Autobiografia e Tecnica:
Carlo Sini e la Scrittura

Carlo Sini
Filosofia e memoria
La vita come scrittura
Il Saggiatore, Milano, 2025

pp. 368, € 24,00

Carlo Sini
Filosofia e memoria
La vita come scrittura
Il Saggiatore, Milano, 2025

pp. 368, € 24,00


È il 1991, Carlo Sini ha 58 anni. Per un filosofo che ha raggiunto una certa notorietà, si potrebbe parlare di un periodo di maturità intellettuale. In quell’anno, viene pubblicato da Egea Il simbolo e l’uomo, risultato di elaborazione di materiali che Sini trattava nei suoi corsi già nel 1984. È la tredicesima opera in ordine cronologico di Sini, a cui ne seguiranno quaranta ulteriori, senza contare gli scritti in forma d’articolo o le dispense universitarie. Se ogni libro corrispondesse a un anno di vita intellettuale (o di cronaca di vita, direbbe forse Sini), Il simbolo e l’uomo non sarebbe che un momento della prima adolescenza. Eppure, tra quell’opera e l’ultimo sforzo di Filosofia e memoria il fatto che vi siano motivi tutt’altro che elementari o contingenti che ritornano in modalità così esplicita indica forse che l’atto di scrivere, di materializzare i pensieri inscrivendoli su un supporto esterno a ciò che sembra contenerli e produrli, sia un’operazione di qualche ordine diversa dall’attraversare la vita. Recita così la chiusura de Il simbolo e l’uomo:

“Credo che ora possiamo e dobbiamo rispondere così: l’uomo è l’unico essere, per quanto appunto ne sappiamo, che piange e che ride. Ma dobbiamo anche aggiungere l’oggetto di questo suo gesto essenziale, la sua altrettanto essenziale provenienza e distanza che rimbalza nella sua tensione, nella sua costitutiva «intenzione». E allora completiamo la frase così: l’uomo è l’essere che piange e che ride — le lacrime e i sorrisi del mondo
(Sini, 1991, corsivo nostro, nda).

A cui risponde in eco una considerazione fra le pagine di Filosofia e memoria, nel passaggio fondamentale in cui Sini si interroga sul senso di cercare un senso nascosto nelle cose, nella vita, un senso che dia un senso, si potrebbe dire. In altri luoghi, la forma di questo senso è stata fatta corrispondere da qualcuno alla ricerca di una “parola che toglie”, che frena, che risolve la necessità una volta per tutte di altre parole, di altre cose. Che frena e toglie il mondo dalla responsabilità dei soggetti. “In ogni vita si manifesta ciò che si manifesta e ciò che si manifesta è in sostanza il mondo: possiamo convenire di chiamarlo così” (Sini, 2025).
A distanza di quaranta libri, o di trentaquattro anni, Carlo Sini continua a ritornare su una ben definita e ovviamente non banale questione, seppure il linguaggio di queste citazioni che tende verso il poetico, lasciando le scogliere di marmo della filosofia, può dar sempre l’impressione di una toppa concettuale — usare immagini laddove non vi sono definizioni. La questione è quella prismatica della corrispondenza del gesto con il mondo, come se il gesto fosse in effetti il mondo stesso incapsulato in un punto che accade. È come l’Aleph di Borges: esso “è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti […] in esso si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli” (Borges, 1998). Per Borges, L’Aleph è anche una figura della letteratura stessa: un punto, un testo, in cui si tenta di contenere l’universo intero. Egli gioca col desiderio dell’autore, il suo stesso desiderio, di dire “tutto”, sapendo che il linguaggio, come l’Aleph, promette l’infinito ma lo deforma, lo traduce, lo perde. La scena finale nel racconto finale della raccolta omonima – l’Aleph che forse è falso, o che forse è solo un frammento del linguaggio – rende esplicita questa ambiguità: ogni scrittura è una finzione del tutto, un artificio che ci fa intravedere l’infinito ma ci lascia fuori da esso.

