*“Se uno indossa una maschera, dice la verità. Quando non la indossa è molto improbabile”
(Dylan, in Scorsese, 2019).
Il film Better Man (2024, distribuito in Italia nel 2025) diretto da Michael Gracey, ultimo esperimento visivo firmato da un regista nativo dell’era digitale, ci pone dinanzi a un punto di svolta circa il rapporto tra corpo attorico e dispositivo cinematografico. Il regista qualche anno prima alle prese con il musical con un film quale The Greatest Showman (2017), ci racconta ora l’ascesa, la crisi e la reinvenzione pubblica del cantante britannico Robbie Williams, proseguendo dunque sul ben rodato genere biopic. Tuttavia, Better Man presenta dissonanze radicali rispetto ai precedenti prodotti, per scelte estetiche e concettuali, che lo rendono un oggetto anomalo e paradigmatico del cinema post-digitale: l’intero film è interpretato da un avatar, una scimmia antropomorfa costruita attraverso la sofisticata tecnica del motion capture. Non è Robbie Williams in carne e ossa a comparire sullo schermo, ma una sua controfigura virtuale, performata dall’attore Jonno Davies, che ha prestato corpo, gesti e mimica facciale al personaggio.
Il cinema mascherato: Better Man e la maschera digitale
La decisione di rappresentare il protagonista sotto forma di primate è tutt’altro che gratuita: come dichiarato dallo stesso Williams, si tratta di un riferimento simbolico alla percezione di sé come “una scimmia da palcoscenico” (performing monkey), immagine potente per raccontare l’alienazione vissuta da chi è ridotto a spettacolo continuo, immagine di sé più che sé stesso. Gracey, riprendendo questa visione, costruisce un dispositivo cinematografico che diventa anche un saggio visivo sullo statuto dell’identità, del corpo e della maschera nella società contemporanea. La realizzazione tecnica di questa operazione è affidata ai pionieri degli effetti visivi della Wētā FX, gli stessi dietro le creature digitali de Il Signore degli Anelli (Jackson, 2001-2003) e Avatar (Cameron, 2009).
La controfigura virtuale di Robbie Williams performata dall’attore Jonno Davies nel fil Better Man.
La motion capture, o più precisamente performance capture, consiste nell’applicare sull’attore centinaia di sensori che registrano in tempo reale le micro-espressioni facciali, i movimenti oculari, i gesti corporei, per traslarli su un modello digitale tridimensionale. Ma Better Man non si limita a usare questa tecnologia come supporto spettacolare o iperrealista: la maschera digitale diventa il personaggio stesso, un altro da sé che è, simultaneamente, più vero e più falso dell’originale. In questa nuova grammatica della rappresentazione, la maschera non viene più applicata al volto: viene generata. Il volto recitante, umano, reale, è ormai solo interfaccia di calcolo. La maschera – virtuale – non cela: crea. Viene spontaneo associare questa mutazione estetica, che dalla maschera fisica conduce al volto sintetico, al concetto di simulacro in senso baudrillardiano.
“Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità – è la verità che nasconde che non c’è alcuna verità”
(Baudrillard, 2022).
Tale riflessione, che avremo modo di approfondire teoreticamente più avanti, è riflessa nell’esercizio cinematografico di Better Man, attualizzandolo più che mai. Nel film non c’è più rappresentazione, ma produzione di iperrealtà. L’avatar non è maschera teatrale (che cela o performa), né volto (che mostra), ma una superficie algoritmica di senso, una proiezione mediata, fondata su codici, dati ed elaborazioni. Ciò che ne deriva è un’immagine di sintesi che trae anche dal corpo dell’attore ridotto ad interfaccia invisibile, dotata però di tutta la carica emotiva e relazionale della performance umana. Lev Manovich ne Il linguaggio dei nuovi media ha ben sintetizzato come nel cinema post-digitale la rappresentazione si smaterializzi, per cui l’immagine è il risultato di una manipolazione astratta che non copia il reale, ma lo genera come matrice identitaria (cfr. Manovich, 2001).
