cosmo infinito come sistema nervoso universale: riprendendo il pensiero di McLuhan esposto sopra. La mente del tutto priva di legami con la materia è una metafora della smaterializzazione del viaggio fisico operata da Dick, visionario preludio all’avvento dell’internet. È anche una perfetta rappresentazione di come i nuovi media non riescano a trovare niente di meglio da fare che scavare in quelli vecchi.
Purtroppo per Victor, il cineforum delle memorie, organizzato dal computer di bordo per intrattenerlo durante i dieci anni, non è una soluzione valida. Con la deprivazione sensoriale l’alleanza spazio-tempo causa rigetto e visioni negative. Il sonno criogenico difettoso diventa un viaggio nel subconscio affascinando, tra gli altri, anche Gabriele Frasca che ne ha fatto una performance artistica basata sul racconto. Un fattore entropico si insinua in questi revival scatenato dal naturale decadimento del ricordo. La consistenza della messa in scena tende a sgretolarsi evidenziando glitch che sporcano i momenti più cari lasciando solo ansia da perdita. Paure e sensi di colpa provenienti dal passato (addirittura dall’infanzia) si fondono in un’unica struttura. È questo il destino dell’umanità o si tratta di semplici errori di programmazione? In questo semplice e brevissimo racconto, Dick riesce anche a inserire una riflessione etica e filosofica sul rapporto psichico con il passato.

Se esiste tanto male nel mondo sembra impossibile la fuga verso un altrove immacolato. Forse viaggiare tra le schegge di memoria è l’unica esplorazione che abbia un senso per l’essere umano. Insomma qui Dick espone un’irriducibile insicurezza ontologica e riflette sul destino umano nonostante l’accompagnamento del computer di bordo (come in 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick), proiezione di un’oggettività che, a questo punto, risulta quanto meno discutibile se non inutile.
Nel sonno avariato di Dick, c’è dunque ancora un racconto coerente con la traccia del progetto editoriale curato da Farina con Tempo e Spazio che si schiacciano l’uno contro l’altro in un abbraccio fantascientifico che può affascinare e solleticare il sense of wonder, ma può anche soffocare.
Fantascienza come specchio degli avanzamenti (la misurabilità del cosmo), ma anche come preziosa inquadratura del punto di vista popolare sui dibattiti filosofici e umanistici.

Letture
  • Alberto Abruzzese, Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003.
  • Sergio Brancato, La forma fluida del mondo, Ipermedium, Napoli, 2010.
  • Régis Debray, Éloge des frontières, Gallimard, Parigi, 2010
  • Fabrizio Farina (a cura di), Viaggi nel tempo, Einaudi, Torino, 2016.
  • Stephen Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna, 2007.
  • Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 2008.
  • Guido Tonelli, Cercare mondi, Rizzoli, Milano, 2017.
  • Gary Westfahl, Space and Beyond: The Frontier Theme in Science Fiction, Greenwood Press, Westport, Connecticut, 2000.