Pragmatismo, Scrittura, e il Foglio-Mondo
Il mondo, che unisce l’opera adolescente del Sini adulto con l’ultimo prodotto maturo di un Sini anziano, è oggetto cruciale per comprendere cosa significhi offrirsi in un tentativo autobiografico e filosofico come è Filosofia e memoria. Ripartiamo dal libro del 1991. In esso, Sini tenta di pensare la filosofia come pratica simbolica della vita. Il simbolo non è per lui un semplice segno rappresentativo, ma l’atto originario attraverso cui l’uomo si costituisce come essere storico, gettato nella catena delle sue stesse scritture. L’uomo non possiede i simboli: è posseduto da essi, abitato da un linguaggio che lo precede e lo lega al mondo. Sini mostra che conoscere significa sempre scrivere, cioè inscrivere la vita in un gesto simbolico che la trascende e insieme la fonda. Così la filosofia diventa un’ermeneutica del vivente, un sapere consapevole del proprio carattere performativo, dove ogni pensiero è già gesto, rito, pratica. La verità, in questa prospettiva, non è corrispondenza ma trasfigurazione: ciò che si salva nel simbolo è il residuo vitale che la scrittura non può esaurire. In questo senso, l’uomo non è il padrone del simbolico ma la sua traccia—un essere che esiste solo nella differenza fra ciò che vive e ciò che riesce a dire. Nel suo percorso filosofico, Sini parte da un’idea che affonda le radici nella semiotica di Charles Sanders Peirce, il filosofo pragmatista americano che aveva concepito il pensiero come un sistema di segni in continua interpretazione (cfr. Peirce, 2013). Peirce, per spiegare come ragioniamo, immaginava un “foglio d’asserzione” (sheet of assertion; cfr. Peirce, 1999): una superficie ideale sulla quale scriviamo e cancelliamo segni, costruendo diagrammi e ipotesi che rappresentano la realtà (ibidem). Quel foglio era, per lui, un modello logico del funzionamento del pensiero. Sini raccoglie questa intuizione ma la trasforma radicalmente nel Foglio-mondo (Sini, 1997).

In Il simbolo e l’uomo egli non vede più la scrittura come semplice strumento del ragionare, bensì come la condizione stessa dell’esperienza. Il “foglio” non è un supporto esterno su cui si rappresenta il mondo: è il mondo stesso, inteso come intreccio di gesti, pratiche e simboli che continuamente si scrivono e si cancellano. Ogni sapere, ogni percezione, ogni memoria è una traccia su questo foglio-mondo; noi non osserviamo la realtà da fuori, ma ne siamo parte, poiché viviamo all’interno della sua incessante scrittura (cfr. Sini, 2016). In questo passaggio, Sini porta la semiotica di Peirce dentro una dimensione genealogica e vitale: il segno non è più solo logico, ma corporeo e storico, espressione della vita che si interpreta e si trasforma scrivendosi. In continuità con questa trasformazione, Sini approfondisce il concetto di foglio-mondo come condizione di visibilità e di iscrizione (cfr. Sini, 2013). Ogni esperienza, ogni sapere, si dà solo come traccia incisa su questa superficie originaria che non precede il linguaggio, ma ne è la materia stessa. Se per Peirce il foglio d’asserzione era uno spazio logico su cui disporre enunciati e inferenze, in Sini il foglio diventa la struttura simbolica e pratica attraverso cui il mondo si manifesta. Non è una metafora, ma una funzione viva, una sorta di campo di forze in cui gesti, tecniche, memorie e istituzioni si intrecciano e rendono possibile l’apparire del senso. “La scrittura non è un’attività dell’uomo sul mondo, ma il modo stesso in cui il mondo accade e l’uomo vi accade dentro” (Sini, 1991): con questa formula Sini esprime la reciprocità radicale tra vita e simbolo, tra chi scrive e ciò che viene scritto. In Filosofia e memoria questo gesto assume una dimensione temporale: ricordare non significa conservare il passato, ma riscriverlo, rigenerare il mondo nel presente. L’uomo non domina i simboli, è piuttosto abitato da essi, mosso da un linguaggio che lo precede e lo include. Il foglio-mondo è dunque la scena primaria dell’esperienza, la condizione trascendentale della visibilità: l’invisibile superficie su cui ogni senso si incide, si cancella e continuamente rinasce. L’esperienza non è mai data come qualcosa di puro, immediato o pre-linguistico: ogni vissuto si manifesta solo nel momento in cui si iscrive.