“La maschera oggi non è più un filtro tra soggetto e mondo, ma il punto zero da cui il soggetto emerge come possibilità visuale”
(Mark Poster, 2006).
Viene spontaneo osservare che la maschera-scimmia di Better Man è, paradossalmente, più autentica di un volto umano: essa mostra ciò che la celebrità cancella – la frattura tra persona e personaggio. Una verità aumentata, che scompone il reale e lo reinterpreta. Il film dunque va ben oltre, pone una riflessione sul volto come costrutto sociale e digitale. Una critica all’industria dello spettacolo che trasforma l’identità in merce visiva, replicabile e manipolabile. La maschera digitale non è più solo strumento estetico ma sintomo culturale, specchio rivelatore della condizione contemporanea.
La Maschera antica: nascita di un dispositivo antropologico
L’origine della maschera si perde nelle pieghe del tempo, accompagnando l’uomo fin dalle più remote manifestazioni sociali. Oggetto liminale per eccellenza, plurale e polisemico, in esso si annida un paradosso che ha affascinato filosofi, antropologi e artisti per secoli: essa è presenza visibile di un’assenza, forma che dissimula e rivela, negazione del volto e al contempo sua moltiplicazione. Indossare una maschera, in ogni epoca, ha significato instaurare una distanza tra l’essere e l’apparire. Essa è un medium nel senso più ampio del termine: un’interfaccia tra i regimi dell’essere, che precede e anticipa molte delle tecnologie di rappresentazione e simulazione che oggi, nella contemporaneità digitale, ne sembrano raccogliere l’eredità. Osservando la storia dell’uomo, tracciandola rispetto al suo rapporto con la maschera, in una funzione antropologica e sociale, è possibile individuare cinque concezioni chiave del rapporto uomo-maschera nei secoli sino ad oggi, cercando qui di sintetizzarle.
→ La maschera rituale. Nelle culture tribali, dalla Nuova Guinea all’Africa subsahariana, passando per le Americhe precolombiane, la maschera individua la sua origine nel rituale e nella funzione sacra. Non raffigura ma agisce, e questo sin dai tempi più remoti della vita umana. Nelle ritualità pagane indossare una maschera voleva dire, e tuttora equivale, ad incarnare uno spirito, un antenato, una divinità. Il soggetto non recita una parte: è trasformato.
→ La maschera teatrale. Con la Grecia antica, la maschera compie un primo passo verso una dimensione orientativamente più estetica. Nel teatro classico, essa perde in parte la sua valenza sacra, pur conservando una funzione simbolica e performativa. Le maschere teatrali greche in lino o legno, spesso dotate di bocche spalancate per amplificare la voce, diventano dispositivi espressivi, capaci di veicolare ruoli e stati d’animo in modo universale.
→ La maschera sociale. Dal latino persona, termine originariamente legato proprio alla maschera teatrale (per-sonare, “risuonare attraverso”), deriva la moderna nozione di soggetto. La maschera diventa così anche strumento d’identificazione sociale. Ne parla con grande profondità Erving Goffman nel suo classico La vita quotidiana come rappresentazione (1956), in cui analizza il comportamento umano attraverso una lente teatrale: ogni individuo indossa maschere diverse a seconda del contesto, in una continua negoziazione dell’identità. Il sociologo canadese sostiene che la vita sociale sia regolata da performance: “l’individuo, nel suo agire quotidiano, si comporta come un attore su un palcoscenico” (Goffman, 1977). La maschera, dunque, si trasfigura in ruolo, in codice condiviso che permette la comprensione reciproca ma al tempo stesso nasconde il vero sé.
