È curiosa l’assonanza tra il titolo italiano di questa raccolta di aneddoti scritta nel 1975 dal popolare attore inglese David Niven (C’era una volta Hollywood) e il titolo scelto da Quentin Tarantino (C’era una volta a… Hollywood) per il suo personale omaggio a Sergio Leone e alla fabbrica dei sogni californiana. Le memorie di Niven si prestano bene a fare da cerniera tra toni favolistici (in fondo lo star system hollywoodiano è un magnifico ballo in maschera pieno di re e regine) e un’azione di smontaggio della macchina del mito. Certo il titolo originale del libro è più divertente (Bring on the Empty Horses, qualcosa come Porta via i cavalli) facendo riferimento a un senso di smontaggio della scena cinematografica. Ma il titolo scelto per l’edizione italiana sottolinea con vigore che tra tanti C’era una volta…, qui c’è un libro che può, a buon titolo, essere considerato un finish epocale di un’importante fase delle comunicazioni di massa basata sul divismo di origine cinematografica. Una fase che ha molto da dire alla contemporaneità dei piccoli e grandi influencer che si muovono in un regime comunicativo di post-verità. Nella lunga sequenza di aneddoti tutt’altro che agiografici o celebrativi, il focus del libro di Niven è sempre sul costo umano della favola. L’attore si sofferma poco sui casi di successo ovvero su quelle personalità che sono riuscite a dimorare nell’olimpo con una certa stabilità perché “capaci di accettare il fatto che ogni giorno s’invecchia di ventiquattro ore”. Casi come Joan Crawford che incassava abbastanza da potersi permettere il motto “If you want the girl next door, go next door” (se vuoi la ragazza della porta accanto, vai alla porta accanto). Le persone di cui vuole parlare Niven fanno parte di un mucchio selvaggio di squinternati o comunque vittime designate di un sistema che coltiva la fragilità psicologica.
“Avrei anche imparato che gli scrittori si ubriacavano, gli attori diventavano paranoici, le attrici incinte e i registi incontrollabili. Le crisi erano uno stile di vita nelle Fabbriche dei Sogni”.
Niven espone senza filtri lo star system in quanto prodotto di marketing e ingegneria sociale. Evidenzia la distanza tra le mitizzazioni pubbliche e le vite private per trasmettere una nostalgia che è al tempo stesso affettuosa e sarcastica. Lo stesso scopo perseguito dal già citato film di Tarantino, con i suoi piccoli inserti dissacranti come quella scena in cui Cliff e Bruce Lee se le danno di santa ragione. Così procede Niven: smonta i miti facendoli sbattere contro muri invisibili e poi ce ne restituisce il lato umano.
Star System e resilienza fisica
Una costante che lega tutti gli aneddoti proposti da Niven è l’attenzione allo stato di salute fisica (che spesso riflette la salute mentale) dei personaggi narrati. Niven evidenzia la costruzione artificiale del mito delle star a Hollywood, sottolineando sempre il piano B, l’attitudine al problem solving dei produttori, la cura per l’ala della fabbrica che produce i pezzi di ricambio. Il sistema esalta bellezza e giovinezza e così crea e distrugge in un batter d’occhio, sfruttando l’insicurezza degli attori e delle attrici al fine di minimizzare gli imprevisti. Quando racconta la bellezza soprannaturale dei divi, Niven trasforma il suo Io narrante in quello di uno spettatore qualsiasi. L’attore ricorda la sua snervante esperienza con l’attrice Constance Bennett, una delle stelle più radiose nel firmamento hollywoodiano degli anni Trenta. Una donna descritta così:
“Raramente avevo visto un essere umano più bello. Capelli lisci, lucidi e biondissimi, sopracciglia sottili come tracciate a matita su grandi occhi azzurri e intelligenti, un viso finemente cesellato con zigomi alti e una mascella piuttosto decisa. La pelle era bianca come la panna e il corpo, splendidamente snello, era avvolto e incastonato dall’ultima moda e dai gioielli più costosi”.
All’apice della sua notorietà, l’attrice si presta a recitare con Niven in uno show radiofonico. A pochi giorni dall’evento live, per i comuni mortali si rende necessaria una sessione di prove su un testo complesso (Pirandello). Un appuntamento cruciale per la carriera dell’attore britannico in cerca di fama negli Stati Uniti. Ma la signora Bennett sembra irraggiungibile. Niven uno di noi: il giorno prima dell’evento attende per ore, viene rimandato a casa e richiamato con strane prescrizioni (“porta una racchetta da tennis”). L’attore è in balia della star e del suo entourage. Se ne torna a casa a notte fonda a fare le prove da solo.