L’Aleph dei Filosofi
Filosofia e memoria rappresenta l’ultimo approdo del pensiero di Carlo Sini, il punto in cui la sua lunga ricerca sulla scrittura, sul simbolo e sul sapere genealogico si fa pienamente autobiografica e vitale. Non è un testamento né una sintesi sistematica, ma una messa in forma della vita come pratica filosofica. In quest’opera, Sini mostra che il pensare non è un atto separato dall’esistenza, bensì la modalità con cui la vita stessa si scrive, si interpreta e si rinnova nel tempo. La memoria, qui, non è semplice deposito del passato, ma gesto attivo di riscrittura: ogni ricordo è una scena che si riapre, un’esperienza che, tornando, si trasforma. Così, l’autobiografia diventa per Sini il luogo in cui la filosofia si riconosce come prassi della memoria, come esercizio che intreccia il sapere e la vita. Le storie, le figure, i maestri, gli amori e le ferite che compongono il libro non sono confessioni, ma figure simboliche del rapporto fra la vita e i suoi significati. In questo senso, Filosofia e memoria è il gesto ultimo di un pensatore che, dopo aver cercato per decenni il mondo nella scrittura, riconosce nella propria scrittura il mondo che lo ha generato. Forse, il completamento di una filosofia. È certamente affascinante poter ricollegare un ultimo prodotto intellettuale a una riflessione di molto passata, e che prima d’essere un libro, come quello del 1991, è stata corsi universitari nei primi anni ottanta. In ciò, emerge coerenza, e la coerenza, in qualche modo, rischia sempre di avere un valore nella merceologia filosofica. Se scrivere è fare il mondo perché il mondo è la materia che si inscrive per noi, allora un pensiero coerente fa un mondo coerente. Coerenza implica forse necessità (non è il filosofo che tende, si focalizza, decide, ma la filosofia stessa che lo porta), implica forse trasparenza.

In Borges, l’Aleph è la figura della trasparenza assoluta, del desiderio di una conoscenza che non lasci più zone d’ombra, di una visione capace di abolire il tempo e la separazione tra soggetto e mondo. Ma proprio questa trasparenza diventa vertigine: l’Aleph rivela che la totalità, lungi dall’essere un compimento, è un orrore dello sguardo, un eccesso di senso che annulla la possibilità stessa di comprendere. Vedere tutto significa non poter più distinguere, e dunque non poter più abitare il mondo. 
Borges trasforma così l’aspirazione metafisica al Tutto in una scena di cecità lucente: l’occhio che vorrebbe tutto vedere finisce per accecarsi nella sua stessa luce. L’Aleph è allora l’emblema del linguaggio che sogna di essere puro, trasparente, capace di dire tutto, ma che proprio in questo sogno mostra il proprio limite—perché ogni parola, come ogni sguardo, esiste solo grazie a ciò che lascia nell’ombra.
L’Aleph, così può sembrare, ha assunto il carattere di Santo Graal dei filosofi. Sempre che amare la conoscenza significhi desiderarne il possesso. In Aristotele, quando egli naturalizza la volontà di sapere nella Metafisica, quando dice che è nella natura dell’uomo desiderare la conoscenza, può sembrare sia così. E Platone stesso, nel suo complesso lavoro di scrittura dei dialoghi, delinea alle volte con rigore immagini di certezza e di verità che servono a costruire l’immagine del buon governo. Sembra che Platone dimentichi il senso della scrittura, quando diventa più dottrinale, come nella Repubblica. Quando delinea le diverse nature dei cittadini, quando si spinge a costruire la rappresentazione della città ideale. Poi, nell’ultimo dialogo, Le Leggi, sconfessa tutto in un veloce atto di commiato – come se avesse finalmente compreso che nessuna città, e dunque nessun sapere, può fondarsi sulla trasparenza dell’idea, sulla perfetta visibilità del vero.