→ La maschera mediale. Con l’avvento dei media moderni — stampa, fotografia, cinema, televisione — la maschera cessa di essere un oggetto fisico da indossare. La sua funzione si internalizza e si virtualizza, trasformandosi in costruzione dell’identità attraverso la mediazione dello sguardo altrui e della macchina. È in questo senso che possiamo parlare di maschera mediale: una forma di mascheramento e smascheramento che si produce non più nel rito, ma nel dispositivo comunicativo stesso. Marshall McLuhan aveva intuito questo meccanismo già negli anni Sessanta, definendo i media come “estensioni del corpo” (McLuhan, 2024): in questo senso, la maschera mediale è l’estensione e la moltiplicazione del volto, la sua iscrizione in una grammatica visiva che eccede il soggetto. Nel linguaggio pubblicitario, nella musica pop, nei telegiornali, la maschera è ciò che costruisce la riconoscibilità di un’identità in assenza del corpo fisico. Essa vive nelle immagini, si sedimenta negli schermi, diventa simulacro di presenza. In tal senso la maschera mediale è il passaggio intermedio e cruciale tra la maschera sociale e la maschera simulacro, qui prende forma la tensione contemporanea tra essere e mostrare, rappresentare e performare, fino a culminare nelle odierne dinamiche di costruzione del sé nelle piattaforme digitale e nei mondi simulati.
→ La maschera simulacro. Nel contesto della tarda modernità e della società postmediale, la maschera cessa di essere un oggetto o un mezzo funzionale a nascondere o trasformare l’identità, per diventare simulacro: immagine senza origine, rappresentazione che non rimanda più a un reale, ma solo ad altre rappresentazioni. Questa trasformazione è al centro del pensiero di Jean Baudrillard, che in Simulacri e impostura afferma che nella cultura contemporanea viviamo all’interno di una realtà iper-costruita, dove i segni non sono più referenti del reale, ma circolano in modo autonomo, creando un universo di pura simulazione (cfr. Baudrillard, 2022). In questa condizione, la maschera non dissimula più un volto – poiché il volto stesso è già prodotto di un codice, di una retorica e infine di un dispositivo mediale – ma diventa sovrascrittura fluttuante, un’immagine che simula identità e presenze. Si tratta ormai di una maschera senza volto e senza soggetto referente, che esiste come interfaccia tra algoritmi, pixel e aspettative sociali.
Estetiche del simulacro: il volto sintetico dai videogiochi al cinema contemporaneo
In accordo alle teorie di Jean Baudrillard, oggi la maschera non è semplicemente un dispositivo identitario o una metafora teatrale, ma è paradigma della condizione postmoderna. A partire dall’opera succitata, egli teorizza un passaggio epocale: dalla rappresentazione del reale alla sua simulazione integrale. In tal ambito, il volto stesso – tradizionalmente inteso come luogo dell’autenticità del soggetto – si tramuta in simulacro senza referente. Dunque la simulazione secondo Baudrillard non è falsificazione del reale, bensì la sua sostituzione strutturale: non nasconde la verità, ma la cancella. In questo senso la maschera non è più uno strumento di velamento, ma addirittura un segno che produce realtà; o meglio, una sua iper-realtà (hyperréalité), nella quale l’immagine precede e struttura l’esperienza.
La maschera digitale contemporanea, dai filtri dei social media agli avatar sintetici generati tramite intelligenza artificiale e motion capture, si colloca pienamente in quest’ultima fase. Non è un inganno né una rappresentazione, ma una costruzione autonoma, In tale prospettiva, il volto non è più espressione del soggetto, ma interfaccia, modulabile, replicabile, personalizzabile. La tecnica del face tracking, le deepfake, gli “attori digitali” impiegati nel cinema contemporaneo (tra cui spiccano esempi come Gollum de Il signore degli anelli, Neytiri di Avatar o la scimmia antropomorfa di Better Man) non fanno che confermare la tesi baudrillardiana: ciò che vediamo non è un volto che interpreta, ma un simulacro che performa l’illusione del volto.
Questa smaterializzazione dell’identità visiva ha conseguenze antropologiche rilevanti: in una società in cui ogni volto è potenzialmente mascherabile, duplicabile, alterabile in tempo reale, l’idea stessa di autenticità viene meno. L’apparire sostituisce l’essere, l’immagine prende il posto del corpo, la simulazione si impone come unica realtà esperibile.
L’intuizione baudrillardiana della smaterializzazione del reale trova nel cinema del XXI secolo uno dei suoi laboratori più evidenti.
Tarnished, personaggio del videogame Elden Ring.