“Non riuscivo a dormire, vedevo una promettente carriera andarsene in fumo […] Alle nove in punto, con gli occhi ammiccanti per il sole accecante della California elettrizzati da caffè nero e benzedrina, suonai il campanello di Carolwood Drive […] Non potevo credere ai miei occhi. Nella sala da gioco, il poker continuava a pieno ritmo: i giocatori, con l’eccezione di Constance Bennett, avevano la guance scure e tirate […] Presto finì e un’ora dopo mi ritrovai seduto nella Rolls Royce Phantom accanto a una Constance Bennett incredibilmente bella e apparentemente riposata. Doveva essersi fatta con diversa roba, perché, con il suo viso senza rughe e gli occhi azzurro chiaro, sembrava essersi appena svegliata da un sonno senza sogni di almeno dieci ore”.
L’episodio evidenzia un piano dell’esistenza in cui lo scorrere del tempo per le celebrità non è compatibile con il continuum dei comuni mortali.
“Allo studio radiofonico tutti cercavano di nascondere che fossero nel panico. Eravamo in ritardo di almeno due ore per la prova generale, ma la mia affascinante partner era tenuta in tale considerazione dai dirigenti della Shell Hour che l’accolsero come se fosse venuta a inaugurare una nuova ala dell’edificio […] Constance Bennett era completamente composta mentre dava la prima occhiata alle battute di Pirandello che in giornata avrebbe declamato a milioni di persone in attesa. Completamente assorta, lesse per qualche minuto, poi si fermò e aggrottò le sopracciglia. In silenzio andò avanti nelle pagine antifruscio, poi gettò il tutto nel cestino. «Non farò mai questa merda» annunciò”.
E poi c’è Missie: un personaggio citato più volte e con una selezione di dettagli che cerca di proteggere l’attrice in una bolla di anonimato. Ma ce n’è abbastanza per collegare i puntini e sospettare che il riferimento sia Vivien Leigh. Missie è un amalgama che condensa le sfide che molte star femminili dell’epoca dovevano affrontare. Parliamo di un’epoca in cui tutti gli studi medici di Beverly Hills erano infiltrati da spie dei rotocalchi in cerca di aborti imminenti, disintossicazioni succose, esaurimenti nervosi illustri. Il tam tam mediatico è sempre pronto a esaltare i trionfi ma anche ad accompagnare l’occhio cinico che registra l’ineluttabile disfacimento dei corpi e delle menti. La caduta di Vivien Leigh fu appunto una tra le più chiacchierate e tristi tra aborto spontaneo, disturbi bipolari ed elettrocuzione. Troppo per entrare nel memoriale con nomi e cognomi allo scoperto. Ma Niven vuole in qualche modo mandare un saluto affettuoso alla sua amica finita male. L’ironia british sui corpi hollywoodiani esplode nell’episodio in cui David Niven racconta il funerale dell’amico regista Edmund Goulding. In particolare le preoccupazioni dell’improbabile team di diversamente aitanti (oltre a lui, un amputato, un quasi-amputato e una persona molto bassa) che dovrebbe portare la pesante bara su per una collina del cimitero. Il tutto davanti ai sorrisetti di circostanza dei “membri della gerarchia dello studio che non aveva lasciato nulla di intentato per rendere i suoi ultimi anni improduttivi e frustranti”.
Storiografia confidenziale
Dietro l’apparente distacco ironico di David Niven c’è quel disincanto che ha sempre portato i narratori hollywoodiani a dire qualcosa sul mondo in maniera obliqua, usando metafore, smontando mitologie, raccontando fatti ma usando nomi inventati. Una capacità mimetica sviluppata soprattutto a partire dal Codice Hays e poi con il maccartismo: periodi di inaudita pressione morale fatta gravare dall’America sui divi. Coerentemente hollywoodiana, la prosa ovattata di David Niven non è mai abrasiva o troppo diretta nel mostrare le disfunzioni e le violenze del sistema. Come un giornalista neutrale che racconta la guerra senza sbilanciarsi troppo su torti o ragioni. Il fatto stesso di raccontare le devastazioni della guerra è comunque un’indicazione politica. Da una parte il profitto come trofeo, dall’altra il campo di battaglia fatto di corpi e cervelli dietro e davanti alla macchina da presa. Si prenda ad esempio la delicatezza dei passaggi di Niven dedicati a Clark Gable e al suo peculiare modo di reagire al lutto.