Le Leggi non chiudono il sistema, lo incrinano. Qui Platone si abbandona a una lingua più incerta, normativa e insieme implorante, che tenta di legare l’umano alla misura dopo aver visto fallire il sogno del filosofo-re. Ma proprio in questa ricerca della misura si rivela una crisi più profonda, quella aperta dalla scoperta dell’incommensurabile, dell’alogon—la radice quadrata di due, la diagonale che non si lascia tradurre in numero, il segreto che spezza l’armonia pitagorica del mondo. Con l’alogon, il pensiero greco scopre che l’essere non è interamente dicibile, che la ragione non basta a contenere il reale. Platone ne avverte l’eco, e forse l’Epinomide, il testo finale de Le Leggi, nasce proprio da questa vertigine: se l’incommensurabile non può essere domato nella terra della polis, allora va proiettato nel cielo, affidato all’ordine dei numeri divini, all’armonia dei corpi celesti. L’unità che l’uomo non riesce più a misurare diventa così una questione teologica, un problema di adorazione più che di conoscenza. O di contemplazione, dirà il neoplatonico Plotino secoli dopo. È come se Platone, dopo aver cercato per tutta la vita la formula dell’Aleph – il punto dove l’essere e il pensiero coincidono – giungesse a riconoscere che tale punto non è umano, ma siderale. L’alogon rimane, la frattura non si chiude: ciò che resta all’uomo non è il possesso della verità, ma la sua contemplazione, un sapere che si misura nel limite e non nella totalità. Ciò che inizia come vita di Socrate, i dialoghi platonici, finisce come vita di Platone. La memoria di Socrate si trasforma nella dottrina di Platone. Eppure quest’ultimo, come il maestro, non avrà mai parole dolci per la scrittura, come scriveva nella Lettera VII:

“Su queste cose non c’è un mio scritto, né ci sarà mai. In effetti, la conoscenza di tali verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall’anima e da se stessa di alimenta […] da tutto questo si deve concludere che, allorché si vedano opere scritte di qualcuno […] le cose scritte non erano per tale autore le più serie, se egli è serio, perché queste stanno riposte nella parte più nobile di lui”
(Platone, 2000).

 Lo Statuto ambiguo della Scrittura
La nascita della filosofia con Socrate (cfr. Hadot 1995) è nel cuore del pensiero greco una tensione immensa. Essa nasce in conflitto con la retorica dei sofisti (l’uso del linguaggio per fini non universali) e in conflitto con il mito e la poesia (forme di trasmissione di conoscenza ambigue, deboli, troppo inclini al rumore, e dogmatiche). Socrate, con la sua ironia maieutica, incarna la resistenza dell’esperienza contro la fissazione del sapere: egli non insegna nulla, ma interroga, mostra che la verità non è possesso ma esercizio, una forma di vita. Platone, allievo diligente, eredita un sapere che però, per qualche ragione, decide di non performare, ma di preservare. Lo mette in atto nei dialoghi, attraverso la scrittura – mezzo pericoloso, come scrive in Fedro, che rischierà sempre di

“produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non da di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria”
(ibidem).