A partire dagli anni Duemila, infatti, l’evoluzione delle tecnologie digitali — in particolare motion capture, CGI, performance capture e più recentemente deep learning e neural rendering — ha consentito la nascita di una nuova generazione di maschere cinematiche, profondamente legate all’ontologia del simulacro. In tal modo, l’attore e il personaggio coesistono in una zona liminale: non si assiste più alla recitazione di un corpo, ma alla performance di un codice che simula l’umanità.
Nel medium videoludico la maschera digitale assume una funzione ulteriore, non solo rappresentativa, ma anche performativa e di partecipazione.
A differenza del cinema, dove lo spettatore è passivo di fronte al simulacro, nei videogiochi il soggetto è anche attore e autore dell’identità mascherata. L’avatar – ovvero l’incarnazione digitale del giocatore – è una maschera virtuale che non si limita a simulare, ma consente di agire all’interno di mondi sintetici. La costruzione del personaggio in giochi come The Sims (2000-2003), Cyberpunk 2077 (2020), o Elden Ring (2022) non è semplice estetica (come per il cinema), ma si tratta di una dichiarazione identitaria, un atto di mascheramento consapevole e spesso reiterato. Se Baudrillard parlava di simulacro come di una copia senza originale, in ambito videogiochi questa condizione si radicalizza: l’avatar non copia nulla ma esiste come entità performante, una maschera che può perfino sopravvivere al soggetto, agendo in qualità di identità autonoma, all’interno di un ecosistema diegetico che trascende la singola esperienza di gioco. In tal senso si entra in una realtà in cui il sé si dissolve nella funzione, e la maschera diventa l’unica modalità possibile dell’essere.
Ingmar Bergman e prime riflessioni sul cinema delle Maschere
Dagli antipodi del mezzo cinematografico, l’eredità del teatro è sempre emersa come una sua componente fondamentale: in particolare la presenza della maschera come dispositivo scenico, simbolico ed emotivo. Se nel teatro greco la maschera veniva impiegata nella definizione di ruoli, in necessità tecniche di amplificazione vocale e tipizzazione dei personaggi, nel cinema essa assume una funzione nuova. Non gioca a nascondere o rivelare l’identità, ma diviene superficie espressiva dell’inconscio, in qualità di metafora del doppio, del sé e dell’altro. L’osservazione e l’impiego della maschera attraversa il linguaggio cinematografico per l’intero Novecento: da Georges Méliès e il suo teatro dell’illusione, fino all’espressionismo tedesco, dove il volto deformato diventa proiezione visiva del turbamento interiore. Arrivando poi alla commedia dell’arte cinematografica italiana e al volto-icona del cinema muto, da Charlie Chaplin a Greta Garbo. In questo senso, il volto filmico è sempre già una maschera, anche quando non lo sembra. Gilles Deleuze osserva che nel cinema “il volto diventa paesaggio e il paesaggio volto” (Deleuze, 2016): la maschera cinematografica, allora, è il mezzo attraverso cui si costruisce non solo il personaggio, ma l’intera visione del mondo.
Bibi Andersson (a sinistra) e Liv Ullmann nei panni rispettivamente di Alma ed Elisabeth in Persona di Ingmar Bergman.
Un esempio paradigmatico è il cinema di Ingmar Bergman, in cui la maschera diviene segno dell’enigma ontologico dell’identità. In Persona (1966), la progressiva fusione tra i volti delle due protagoniste — Elisabeth e Alma — assume un valore tragico e metafisico: il volto-maschera si frantuma, si scambia, si sovrappone, in una tensione che mette in discussione la possibilità stessa di un’identità unitaria. Il celebre fotogramma in cui i due volti si fondono in un unico volto bifronte è una delle rappresentazioni più radicali della crisi dell’identità nel cinema moderno. Attraverso le sue immagini Bergman si interroga: che cos’è l’identità? Esiste un volto autentico, o ogni volto è una maschera che copre il nulla? La trama ruota intorno a due figure femminili — Elisabet Vogler, attrice che ha scelto volontariamente il silenzio, e Alma, l’infermiera incaricata di assisterla — la cui relazione evolve in una progressiva contaminazione dei ruoli e delle identità, fino alla fusione. Bergman stesso ha dichiarato:
“Io ho scritto questo film con una sola idea in testa: mettere insieme due volti di donna in un unico volto”
(Bergman, 2024).
