Ritorno al futuro italiano,
quello delle serate al Piper

Corrado Rizza
Il Piper Club
Tempio del beat dal 1965
Le immagini, le storie,
i protagonisti
Postfazione di Guido Michelone

Vololibero, Milano, 2025
pp. 164, € 29,50

Corrado Rizza
Il Piper Club
Tempio del beat dal 1965
Le immagini, le storie,
i protagonisti
Postfazione di Guido Michelone

Vololibero, Milano, 2025
pp. 164, € 29,50


Niente è più come prima, com’era il mondo quando il 27 febbraio 1965 il Piper Club aprì i battenti in via Tagliamento 9 a Roma. Niente tranne l’accento di Shel Shapiro, rimasto immutato a distanza di sessant’anni. Tutto il resto è radicalmente cambiato: costumi, desideri, sogni e aspirazioni, mode, musiche e cultura tout court. Quel mondo di ieri che celebrava il domani e godeva del presente è scomparso e con esso il futuro, mentre sul presente è calato un buio piuttosto fitto, laddove un tempo luci stroboscopiche, proto psichedeliche illuminavano palcoscenico, pista da ballo e visioni dei giorni a venire. Il Piper Club fu un locale “creato e ideato per soddisfare la voglia di trasgressione e ribellione dei ragazzi dell’epoca”, come scrive Corrado Rizza nel suo Il Piper Club. Tempio del beat dal 1965, libro che ne ripercorre il primo lustro di vita ricostruendo, avvalendosi di un ricchissimo corredo fotografico, l’atmosfera di uno spazio che divenne in un lampo punto di riferimento per “un enorme esercito pacifico di giovani pieni di ideali e di fiducia” prosegue Rizza.
The Times They Are A-Changin’
Da allora, si è detto, tutto è cambiato, tranne l’ostinato accento inglese di Shapiro ai tempi voce solista e leader dei Rokes, un complesso musicale, come si indicavano allora le formazioni dei giovani musicisti, proveniente d’Oltremanica. Si era all’alba della british invasion, come negli USA si battezzò la sistematica presenza in tournée e in cima alle classifiche di vendita dei complessi inglesi, che fece seguito al primo sbarco sul territorio statunitense: quello dei Beatles invitati all’Ed Sullivan Show. Un evento di cui Robert Zemeckis narrò la spasmodica attesa nel suo 1964 – Allarme a N.Y. arrivano i Beatles!, come recita il titolo italiano. Invece di puntare agli USA, però, i Rokes presero di mira la penisola italiana. Furono proprio loro, ai tempi gestiti da Teddy Reno, a salire sul palco quel 27 febbraio di sessant’anni fa dando inizio alle danze. A far da spalla, in modo da servire un cocktail mix anglo-italiano, c’era l’Equipe 84 capitanata da Maurizio Vandelli, che negli anni a seguire avrebbe conteso loro la palma di complesso beat per eccellenza della scena nostrana, costruendo brano dopo brano un formidabile repertorio di cover, pescate, catturate qui e là. Per entrambe le formazioni la parte migliore della loro carriera iniziò quel giorno.

Quando il Piper venne inaugurato, l’era beat era allo zenit, i Beatles avevano già generato un numero incalcolabile di epigoni, alcuni durati il tempo di un quarantacinque giri, altri destinati a fama mondiale. Loro nel frattempo iniziavano ad ampliare il proprio orizzonte musicale mirabilmente riassunto quell’anno stesso nell’album Help!, le cui sedute di registrazione iniziarono proprio in quel febbraio 1965 (quando lo Zeitgeist ci mette più che lo zampino). In Italia arrivarono altre formazioni inglesi oltre ai Rokes, tutte in cerca di maggiore visibilità, considerata la fortissima concorrenza in patria. Sbarcarono i Primitives di Mal, i Sorrows (che riproposero in italiano il loro hit, Take A Heart, con il titolo Mi si spezza il cuore), i Motowns, i Renegades che si ricordano più per il loro look che per la musica (abbigliati con le divise dell’esercito nordista, le giacche blu), per dire dei principali. In generale, come ha ben riassunto Jo Savage nell’intitolare una delle sue raccolte musicali dedicate agli anni Sessanta, fu proprio nel 1965 che il decennio iniziò sul serio, si accese, si infiammò. Accade, seppur in tono minore, anche in Italia e il Piper Club gioco un ruolo da protagonista. Fu lì che presero forma i fermenti, le spinte e le tendenze che stavano già maturando.