Perché rischiare tanto? Perché esporre il sapere-non sapere del maestro al pericolo di divenir dottrina, al pericolo di non funzionare più provocando nell’interlocutore il movimento del pensiero, ma di far prendere per buono ciò che è scritto, a maggior ragione se egli stesso, Platone, è così critico della scrittura come si evince dalla Lettera VII? Perché abbandonarsi alla parzialità di una protesi? La risposta è nel Gorgia, quando Socrate, chiedendo al sofista cosa sia la retorica, finisce a definirla empeirìa invece che techne. Passaggio cruciale: la prima è traducibile con esperienza vissuta, nella sua fragilità e contingenza, come il trial-and-error, la praticità di chi usa ciò che non conosce a pieno, attraverso ripetizione e tentativo. La seconda, invece, è il sapere delle cause e dei principi, che connette ogni pratica al cosmo intero, e che quindi, è qui che Platone giustifica lo scrivere, rende ogni pratica che è consapevole della sua dipendenza dalla Verità legittima nella sua parzialità. Si può far retorica, se la causa è il logos. Si può scrivere, se la causa è il logos. Da qui nasce la contraddizione costitutiva della filosofia: essa vuole superare la doxa e l’ambiguità dell’esperienza attraverso la techne del discorso, ma il suo stesso linguaggio è un’esperienza, un atto performativo che non può mai ridursi a pura conoscenza. Platone tenta di disciplinare questo scarto – di creare un logos capace di contenere la verità senza perderla, un Aleph – e in questo tentativo costruisce la forma originaria della metafisica occidentale. Ma il dialogo socratico, con la sua irriducibile apertura, resta come una spina nel fianco di questo progetto: un richiamo all’empeirìa che non si lascia chiudere nel sistema, all’atto di parola come esperienza vivente che nessuna scrittura, per quanto perfetta, potrà mai del tutto custodire. Con Sini possiamo dire che

“lo scritto, rispetto al suo autore, è sempre postumo e lontano: lontano una vita, appunto”
(Sini, 2025).

Il fondo bruno del crogiolo da cui la filosofia ha origine è un conflitto esterno e interno con le modalità della trasmissione, quindi della comunicazione, quindi dell’espressione dell’esperienza vissuta. L’Occidente ha costruito la propria filosofia su un desiderio di chiarezza, su un linguaggio che potesse coincidere con la realtà, questo è ormai chiaro, quasi banale. Le nuove sfide di una disciplina antica come il linguaggio scritto e accessibile a tutti (ma non antica come l’uomo) sono oggi, infatti, molto più concentrate sul cosa fare dopo la certezza, cosa fare dopo la verità e la corrispondenza, dopo la dissoluzione delle loro concezioni canoniche. La trasparenza, da Platone in poi, è sempre stata anche il limite di sé stessa: vedere tutto, sapere tutto, significa cessare di vedere e di sapere. Il gesto di scrivere, che Platone considerava pericoloso e che Sini riabilita come condizione stessa del pensiero, è il luogo in cui la filosofia si misura con la propria opacità, con la distanza che separa la vita dalla sua rappresentazione. Ogni scrittura, ogni parola, ogni concetto è un foglio-mondo: un frammento che rende visibile ciò che altrimenti resterebbe muto, ma che al tempo stesso cancella, traduce, trasfigura. In questa tensione tra il dire e l’ombra del dire si consuma la storia del pensiero occidentale, e in essa Sini riconosce non un errore da correggere, ma il battito vitale della filosofia stessa. 
Oggi, questa questione antica assume una nuova e drammatica attualità. È l’epoca, questa, che ha realizzato, tecnologicamente, il sogno dell’Aleph: una trasparenza totale, una connessione istantanea che promette l’accesso a tutto, a ogni sapere, a ogni luogo. Ma come nel racconto di Borges, questa pienezza di visione coincide con una forma di cecità: l’eccesso di informazione si rovescia in rumore, la totalità si trasforma in perdita di senso. Essere testimoni di tutto rende, come una mia studentessa ha brillantemente sottolineato, intorpiditi; nulla ci colpisce più emotivamente, perché per sopravvivere alla testimonianza dobbiamo tradirla e cercare una via per non essere inondati. Le piattaforme digitali ci rendono spettatori onniscienti e insieme privi di esperienza, immersi in un flusso che cancella la distanza necessaria alla comprensione. È l’alogon del presente, la nuova diagonale che attraversa e disgrega le proporzioni del pensiero, mostrando che la trasparenza assoluta non illumina, ma acceca.