Nel suo capolavoro la maschera diviene simbolo centrale di una crisi dell’identità e del linguaggio, grazie alla sua funzione drammatica e simbolica: la maschera non è più un orpello esterno, che si giustappone al volto, ma la condizione stessa dell’essere umano. La continua lotta disgregante tra il bisogno di nascondersi e la pulsione di essere riconosciuti. La scelta di Elisabeth di non parlare più è il gesto estremo di chi si rifiuta di partecipare al teatro sociale delle maschere. Questa riflessione sulla maschera attraversa altre opere di Bergman, come Il volto (1958), dove un illusionista mascherato mette in crisi il confine tra realtà e finzione; Il settimo sigillo (1957), in cui il volto della Morte è la maschera definitiva dell’inesprimibile; Scene da un matrimonio (1973), dove il dialogo coniugale svela le maschere emotive dietro le apparenze domestiche. Nel suo cinema il volto umano è un vero e proprio campo di battaglia, all’interno del quale si scopre che al di sotto della maschera non vi è un volto autentico, ma una moltitudine di altre maschere, e strati, fino al vuoto. In questa concezione, il cinema bergmaniano si distacca da quello classico, dove la maschera è mezzo di trasformazione, per diventare un luogo di crisi. A conoscenza dell’ineluttabile disgregazione dell’Io, Bergman individua il cinema come lo strumento privilegiato per mostrare la falsità del volto con assoluta lucidità.
L’evoluzione della maschera cinematografica: dal volto coperto al volto ricreato
La densità semantica della maschera nel corso della storia del cinema è più che evidente. Non soltanto come dispositivo scenico (nel teatro), ma anche come topos visivo, la maschera cinematografica si è trasformata nel tempo, riflettendo mutazioni antropologiche, tecnologiche e culturali della società. Dalla maschera fisica, giustapposta materialmente al volto dell’attore, si è giunti, nel cinema contemporaneo, a una maschera digitalmente simulata. Qui il volto stesso, abbiamo detto, è oggetto di manipolazione, duplicazione o sostituzione attraverso tecnologie avanzate come la motion capture o la performance capture. Osservando la più moderna produzione cinematografica, è possibile tracciare un’evoluzione della presenza “di mascheramento” nel cinema contemporaneo, conseguenza e riflesso del mutamento sociale circostante.
→ The Mask (1994). Un primo esempio paradigmatico è sicuramente il film The Mask di Chuck Russell (1994), in cui l’oggetto maschera (ispirato al folklore norreno) permette al protagonista di trasformarsi radicalmente, acquisendo poteri sovraumani. La maschera è qui intesa come agente di disinibizione, un dispositivo che dischiude la parte nascosta e caotica del soggetto – riprendendo implicitamente la lezione di Jung sull’ombra e quella di Luigi Pirandello sulle identità moltiplicate. La maschera è ancora fisica, visibile, un oggetto narrativo tangibile e narrativamente giustificato.
La maschera che raffigura il volto di Guy Fawkes e ripresa nel film ispirato al graphic novel di Alan Moore e David Lloyd, V per Vendetta.
→ V per Vendetta (2005). Con V per Vendetta (James McTeigue, 2005), si assiste a una svolta concettuale. La maschera di Guy Fawkes indossata dal protagonista — ispirata al graphic novel di Alan Moore e David Lloyd — non è soltanto un travestimento ma diviene icona collettiva. La maschera si stacca dall’individualità del soggetto e si fa simbolo di una resistenza ideologica. Questo film segna una soglia: da qui in poi, la maschera non è più soltanto un oggetto materiale ma una forma comunicativa, una semiotica in sé. Non a caso, la stessa maschera sarà adottata nel mondo reale dal collettivo Anonymous e da molte proteste globali (Occupy, WikiLeaks, etc.), sancendo l’inizio dell’epoca della maschera mediale.