In fondo i libri di Niven (la sua autobiografia La luna è un pallone è stato un grande successo) costituiscono una risposta indulgente al feroce Hollywood Babilonia, il libro di Kenneth Anger (stampato per la prima volta in Francia nel 1959) che offre una storia oscura di Hollywood tutta focalizzata sugli scandali e sulla cronaca nera. Niven sembra voler spiegare al pubblico cosa c’è dietro certe follie e certi eccessi. La sua prosa danza sul crinale realtà/finzione, creando una certa confusione tra il suo ruolo di osservatore neutrale e quello di amico dei fantasmi che torna indietro nel tempo a fare il tifo per alcuni suoi colleghi e che prova a raddrizzare qualche torto. Un po’ come Tarantino che torna nel 1969 e decide di far sopravvivere Sharon Tate. La tecnica espositiva di Niven, così perfettamente in bilico tra cronaca dei fatti e totale invenzione potrebbe aver ispirato la grande fascinazione per Hollywood profusa dal viscerale James Ellroy nei suoi noir.
Ellroy: oscuro cronista del vizio americano, cagnaccio randagio dalle visioni politiche iperboliche e incoerenti. Ha dipinto spesso, nei suoi romanzi, personaggi realmente esistiti ai margini di Hollywood. In un garbuglio cronaca/finzione, gangster come Johnny Stompanato diventano preziose pedine narrative all’intersezione tra realtà, gossip e divismo. Stompanato è noto per la sua relazione con la diva Lana Turner e per il fatto di essere morto nel 1958 per via delle coltellate inferte dalla figlia quattordicenne di Turner, Cheryl Crane (che aveva agito per difendere la madre da minacce fisiche). Circostanze esplorate soprattutto nel romanzo ellroyano White Jazz (2023). Lo stile esplicito di Ellroy è all’antitesi rispetto alla delicatezza di Niven: quest’ultimo costruisce le scene con tecniche semplici, quasi da barzelletta, mentre Ellroy intende trascinare il lettore in un vortice che tiene sempre al centro i “corpi da reato” (o quel che ne resta) come se fossero divi. Ma entrambi sembrano voler tributare un omaggio affettuoso ai caduti di un’antica guerra che confondeva spesso vittime e carnefici, lasciando un terreno maniacalmente scandagliato da investigatori e paparazzi. Come narratori di Hollywood, sia Niven che Ellroy sono attenti alle menzogne sullo sfondo, a quel gioco di ombre e illusioni tipico di un contesto storico-geografico che è unico al mondo. Per David Niven:
“Hollywood non era certo un vivaio di intellettuali, era un ricettacolo di falsi valori, ospitava una poco attraente percentuale di piccoli imbroglioni e geni della truffa e le possibilità di avere successo erano minime, ma era affascinante e – se eri fortunato – era divertente: e comunque, sempre meglio che lavorare”.
La Hollywood della prima metà del Novecento è un affascinante snodo tra immaginazione e potere. L’idea di narrare mescolando personaggi e fatti storici realmente accaduti inserendoli in trame fittizie è un modus operandi che prima stordisce e poi conquista. Il rischio di frammentazione è mitigato dal fatto che tutte le tessere del mosaico hollywoodiano trovano organicità nella diffusa consapevolezza dei meccanismi sociali alla base della macchina mediatica. Una serie di perle che sarà il lettore stesso a ricostruire in forma di collana. Un’intuizione che nasce con Francis Scott Fitzgerald, in particolare nel suo ultimo romanzo (incompiuto) Gli ultimi fuochi (2018) in cui vi sono una serie di quadretti orbitanti intorno a una versione romanzata del produttore hollywoodiano Irving Thalberg. (Ottima la versione cinematografica firmata da Elia Kazan con Robert De Niro nei panni del produttore. Uscita nelle sale quasi insieme al libro di Niven). Il protagonista del romanzo di Fitzgerald allude alla sua ricerca di una “formula perfetta”, un modo per creare lo stampo per storie di successo fatte con ingredienti noti, quasi quantificabili.