Innanzitutto, sul piano del costume, portando a una prima maturazione i conflitti generazionali. La società italiana contrappose “capelloni” e “matusa”, una prima forma italiana di quello youthquake, il terremoto della gioventù partito oltremanica, e la moda, l’abbigliamento, il look avrebbero segnato uno scarto decisivo nei modi e nelle forme di quei contrasti. Basti pensare alla minigonna, l’invenzione di Mary Quant arrivata in Italia solo nel 1967 e sfoggiata in primis proprio al Piper Club. Nel locale romano sfilarono in quegli anni davvero tutte le novità relative all’abbigliamento, dando vita a uno sfolgorante carosello, che il settimanale Panorama diede un resoconto esaustivo in un celebre servizio, con tanto di reportage fotografico di Franco Pinna, catalogando il meglio del repertorio: impermeabili di plastica rossa e gialla, di cravatte a fiori, camice di merletto, occhiali da sole a rombo e a trapezio, pantaloni aderentissimi e, aggiungiamo, soprattutto di corpi via via più esibiti. Fenomeni tutti riconducibili a un unico nuovo soggetto che si sarebbe espresso pienamente a partire da allora.

“A dirlo in una formula, gli anni Sessanta hanno salutato l’avvento di un nuovo soggetto sociale, vitale, desiderante, creativo: i giovani”
(Ferraresi, 2015)

La società dei consumi si dispiegava appieno con una splendida colonna sonora che nel Piper Club risuonava meglio che altrove. Nel volume è rintracciabile un bel campionario di quel sound, grazie alla presenza di playlist con le canzoni più programmate in quei primi cinque anni di vita del club. Scorrono successi indimenticabili e altri vittime dell’oblio, i grandi del beat e della black music. Solo per restare all’anno dell’inaugurazione, si ballava con Sonny & Cher, gli Yardbirds, i Kinks e ovviamente i Fab Four, ma anche e soprattutto con Sam Cooke, Fontella Bass, Marvin Gaye, Martha & The Vandellas, che si alternavano con canzoni oggi dimenticate, per esempio le tuttora trascinanti Treat Her Right e Apple of my Eye di un oramai ai più sconosciuto Roy Head; eppure ai tempi, la prima canzone se la giocava in classifica con Yesterday. Fatto sta che i valori della cultura di massa si incarnarono nei corpi giovani che animavano pomeriggi e sere tra le pareti del Piper Club più che altrove in Italia. Cultura di massa di cui il soggetto “giovani” è stato motore e fine. Nel suo Lo spirito del tempo, Edgar Morin, dopo averla stigmatizzata come “una gigantesca etica del tempo libero” laddove “il divertimento diventa un fine in sé stesso”, tratteggia così quella mutazione di stato:

“[…] la cultura di massa sgretola i valori gerontocratici, accentua la svalorizzazione della vecchiezza, dà forma alla promozione dei valori giovanili e assimila una parte delle esperienze adolescenziali. Il suo motto è “siate belli, siate innamorati, siate giovani”
(Morin, 2017).

C’è anche un altro aspetto che pone in anticipo sui tempi l’esperienza del Piper Club, quel fenomeno che nella nostra postmodernità vediamo tuttora fiorire, l’aggregarsi in tribù, che ai tempi del locale romano non era esente certo da quella naïveté che talora accompagna i pionieri: il pubblico degli habitué presto si suddivise in piperini e piperine. Laddove i giovani iniziavano a infrangere i valori del passato, al tempo stesso ne avvertivano i primi segnali dell’incertezza e della crisi che ne conseguivano. Da qui i primi fenomeni di tribalizzazione, ai quali si era già assistito nel mondo anglosassone con i teddy boys, per esempio, e i mods (quest’ultimi anche in versione italiana)  per esempio.
Spirito del tempo avvenire. Tornando a quel 1965, di lì a pochi mesi dall’apertura del Piper Club, sarebbero arrivati anche in Italia i quattro di Liverpool con destinazioni Milano, Genova e a chiudere proprio Roma al teatro Adriano. Il fenomeno Piper era oramai esploso al punto che metà dei Fab Four cercarono di farci una capatina (George Harrison e Ringo Starr). Lo ricorda Gianni Minà e lo si può leggere in un florilegio di ricordi dei vari frequentatori e protagonisti del Piper, tutto amorevolmente raccolto nel libro di Rizza, nel quale sono chiamati a dire la loro tutti i protagonisti di quell’esperienza, in modo diretto o indiretto.