 Gli Strumenti e Noi
La lezione di Sini, e prima ancora quella di Platone e di Socrate, può allora offrirci un orientamento: ricordarci che il sapere non è possesso ma pratica, non totalità ma relazione. Filosofare significa accettare la finitezza della nostra prospettiva, abitare il foglio-mondo senza pretendere di vederlo dall’esterno. Come il dialogo socratico, anche il pensiero contemporaneo deve tornare a essere un atto vivo, un esercizio che interroga, che scrive e riscrive, sapendo che ogni parola apre un varco ma non chiude mai il cerchio. Se il nostro tempo è quello della visibilità assoluta, allora la filosofia, oggi, è il compito di restituire al mondo la sua opacità: di ricordare che la verità non risiede nella trasparenza del tutto, ma nella fragilità dei gesti, nei margini di ciò che ancora sfugge e che, proprio per questo, continua a farci pensare. E tuttavia, qualcosa va ancora detto a rovescio. Il pericolo fondamentale che il Socrate platonico nel Gorgia sottolinea nella differenza fra empeirìa e techne è che, possiamo dedurre ed espandere, è che nel caso della prima si configura un rapporto fra il soggetto e il suo oggetto o mezzo di dipendenza cieca. Il soggetto non è davvero padrone dello strumento, ma è dallo strumento usato: pensiamo oggi ai social media, o alla televisione tempo fa: un esempio si trova in E Unibus Pluram, David Foster Wallace mostrava nel 1993 come la televisione, da strumento di rappresentazione, diventi un dispositivo che agisce sul soggetto stesso, modificandone la percezione, il desiderio e la capacità critica (cfr. Wallace, 2018). Là dove Wallace descriveva la televisione come medium che sperimenta l’uomo, Sini radicalizza questo movimento: il linguaggio stesso diviene il medium che esperisce la vita.

Nella logica dell’empeirìa, la relazione fra soggetto e strumento si rovescia: non è più l’uomo a usare il mezzo, ma è il mezzo a esercitare la propria esperienza sull’uomo, facendo di lui il luogo in cui la tecnica sperimenta sé stessa. Certo, aspettarsi che il soggetto sia in grado di possedere totalmente il suo strumento è illusione di una filosofia vecchia, ma anche l’abbandonarsi a una visione di totale e necessaria mescolanza continua, di reciproca trasformazione coatta finisce a essere un totale rifiuto della lezione socratica e platonica. In quanto strumento di pensiero, anche ogni filosofia rischia lo stesso destino: rischia di contenere in sé la propria possibile torsione dogmatica, il pericolo che l’oggetto, una filosofia, si sostituisca all’autorità dell’individuo come la scrittura si sostituisce autorità della memoria viva, o un esoscheletro meccanico si sostituisce all’impiego dei muscoli delle gambe per camminare, facendoli atrofizzare. La realizzazione socratica è proprio questa: ogni sapere, ogni strumento, ogni tecnica rischiano di fagocitare la libertà modellando il soggetto a loro immagine e somiglianza. Se Sini ci ha insegnato che non esiste un orizzonte pre-linguistico – che ogni esperienza è sempre già iscrizione, ogni gesto un tratto sul foglio-mondo, anche se “nessuno può scrivere una riga più di quello che è. […] La filosofia non nasce dai libri, ma dalla vita” (Sini, 2025) – allora il linguaggio diventa, di fatto, la nostra autorità prima. Ma questa autorità, proprio perché pretende di dissolvere ogni trascendenza, rischia di convertirsi in una nuova forma di trascendentale immanente: una totalità simbolica che assorbe la vita al suo interno, e che lascia deliberatamente che la vita venga assorbita, fino a farla coincidere con la propria superficie d’iscrizione. In questo senso, la mossa più radicale di Sini – negare ogni pre-linguistico – diventa anche la più pericolosa: nel rendere tutto linguaggio, egli consegna il mondo alla scrittura, lasciando che il linguaggio si faccia principio di realtà. È un gesto profondamente filosofico, nel senso migliore e peggiore del termine, un gesto che rifonda un’autorità “inumana” fuori di noi: dissolve la metafisica dell’essere, ma rischia di sostituirla con una ontologia della scrittura.