La maschera scompare: Gollum, Avatar e il volto digitale
Con l’avvento delle tecnologie cinematografiche già citate, il concetto di maschera nel cinema muta radicalmente. Non è più un oggetto che si appone sul volto, ma una costruzione numerica che sostituisce o reinventa il volto stesso. Nel Il signore degli anelli, il personaggio di Gollum, interpretato da Andy Serkis, è uno dei primi esempi significativi di uso complesso della motion capture. Il corpo dell’attore è registrato digitalmente e successivamente elaborato per creare una figura digitale espressiva e credibile. Gollum non indossa una maschera: è la maschera. Il volto umano dell’attore viene trasceso in un ibrido visivo credibile ma impossibile, radicato in una nuova ontologia dell’immagine.
Questa linea evolutiva culmina in Avatar (2009), in cui gli attori interpretano i loro ruoli in ambienti virtuali e nei panni di creature aliene. La performance capture (una forma avanzata di motion capture che include anche espressioni facciali e movimenti oculari) consente la creazione di personaggi interamente digitali ma “abitati” da emozioni umane. Il volto reale non è più rappresentato, ma tradotto. La maschera non cela: si sostituisce.
Andy Serkis, il corpo “reale” di Gollum.
Viene spontaneo interrogarsi sul perché di questo cambiamento. Ebbene, la trasformazione della forma (morphé) della maschera è strettamente connessa a due fattori principali. In primo luogo l’evoluzione tecnologica. È un dato di fatto che sono le tecnologie digitali a permettere oggi di modellare, manipolare e simulare il volto umano con realismo crescente. La maschera è dunque software, un’interfaccia visiva tra attore e spettatore ormai. È una maschera simulacrale, in senso baudrillardiano: non imita, ma ricrea una realtà credibile e autonoma. In secondo luogo vi è la mutazione culturale del concetto di identità. In una società in cui l’identità è ormai fluida, sfaccettata, performativa e continuamente mediatizzata, la maschera digitale rappresenta perfettamente il paradosso postmoderno: un volto autentico che è del tutto fittizio, ma ugualmente espressivo. Come già analizzato, il recente Better Man spinge questa logica al limite, utilizzando tecnologie di motion picture per trasformare l’attore Robbie Williams in una scimmia antropomorfa. Non si tratta più di indossare un personaggio, ma di diventarlo in maniera virtuale. Il volto umano è assente, ma la performance, ugualmente credibile, è pienamente presente.
Maschere future: AI, realtà aumentata e dissoluzione dell’io
Dalla pelle al pixel: cosa resta dell’identità? Tra timori e teorie personali, penso che il quesito sia alquanto diffuso date le prospettive segnate. Con l’avvento della digitalizzazione estesa e dell’intelligenza artificiale generativa, la maschera ha ormai completato la sua metamorfosi: da oggetto plastico e teatrale a simulacro computazionale e dinamico. Il cinema, da sempre specchio antropologico privilegiato, ci restituisce oggi un’immagine sfuggente dell’identità: non più una superficie da celare o svelare, ma un flusso mutabile, ricreato in tempo reale, reversibile, modulare. La maschera non nasconde più un volto: lo sostituisce, lo moltiplica, lo dissolve. Come osserva Baudrillard nella sua teoria della simulazione, nella contemporaneità non assistiamo più alla messa in scena di qualcosa di reale, ma alla proliferazione di “modelli senza origine”, copie senza referente. La maschera oggi non è finzione che dissimula la verità, ma verità che non ha più nulla da dissimulare, perché la realtà stessa ormai si dissolve nell’immagine. Le tecnologie emergenti, dall’intelligenza artificiale ai dispositivi di realtà aumentata (AR) e virtuale (VR), stanno inaugurando una nuova fase dell’esperienza identitaria. L’adozione di avatar virtuali, deepfake emozionali e sistemi biometrici di riconoscimento facciale ci obbliga a ripensare radicalmente la nozione di sé o di altro da sé. Non si tratta più soltanto di interpretare ruoli, ma di esistere simultaneamente in molteplici forme. Nel metaverso o nei contesti di extended reality, la maschera è ormai invisibile ma onnipresente. Non viene percepita come maschera perché è l’unica forma d’apparizione possibile. La stabilità della soggettività moderna, fondata sull’integrità del volto, viene erosa e messa in crisi a favore di un’identità fluida, avatarizzata, discontinua.