Del resto la Hollywood dei produttori e dei banchieri non è altro che il Sacro Graal della standardizzazione e della riproducibilità industriale. Ma è una ricerca complicata dal fatto che le materie prime e i mezzi di produzione sono perennemente in bilico tra follia e grandezza, tra creatività e profitto, tra anticonformismo e conservatorismo politico. Hollywood come laboratorio mediale ma anche come condensato della storia del capitalismo occidentale. Il libro La formula perfetta del critico cinematografico David Thomson (2022) è una riflessione di stampo saggistico che però indugia molto nell’aneddotica collocandosi a metà tra la leggerezza di Niven e il cinismo di Ellroy. Thomson spiega che qualunque sia l’equazione hollywoodiana essa non può prescindere da una materia prima sfuggente. Come dice Fitzgerald:
“Si può accettare Hollywood qual è, come facevo io, oppure ignorarla con il disprezzo riservato a ciò che non riusciamo a capire. Si può anche capirla, ma solo confusamente, e a tratti. Non più di cinque o sei uomini sono riusciti ad avere ben chiara nella mente la formula perfetta dell’industria del cinema”
(Thomson, 2022).
Come dimostrano il libro di Thomson e il recente successo di Tarantino, il dietro le quinte di Hollywood sembra una cornice narrativa intramontabile. In questo quadro andrebbe citato anche il quintessenziale Cacciatore bianco, cuore nero di Clint Eastwood, pellicola cinematografica che ricama sulle vicissitudini produttive del film La regina d’Africa. Tutto ruota intorno alla figura carismatica del regista John Wilson (alter ego del regista John Huston) interpretato da Clint Eastwood. Si narrano i fatti legati al folle safari organizzato da Wilson/Huston/Eastwood che convince il produttore a girare il film in Africa. Il regista confida al suo sceneggiatore di aver organizzato tutto in modo da coronare il suo sogno di condurre un safari in Africa, con tanto di fucili da caccia finemente cesellati e addebitati alla produzione. L’anticonformista Huston è un simbolo delle energie ambigue che spingono il motore della Hollywood classica. John Huston è il controverso cineasta che, come ricorda Thomson nel suo libro, da giovane aveva ucciso un passante guidando in stato di ubriachezza e scansato il carcere grazie alle influenze del padre Walter (popolare attore hollywoodiano). Huston è anche l’attore che interpreta Noah Cross in Chinatown di Roman Polanski: magnate dal nome biblico in una torbida storia di corruzione e incesto che racconta l’alba di Los Angeles come grande metropoli. E John Huston è anche il regista di cui David Niven parla con più ammirazione nel suo libro. Ma Huston “non si adattò mai completamente allo stile di vita hollywoodiano” preferendo la campagna irlandese. Huston è il perfetto simbolo di quella strana commistione preda/carnefice, quella divertente subordinazione dei padroni intorno ai capricci della star (che sarebbe pur sempre un lavoratore salariato) come nell’episodio su Constance Bennett descritto da Niven.
Hollywood è anche una grande battuta di caccia alla creatività in cui di solito c’è sempre un bellissimo animale (idea o persona) che fugge dai segugi della standardizzazione e dai cani del conformismo.
Niven, Tarantino, Eastwood, Thomson, Anger, Ellroy, Fitzgerald: tecniche narrative variegate che si basano tutte su una strana complicità tra narratore e pubblico. Un gioco che costruisce e ricostruisce ma senza il bisogno di apporre didascalie o inquadramenti moralistici. Perché tutti sanno che a Los Angeles “arrivi spregiudicato e riparti pregiudicato” (Ellroy, 2017).
- Kenneth Anger, Hollywood Babilonia: Vol. 1, Adelphi, Milano, 2021.
- James Ellroy, White Jazz, Einaudi, Torino, 2023.
- James Ellroy, Hollywood trema, Bompiani, Milano, 2017.
- Francis Scott Fitzgerald, Gli ultimi fuochi, Theoria, Roma, 2018.
- David Thomson, La formula perfetta. Una storia di Hollywood, Adelphi, Milano, 2022.
- Clint Eastwood, Cacciatore bianco, cuore nero, Warner Bros, 2004 (home video).
- Elia Kazan, Gli ultimi fuochi, Sinister, 2025 (home video).
- Roman Polanski, Chinatown, Paramount, 2021 (home video).
- Quentin Tarantino, C’era una volta a… Hollywood, Universal, 2020 (home video).