Le mille voci di una storia non soltanto musicale
Un volume corale che racconta dei protagonisti dietro le quinte a iniziare dagli ideatori, Giancarlo Bornigia, Alberto Crocetta e Piergaetano Tornielli, ma che prende in esame anche gli aspetti che fecero del Piper Club un luogo unico, dalla scenografia, col celebre Il Giardino di Ursula, chiamato così per via dei pannelli con foto che ritraevano il sorriso di Ursula Andress (la prima Bond girl, altra mitologia nata nei Sixties), agli arredi e al sofisticato apparato tecnico, documentando finanche le planimetrie del locale. A prendersi la scena, però, sono coloro che la animarono, in special modo in occasione di alcuni eventi chiave che ne segnarono la storia. A iniziare dalla “Festa Hippy” del 17 ottobre 1967, quando all’ombra della summer of love californiana, tutti si abbigliarono con camice a fiori e altri simboli di quella stagione tutti rigorosamente di ispirazione floreale. Non meno rimarchevoli furono i concerti dei Pink Floyd, tenuti il 18 e il 19 aprile del 1968, quando la band aveva definitivamente sostituito Syd Barrett con Dave Gilmour, o ancora la serata del 28 dicembre del 1967 quando Mario Schifano presentò il suo gruppo musicale, le Stelle, a mo’ di risposta ai Velvet Underground promossi a New York da Andy Warhol. Tra gli eventi, va almeno ricordata anche la messa in scena della prima opera beat, Then And Alley, di Tito Schipa Jr., bloccata repentinamente dai legali di Bob Dylan per l’utilizzo non autorizzato di alcuni brani (ben diciotto!) dell’uomo di Durluth.

C’era poi un terzo grande protagonista: il pubblico. In primis, le “Ragazze del Piper”, come presto vennero battezzate, ovvero Patty Pravo, Mita Medici e Marina Marfoglia, ma alla festa parteciparono in tante, da Rita Pavone, già affermatissima ai tempi, alle allora giovanissime e sconosciute Romina Power e Nada. A passare di lì e in seguito prendere il volo per carriere di primissimo piano c’erano anche a Renato Zero, Loredana Berté, Mia Martini, Stefania Rotolo (prematuramente scomparsa nel 1981), il coreografo Franco Miseria, e altri giovani ricchi di talento e animati da grande curiosità verso le nuove musiche. Qualche nome? Lucio Battisti, Luigi Tenco, Lucio Dalla, Claudio Baglioni. Non solo, il Piper Club era frequentato anche da gente di cinema, da Luchino Visconti a Federico Fellini, da Alberto Sordi a Elsa Martinelli e per chiudere con i personaggi che hanno letteralmente costruito (nel bene e nel male) la cultura giovanile italiana, va poi menzionata la strana coppia già allora in azione in quel di via Tagliamento: Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Tratto comune in questo intreccio nevralgico di costume, moda, musica, arte, divertimento, tempo libero, emancipazione e piccole/grandi trasgressioni, una (questa sì) insostenibile leggerezza, come testimoniano le parole di Shel Shapiro:

“Suonavamo, ci divertivamo, la musica era tendenzialmente pura e buona, non eravamo contaminati né dal business né da niente”.

È proprio tutto cambiato da quei giorni, tranne il suo inguaribile accento, anche se a leggerlo non ce se ne accorge.

Ascolti
  • Autori vari, Jon Savage’s 1965. The Year the Sixties Ignited, Ace Records, 2017.
Letture
  • Maurizio Ferraresi, L’immaginario giovanile, in Autori vari, ’60. Gli anni giovani. Musica, consumi, stili di vita, Coop Lombardia, Skira, Milano, 2005.
  • Michel Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, 2004.
  • Edgar Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Sesto San Giovanni, 2027.
Visioni
  • Robert Zemeckis, 1964 allarme a New York: arrivano i Beatles!, Sinister Film, 2015 (home video).