Immagine generata dall’intelligenza artificiale.
L’AI generativa come ChatGPT, DALL·E, Sora o Synthesia consente già oggi di produrre volti umani sintetici con tale realismo da risultare indistinguibili da quelli reali. Ma a chi appartengono quei volti? Chi parla attraverso quelle maschere? È qui che si colloca la nuova crisi ontologica dell’identità: non nel rapporto tra vero e falso, ma tra umano e post-umano.
In qualità di arte visiva fondata sulla rappresentazione e sulla costruzione dell’identità, il cinema si è rivelato uno strumento diagnostico formidabile per osservare le trasformazioni della maschera nella società contemporanea. Dai volti prostetici della classicità, alle maschere simboliche del cinema politico, fino agli avatar fotorealistici generali digitalmente, la settima arte ha raccontato l’evoluzione del soggetto moderno e postmoderno.
Il volto umano, che Emmanuel Lévinas definiva “rivelazione dell’etica” (Lévinas, 2023), si è progressivamente smaterializzato in immagine, codice, pattern digitale. Il cinema, nel suo oscillare tra documentazione e simulazione, ha mostrato come l’essere si sia sempre più legato al mostrarsi – e oggi anche al venire generati.
Nel film Persona di Bergman, la maschera era ancora un confine fragile tra l’io e l’altro, tra espressione e repressione.
Oggi, quel confine si è fatto poroso, talvolta inesistente: se la maschera non cela più, è obbligata a produrre l’identità. In un mondo in cui il reale è filtrato, aumentato, simulato, e in cui l’identità è continuamente negoziata tra realtà fisica e ambienti digitali, la maschera non è più un orpello o un travestimento. È diventata una condizione ontologica, una struttura necessaria. Ma se la maschera è ovunque – se ogni volto è già maschera – allora la domanda finale non è più “chi siamo dietro la maschera?”, ma piuttosto: chi saremmo senza di essa?
Nella mutazione dalla pelle al pixel, ciò che rischiamo in realtà non è la perdizione dell’identità stabile, quanto piuttosto il desiderio stesso di cercarla. E il cinema, in qualità di specchio inquieto di questa condizione, continuerà forse a mostrarci – nel volto dell’altro, nell’occhio digitale, nella maschera che ride o piange – il nostro ultimo riflesso umano.
*“If someone’s wearing a mask, he’s gonna tell you the truth. If he’s not wearing a mask, it’s highly unlikely”.
- Jean Baudrillard, Simulacri e impostura, Pgreco, Milano, 2022.
- Ingmar Bergman, Immagini, Cue Press, Imola, 2024.
- Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Einaudi, Torino, 2016.
- Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna, 1997.
- Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 2023.
- Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Edizioni Olivares, Milano, 2002.
- Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 2024.
- Mark Poster, Information Please: Culture and Politics in the Age of Digital Machines, Duke University Press, Durham, USA, 2006.
- Ingmar Bergman, Persona, Eagle Pictures, 2023 (home video).
- James Cameron, Avatar, 20th Century Fox Home Entertainment, 2013 (home video).
- CD Projekt RED, Cyberpunk 2077, CD Projekt, 2020.
- Fromsoftware Inc., Elden Ring, Bandai Namco Entertainment, FromSoftware, 2022.
- Michael Gracey, Better Man, Lucky Red, 2025.
- McTeigue, V per Vendetta, Warner Home Video, 2008 (home video).
- Peter Jackson, Il signore degli anelli. La trilogia, Terminal Video, 2021 (home video).
- Chuck Russell, The Mask, Warner Home Video, 2024 (home video).
- Martin Scorsese, Rolling Thunder Revue. Martin Scorsese racconta Bob Dylan, Netflix, 2019.
- Will Wright, The Sims, Maxis, Electronic Arts, 2000-2003.