Nell’epoca delle intelligenze artificiali, questa prospettiva assume una risonanza inquietante. Se il mondo accade come scrittura, allora anche la scrittura delle macchine accade nel mondo. Gli algoritmi non hanno accesso diretto alla vita – ma, secondo Sini, neppure noi. Viviamo entrambi in ciò che si scrive, nel tessuto del linguaggio che ci precede e ci costituisce. Il foglio-mondo, così, non è più solo umano: diventa una superficie condivisa, automatizzata, in cui la scrittura – da condizione del pensiero – può mutare in condizione del dominio. Laddove il linguaggio è assolutizzato, l’autorità passa a chi lo gestisce, lo amplifica, lo traduce in codice. La visibilità del mondo coincide con la trasparenza dell’interfaccia: ciò che si mostra è ciò che si lascia calcolare. È questa la nuova forma dell’alogon contemporaneo – non ciò che sfugge al linguaggio, ma ciò che vi è interamente catturato. Per questo, l’operazione di Sini rimane preziosa e necessaria, ma chiede oggi di essere rovesciata nel suo gesto più originario, quello socratico: riaprire la scrittura e riconsegnarla al suo fondo opaco di strumento. Se la vita è scrittura, bisogna allora salvare in essa ciò che resiste alla codifica — la pausa, il respiro, l’imperfezione, la parola che inciampa. È in questa fenditura, non scrivibile e non automatizzabile, che può ancora accadere ciò che Alain Badiou chiama Evento: qualcosa che emerge localmente nel mondo e che non è deducibile dalle leggi di quel mondo (cfr. Badiou 1988). È lì, in quella zona che nessuna macchina può calcolare e nessun algoritmo può prevedere, che continua a nascere la filosofia — non come sistema né come programma, forse neppure come autobiografia, ma come gesto fragile e irripetibile di chi, ancora, tenta di parlare nonostante il linguaggio. La filosofia continua a nascere ogni volta che qualcuno, come Socrate, tenta di parlare nonostante la scrittura, restituendo al logos il respiro dell’empeirìa.

Letture
  • Aristotele, Metafisica, Laterza, Roma-Bari, 1993.
  • Alain Badiou, L’essere e l’evento, Feltrinelli, Milano, 1995.
  • Jorge Luis Borges, L’Aleph, Adelphi, Milano, 1998.
  • David Foster Wallace, E Unibus Pluram: Gli scrittori statunitensi e la televisione, in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), minimum fax, Roma, 2018.
  • Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 2005.
  • Charles Sanders Peirce, Il ragionamento e la logica delle cose nelle Cambridge Conferences del 1898 in Scritti scelti, Utet, Torino, 2013.
  • Charles Sanders Peirce, Un contributo alla filosofia della notazione in Scritti di logica, La Nuova Italia, Firenze, 1999.
  • Platone, Fedro, in Opere Complete, Bompiani, Milano, 2000.
  • Platone, Lettera VII, in Opere Complete, Bompiani, Milano, 2000.
  • Platone, Gorgia, in Opere Complete, Bompiani, Milano, 2000.
  • Platone, Le Leggi ed Epinomide, in Opere Complete, Bompiani, Milano, 2000.
  • Carlo Sini, Il simbolo e l’uomo, Egea, Milano, 1991.
  • Carlo Sini, Il foglio-mondo. Tracce di ontologia mediale, Jaca Book, Milano, 1997.
  • Carlo Sini, Idoli della conoscenza, Jaca Book, Milano, 2013.
  • Carlo Sini, Archivio Spinoza. Filosofia e testimonianza, Jaca Book, Milano, 2016.